domenica 7 luglio 2019

Furio Colombo canta la canzone del mare.


Oggi Furio Colombo, che proprio non riesce a stare in silenzio nemmeno per pochi giorni, canta la canzone del mare (“Chi è il proprietario del mare”). Ma il suo articolo non è musica, non è poesia, non è politica, non è storia, non è mitologia, non è autobiografia, non è invenzione, non è sogno. Che cos’è, dunque? E' forse teologia, ma soprattutto è pura chiacchiera verbosa, piena di imprecisioni se non di falsità, con insulti a Salvini e alla maggioranza del popolo italiano, ispirati da un animus umanitario pieno di presunzione, e quindi falso.
“Un Paese  fatto di mare che deve tutto al mare e continua a goderne gli immensi vantaggi anche mentre un pugno di umanità disperata [ah sì, proprio un pugno!]  sbarca o tenta di sbarcare,  e per giunta esalta i suoi peggiori cittadini e chiude i porti da cui ti giunge tuttora più ricchezza che a ogni altro Paese europeo, è difficile da aiutare”.
Mi chiedo che razza di ragionamento sia mai questo. La conclusione dell'articolo è ancora più imbarazzante: “chiudere i porti… e dunque chiudere il mare, che dona molto ma non conosce padroni [siamo alla teologia di dom Franzoni: la terra è di Dio!], è un progetto a cui nessuna persona mentalmente serena vorrà partecipare”.
Che stoccata da maestro a qualche decina di milioni di italiani! Quando si è sordi e ciechi di fronte alla realtà, ci si soddisfa con qualche paroletta.
Per finire, questa retorica del mare, che per l'Italia sarebbe stato, come sostiene Colombo, un destino sempre assolutamente buono, non mi pare che regga a tutte le prove della storia. Il mare non ha avuto per noi, almeno negli ultimi cinque secoli, nemmeno lontanamente la straordinaria importanza strategica, come fonte di ricchezza e baluardo difensivo, che ha avuto, per esempio, per la Gran Bretagna, e oggi è anzi un elemento di fragilità e di debolezza.

lunedì 17 giugno 2019

Furio Colombo sul Fatto Quotidiano: illuminismo di seconda mano.

















Anche in un articolo breve (come quello odierno sul libro di Walter Veltroni “Roma”), Furio Colombo profonde la sua logorrea. E riesce a mettere insieme concetti e giudizi così disparati, incoerenti e arbitrari che per sottolinearli tutti ci vorrebbe la pazienza dello shangai, il gioco più lento del mondo. Che Veltroni sia uno scrittore “accorto e pacato”, può darsi (io però preferisco definirlo, senza eufemismi, “piatto e noioso”), ma che come sindaco abbia lavorato “con una vera e propria volontà di governo”, penso che non ci creda quasi nessuno. Affermare che “il mondo (non solo in Italia) è paurosamente cambiato dopo l’avvento di Trump”, rivela una preoccupante ossessione che vorrebbe far sembrare idilliaco il mondo precedente. Il mondo cambiava velocissimamente già prima di Trump e quei cambiamenti (non voglio elencare le guerre fatte dagli USA) erano già molto spaventosi. Dire che Veltroni, nel suo “caldo e civile” intervento su Repubblica, abbia vissuto l’accoglienza ai migranti “allo stesso tempo come un dovere e una festa”, coglie forse un sentimento sincero. Veltroni è pur sempre il dolce Veltroni, campione di ma-anchismo (il dovere, sì, però anche la festa!!). Ma che Furio Colombo, consentendo con lui, avvalori quei sentimenti zuccherosi come gli unici giusti e indiscutibili, è una mistificazione della realtà. Altra più grave mistificazione è tirare in ballo i fantasmi di Gobetti, Lussu e dei fratelli Rosselli come oppositori della legge “Sicurezza bis”. E' sicuro Furio Colombo che quei grandi uomini del passato su un fenomeno imponente, complesso e ambiguo come l’immigrazione avrebbero oggi le sue stesse idee? E poi: che cosa ha a che fare con loro il nostro giornalista poligrafo e grafomane?
Anche l’ultima frase di Colombo è una insopportabile mistificazione, perché, con ridicolo pathos ciceroniano, dà di un fatto tragico una rappresentazione semplificata e piatta come la scena di un fumetto. 
"Fino a quando vorremo vivere in un Paese in cui si porta in trionfo come un simbolo della Repubblica uno che spara dal balcone sette colpi alla schiena di un ladruncolo in fuga?". Quella persona indicata con tanto disprezzo ("uno") aveva subìto già molti furti e non viene portata in trionfo, ma semmai giustificata; la parola "ladruncolo" è un eufemismo ipocrita; i rapinatori erano tre; le indagini sono ancora in corso e le certezze di Colombo sono arbitrarie.
Quando le idee non sanno tener conto dei sentimenti e anzi, ignorandoli, vogliono imporsi con superbia alla realtà, la pietà è finta e lo sdegno è retorico. Di autentico, c'è solo la presunzione.

sabato 15 giugno 2019

Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri. Oscar Mondadori, 1989.


Questa scelta di pensieri dallo Zibaldone include solo le annotazioni filosofiche e morali e non anche quelle filologiche, linguistiche ed erudite, e conta circa 1200 pagine. Questo sorprendente e impetuoso flusso di pensieri è espresso in una prosa al tempo stesso robusta, chiara e delicata che, pur essendo molto analitica e precisa, ha una forza, nettezza e profondità di giudizi e una energia di vita che la rendono personalissima e avvincente. Mi sembra inadeguato il giudizio di Luigi Russo, che parla di “esercizi prosastici dello Zibaldone” (Ritratti e disegni storici. Dall’Alfieri al Leopardi, 1946e preferisce ad essi, di gran lunga, la prosa delle lettere. Preferenza del tutto legittima, naturalmente, che però riconosce poco merito allo Zibaldone. "Il merito di queste pagine sparse consiste principalmente nel fatto che tutto vi è trasportato e rasserenato sul piano della letteratura". Intanto, io non definirei lo Zibaldone una raccolta di 'pagine sparse'.  Un conto è negargli, giustamente, il carattere di opera organica, un altro, ben più riduttivo, è attribuirgli lo spirito eclettico di un osservatore distaccato e quasi disinteressato che fa 'esercizi prosastici' per commentare le proprie letture. Nello Zibaldone, invece, l'ispirazione è unica: larga, profonda e compatta. Ma Luigi Russo insiste: "La fortuna dello Zibaldone nei nostri tempi è giustificata appunto da questo carattere suo meramente e strenuamente letterario. La trasfigurazione di sensazioni, sentimenti, pensieri in letteratura ... è il suo miglior merito". Qui Russo per 'letteratura' intende il genere oratorio, la declamazione, la manifestazione formalmente corretta e emotivamente oggettivata del proprio pensiero: tutte forme espressive interessanti, ma lontane dalla qualità dell'arte. A me sembra, però, che Russo si lasci così sfuggire il pregio principale dell’opera. Lo Zibaldone non ha certo un tono di confessione né vuole minimamente essere un diario intimo, però i pensieri che Leopardi vi esprime sono convinzioni che vibrano della vita intera del poeta.
Una ulteriore conferma di questa incomprensione di Luigi Russo è data da un’altra sua osservazione. Leopardi contrappone continuamente il mondo moderno al mondo antico, la civiltà alla natura, la ragione all’entusiasmo e alle illusioni. E’ chiaro che il mondo antico è per lui un ineliminabile punto di vista da cui giudicare il decadimento e la corruzione del tempo presente, un indispensabile termine di paragone. Ma secondo Luigi Russo l’evo antico è soltanto “una cara ossessione della mente leopardiana”. 
A Russo è sfuggito anche un altro prezioso aspetto dell'importanza che il mondo antico ha per Leopardi. "L'antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni... Perchè ciò?, si chiede il poeta, per la tendenza dell'uomo all'infinito... il concepire che fa l'anima uno spazio di molti secoli produce una sensazione indefinita, l'idea di un tempo indeterminato, dove l'anima si perde".
Le idee di Leopardi, il quale disprezza come superba la concezione dell'uomo come essere perfettibile, sono troppo acute, realistiche e lungimiranti per Russo. Come potrebbe questo idealista, che ha una fiducia incondizionata nelle possibilità di sviluppo dello spirito umano, apprezzare un pensiero così poco tranquillizzante?
E in genere si può dire che la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo  una nazione, e tutte le nazioni una sola persona. Non c’è più vestito proprio di nessun popolo […] Quando saremo tutti uguali, lascio stare che bellezza che varietà troveremo nel mondo, ma domando io che utile ce ne verrà? […] Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principii nei costumi nel vizio nell’egoismo ec. Sono tutti uguali e tutti separati, laddove anticamente erano tutti diversi e tutti uniti”.
I pensieri di Leopardi, se Russo li accettasse, brucerebbero e dissolverebbero l'ispirazione educativa e predicatoria del grande critico siciliano. Ma Russo fa barriera e anzi satireggia i letterati del Novecento entusiasti di Leopardi e del suo Zibaldone. "Sono le scoperte degli autodidatti, sempre fanatiche e accese, e anche ridicole, come quelle di chi di tratto in tratto trova la chiave della lingua etrusca e rinviene le perdute deche di Tito Livio".

mercoledì 12 giugno 2019

Ospedale Maggiore di Bologna. Reparto urologia. -

Vorrei raccontare una piccola storia di ordinaria assistenza sanitaria. Ho 77 anni. Nel febbraio 2016 passai una visita urologica all’ospedale di Porretta Terme (medici dell’Ospedale Maggiore di Bologna). Quel medico mi prescrisse un farmaco a pagamento che non avevo mai usato. Gli chiesi se poteva darmi il numero del suo cellulare, nel caso avessi avuto bisogno di chiarimenti o consigli. Rispose che il suo numero lo dava solo ai pazienti privati. Bravo! Lui medico, la moglie - mi raccontò - avvocato: una perfetta associazione di arti e mestieri che in Italia può prosperare in modo tranquillamente parassitario ! Mi prenotò anche due analisi di laboratorio, che feci a Bologna nel settembre e ottobre 2016. Dopo la seconda analisi, un nuovo medico mi mise in lista di attesa per un intervento chirurgico (era il 28 ottobre 2016: un secolo fa!). Da allora, ogni sette o otto mesi ho ricevuto una telefonata dall’Ospedale di Bologna: “Vuole sempre rimanere in lista?”. “Sì, ma quando mi chiamate?”. “Telefoni a questo numero”. A quel numero non rispondeva nessuno. L’ultima telefonata, sempre con la solita domanda, l’ho ricevuta poco fa, il 27 maggio 2019. Dopo due anni e sette mesi di attesa, ho  risposto sfiduciato che andassero a quel paese e che cancellassero pure il mio nome dalla lista. Pochi giorni dopo, ho ricevuto un telegramma con cui l’Ospedale mi comunicava che, su mia richiesta, ero stato depennato dalla lista dei pazienti in attesa di intervento. I burocrati della sanità si sono affrettati ad ufficializzare la mia rinuncia a tempo di record, sottolineandone il carattere spontaneo! Il loro calcolo ipocrita presumo sia stato questo. La legge stabilisce che i malati hanno diritto all'assistenza sanitaria e che i medici hanno il dovere di garantirla. Anche se il malato aspetta per anni, il suo diritto rimane sempre intatto; e il dovere di curare non viene mai negato da parte dei medici. La Costituzione sovietica del 1936 garantiva, in astratto, i diritti inalienabili del cittadino, e fu vantata come la costituzione più democratica del mondo. Nella pratica, certo, i cittadini potevano essere fucilati o arrestati con un pretesto qualsiasi, ma queste violazioni criminali erano giustificate come accidenti, inciampi, ritardi contingenti della faticosa vita sociale ed economica di quell'epoca. La sfera ideale del diritto codificato, però, continuava ad essere presentata come un'eccellenza. Da noi, analogamente, i propagandisti della politica progressista si sgolano a vantare l'eccellenza del nostro sistema sanitario, che assicura a tutti assistenza medica gratuita. I ritardi di anni sono ignorati o giustificati come intoppi sporadici e passeggeri, anche se spiacevoli. E se alla fine il paziente rinuncia, lo fa, per carità! spontaneamente: la burocrazia sanitaria è sempre stata e rimane al servizio del cittadino e si tutela con un immediato telegramma, come gli inquisitori sovietici si tutelavano con una 'spontanea' confessione del condannato.

martedì 4 giugno 2019

Due libri di Silvio Lanaro (1942-2013).


Fino a poche settimane fa conoscevo appena il nome dello storico Silvio Lanaro; non sapevo che cosa avesse scritto e quali fossero le sue idee. Solo in qualche recente lettura ho trovato notizia delle sue originali opere sulla storia dell’Italia contemporanea e della sua interpretazione del fascismo come fenomeno che ha radici nel Risorgimento. Basta dunque con la concezione aulica e patriottarda del Risorgimento, sbandierata da personaggi gaudiosi come Corrado Augias!
Per assecondare il mio improvviso entusiasmo, avrei voluto acquistare subito almeno i libri più importanti di Lanaro, ma poi, venuto a più miti… calcoli, li ho chiesti in prestito a una lontana biblioteca del bolognese. Nell’attesa, cercavo in Internet notizie e immagini di questo storico ormai scomparso; e ho provato, in anticipo, simpatia e stima persino per la sua faccia rubizza di oste o di vignaiolo.
Arrivato il primo libro, “Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925”, mi ci sono buttato a capofitto, pronto a copiarlo dalla prima all’ultima pagina. L’introduzione non è stata facilissima. Certi periodi hanno un po’ raffreddato il mio slancio. Per esempio, questo:
“Nessuno di questi approcci [di Asor Rosa, Bobbio, Garin] valorizza le forme di perorazione pragmatica, di razionalizzazione partigiana del mondo empirico, di tessitura incondita ma vigorosa della stereotipia mentale, che sono specialmente utili per capire la storia delle classi dirigenti – come delle classi subalterne, del resto – nei periodi di dinamismo economico-sociale”.
Ma mi sono detto: qui siamo ancora ad una esposizione molto sintetica ed astratta degli argomenti. La ‘polpa’ arriverà col primo capitolo.
E invece no.
Lo stile e i concetti sono diventati sempre più astratti, contorti e allusivi. Cito a caso:
“Nei paesi industrialmente evoluti la natura irreversibile di questa ‘crisi’ che incombe viene scontata fino all’ultimo. Ciò fa sì che risposta razionalizzatrice e rifiuto vitalistico dell’umanesimo liberale seguano percorsi molto distanziati: dove non esistono scorciatoie, perché i doni dello sviluppo sono già stati spesi, la volontà di costruire una disciplina fattuale dell’anarchia capitalistica appare inconciliabile con il disadattamento di chi si sente estraneo a una realtà e tuttavia non riesce a superarla – data la propria ostinazione a pensare in termini di valore – senza rifugiarsi nell’utopia, o nella regressione escatologica”.
A questo punto, ho chiuso il libro, deciso a restituirlo e ho gettato nel cestino le schede scritte fino a quel momento.
Ma poi ho pensato che il secondo capitolo, che analizza opere letterarie e filosofiche, poteva essere più concreto e vivo. Invece, niente. Evidentemente Lanaro sapeva pensare solo in questo modo libresco e aggrovigliato.
Cito ancora due esempi.
Il primo:
“Nell’universo ‘reazionario’ di Cesare Cantù – un nome che è tutto un programma – il concetto di lavoro occupa ancora una posizione privilegiata. Ma il suo non è né il lavoro-work degli smilesiani laici, che interpone fra l’uomo e la natura una catena di res, di frutti dell’alacrità e dell’ingegno; né il lavoro-job degli ergometristi della scuola positiva, che è una somma di gesti scomponibili e misurabili scientificamente in vista della massima economia di sforzo; né il lavoro-capitale dei socialisti della cattedra, impegnati a inseguire la forma ideale del salario per disperdere una ‘forza’ – la classe operaia – già potenzialmente organizzata sul terreno sociale. Il suo è il lavoro-labour […] il lavoro-fatica, insomma, funzione del sostentamento fisiologico…”   
Il secondo esempio:
“Un itinerario non dissimile percorre Napoleone Colajanni, da quando incomincia a rimpiazzare il suo repubblicanesimo sociale con proposte di aggregazione politica più consone alle prerogative di un ‘progresso economico’ che sa cancellare le stratificazioni di classe”.
Ho dunque rinunciato definitivamente al libro, contento di non averlo acquistato.
Non credo che si possa dire che il modo di scrivere di Lanaro sia uno stile personale e originale e che, per questo motivo, sia necessariamente difficile. Io lo trovo identico, ugualmente faticoso e sfuggente, a quello di altri storici e di altri critici. Scrivere in modo chiaro, concreto e logico è difficile perché (dando per scontato - il che non accade sempre - che le idee siano chiare almeno nella testa dell'autore) presuppone un fervore di convinzioni e un sentimento di partecipazione che scarseggiano nei professori e negli accademici. Fra costoro i tiepidi sono maggioranza: alcuni di loro scrivono in modo facile e banale; i più si esprimono in modo arido e ostentatorio, e seguono una specie di grammatica normativa del linguaggio universitario che è stata codificata nel tempo.
….
La “Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta”, pubblicata nel 1992, tredici anni dopo “Nazione e lavoro”, è un originale e interessante manuale universitario di storia e di sociologia. Oltre che alle vicende politiche, infatti, dà largo spazio a tutto ciò che accade nella società: cinema, letteratura, musica leggera, calcio e ciclismo, programmi televisivi, fumetti, pubblicità, ecc. Davvero troppo, per essere solo un manuale! Questo desiderio di completezza, in un libro di poche centinaia di pagine, si risolve in una sintesi dove i fenomeni sono poco più che accennati, mentre – visto che Lanaro ne ha voluto parlare – gli effetti disgregatori di televisione, pubblicità e sport meritavano un maggiore approfondimento e una valutazione più preoccupata.
Sono interessanti le pagine dedicate a Giovanni Guareschi e a Leo Longanesi, alla contestazione studentesca del ’68 e all’assassinio di Aldo Moro. Ma il quadro d’insieme disegnato da Lanaro non è saldo né coerente.
L’epoca di Berlusconi e dei suoi epigoni era ancora di là da venire, e già Lanaro, giustamente, parlava degli “scempi della sempiterna partitocrazia”, della “frammentazione morale e civile che ha accompagnato l’unificazione economica e mediologica del sistema Italia”, della “scomparsa di ogni senso di solidarietà e di cittadinanza sociale collettiva”. Ma subito dopo, nella pagina seguente, che è quella che conclude l’opera, fa una professione di ottimismo fondato sul niente, solo sul suo pio e libresco sentimento patriottico e progressista.
“Ancora una volta, comunque, sarebbe fuori luogo drammatizzare, perché se solo si volesse procedere a un nuovo reclutamento della classe politica si vedrebbe che esistono in molti ambienti – nel mondo delle professioni, del volontariato, delle associazioni di categoria, degli istituti per la ricerca applicata – intelligenza e determinazione sufficienti a curare l’ammalato senza farlo troppo soffrire”. E Lanaro conclude definitivamente il libro con questa perla:
“… è forse lecito augurarsi che questo paese ormai ricco e sviluppato (anche nel Mezzogiorno, contrariamente alle opinioni che corrono) riesca almeno per una volta a normalizzare la propria vita pubblica senza eccessi di sudore e di lacrime”.
Da quel “lecito augurio” sono trascorsi ben 27 anni. Lanaro, con tutta la sua onniscienza, non si era accorto, nel formularlo,  che il paese “ormai ricco e sviluppato” era sull’orlo del baratro. Da allora non fa altro che scivolarvi dentro, sempre più in basso.

martedì 14 maggio 2019

Ferruccio de Bortoli, un intellettuale porporato.


Il giornalista Ferruccio de Bortoli ha pubblicato presso Garzanti il suo ultimo libro “Ci salveremo”. Conoscendo un poco la sua natura curiale, solo per curiosità ho letto l’intervista, sul Fatto quotidiano del 9 maggio, nella quale l’autore sintetizza gli argomenti della sua opera. La sua conclusione è questa: “… ci salveremo riscoprendo il senso civico, il rispetto del bene comune, la legalità, i doveri della cittadinanza”. Perbacco, com’è facile salvarsi! Perché indugiamo?
Le dolci banalità di de Bortoli servono solo, come un inutile cataplasma, a nascondere la profondità delle nostre piaghe.
Rispondendo a un’altra domanda, de Bortoli lamenta il fatto che l’appartenere a un partito protegga spesso i politici da inchieste giudiziarie e sia considerato più importante della legalità. Ciò “è devastante”, dichiara coraggiosamente. Ma subito dopo attenua: “Non stupiamoci poi se all’estero, magari con una dose di faciloneria, ci considerano un Paese corrotto e pieno di evasori fiscali”.
Ora, questa frase - tutta intera - , a parte lo sforzo di de Bortoli di tenersi in equilibrio, è un chiaro indizio della sua pallida natura. Gli italiani onesti vessati da illegalità e corruzione si preoccupano davvero di come è considerata l’Italia all’estero? Solo un tiepido porporato cosmopolita come de Bortoli poteva avere al primo posto un pensiero così frivolo.

sabato 11 maggio 2019

Aldo Moro, dalle lettere dalla prigionia. A Benigno Zaccagnini: "Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza".

Giancarlo Caselli ha scritto la prefazione al libro di Miguel Gotor "Io ci sarò  ancora. Il delitto Moro e la crisi della Repubblica".
Caselli ricorda che all'epoca del sequestro molti politici e intellettuali sostenevano che le lettere scritte da Moro durante la prigionia fossero estorte o condizionate e non fossero sincere.
"Penso non sia così: più leggo le lettere di Moro e studio la vicenda, più cresce in me un'ammirazione sconfinata per quest'uomo... Moro era ben presente a se stesso con tutta la sua intelligenza, la sua diplomazia politica, la sua capacità di analisi. Ha sempre scritto con estrema lucidità...".
"Un quadro torbido nel quale a stagliarsi è la figura di Aldo Moro. Una figura che merita più di ogni altra rispetto. Un rispetto assoluto".