martedì 4 giugno 2019

Due libri di Silvio Lanaro (1942-2013).


Fino a poche settimane fa conoscevo appena il nome dello storico Silvio Lanaro; non sapevo che cosa avesse scritto e quali fossero le sue idee. Solo in qualche recente lettura ho trovato notizia delle sue originali opere sulla storia dell’Italia contemporanea e della sua interpretazione del fascismo come fenomeno che ha radici nel Risorgimento. Basta dunque con la concezione aulica e patriottarda del Risorgimento, sbandierata da personaggi gaudiosi come Corrado Augias!
Per assecondare il mio improvviso entusiasmo, avrei voluto acquistare subito almeno i libri più importanti di Lanaro, ma poi, venuto a più miti… calcoli, li ho chiesti in prestito a una lontana biblioteca del bolognese. Nell’attesa, cercavo in Internet notizie e immagini di questo storico ormai scomparso; e ho provato, in anticipo, simpatia e stima persino per la sua faccia rubizza di oste o di vignaiolo.
Arrivato il primo libro, “Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925”, mi ci sono buttato a capofitto, pronto a copiarlo dalla prima all’ultima pagina. L’introduzione non è stata facilissima. Certi periodi hanno un po’ raffreddato il mio slancio. Per esempio, questo:
“Nessuno di questi approcci [di Asor Rosa, Bobbio, Garin] valorizza le forme di perorazione pragmatica, di razionalizzazione partigiana del mondo empirico, di tessitura incondita ma vigorosa della stereotipia mentale, che sono specialmente utili per capire la storia delle classi dirigenti – come delle classi subalterne, del resto – nei periodi di dinamismo economico-sociale”.
Ma mi sono detto: qui siamo ancora ad una esposizione molto sintetica ed astratta degli argomenti. La ‘polpa’ arriverà col primo capitolo.
E invece no.
Lo stile e i concetti sono diventati sempre più astratti, contorti e allusivi. Cito a caso:
“Nei paesi industrialmente evoluti la natura irreversibile di questa ‘crisi’ che incombe viene scontata fino all’ultimo. Ciò fa sì che risposta razionalizzatrice e rifiuto vitalistico dell’umanesimo liberale seguano percorsi molto distanziati: dove non esistono scorciatoie, perché i doni dello sviluppo sono già stati spesi, la volontà di costruire una disciplina fattuale dell’anarchia capitalistica appare inconciliabile con il disadattamento di chi si sente estraneo a una realtà e tuttavia non riesce a superarla – data la propria ostinazione a pensare in termini di valore – senza rifugiarsi nell’utopia, o nella regressione escatologica”.
A questo punto, ho chiuso il libro, deciso a restituirlo e ho gettato nel cestino le schede scritte fino a quel momento.
Ma poi ho pensato che il secondo capitolo, che analizza opere letterarie e filosofiche, poteva essere più concreto e vivo. Invece, niente. Evidentemente Lanaro sapeva pensare solo in questo modo libresco e aggrovigliato.
Cito ancora due esempi.
Il primo:
“Nell’universo ‘reazionario’ di Cesare Cantù – un nome che è tutto un programma – il concetto di lavoro occupa ancora una posizione privilegiata. Ma il suo non è né il lavoro-work degli smilesiani laici, che interpone fra l’uomo e la natura una catena di res, di frutti dell’alacrità e dell’ingegno; né il lavoro-job degli ergometristi della scuola positiva, che è una somma di gesti scomponibili e misurabili scientificamente in vista della massima economia di sforzo; né il lavoro-capitale dei socialisti della cattedra, impegnati a inseguire la forma ideale del salario per disperdere una ‘forza’ – la classe operaia – già potenzialmente organizzata sul terreno sociale. Il suo è il lavoro-labour […] il lavoro-fatica, insomma, funzione del sostentamento fisiologico…”   
Il secondo esempio:
“Un itinerario non dissimile percorre Napoleone Colajanni, da quando incomincia a rimpiazzare il suo repubblicanesimo sociale con proposte di aggregazione politica più consone alle prerogative di un ‘progresso economico’ che sa cancellare le stratificazioni di classe”.
Ho dunque rinunciato definitivamente al libro, contento di non averlo acquistato.
Non credo che si possa dire che il modo di scrivere di Lanaro sia uno stile personale e originale e che, per questo motivo, sia necessariamente difficile. Io lo trovo identico, ugualmente faticoso e sfuggente, a quello di altri storici e di altri critici. Scrivere in modo chiaro, concreto e logico è difficile perché (dando per scontato - il che non accade sempre - che le idee siano chiare almeno nella testa dell'autore) presuppone un fervore di convinzioni e un sentimento di partecipazione che scarseggiano nei professori e negli accademici. Fra costoro i tiepidi sono maggioranza: alcuni di loro scrivono in modo facile e banale; i più si esprimono in modo arido e ostentatorio, e seguono una specie di grammatica normativa del linguaggio universitario che è stata codificata nel tempo.
….
La “Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta”, pubblicata nel 1992, tredici anni dopo “Nazione e lavoro”, è un originale e interessante manuale universitario di storia e di sociologia. Oltre che alle vicende politiche, infatti, dà largo spazio a tutto ciò che accade nella società: cinema, letteratura, musica leggera, calcio e ciclismo, programmi televisivi, fumetti, pubblicità, ecc. Davvero troppo, per essere solo un manuale! Questo desiderio di completezza, in un libro di poche centinaia di pagine, si risolve in una sintesi dove i fenomeni sono poco più che accennati, mentre – visto che Lanaro ne ha voluto parlare – gli effetti disgregatori di televisione, pubblicità e sport meritavano un maggiore approfondimento e una valutazione più preoccupata.
Sono interessanti le pagine dedicate a Giovanni Guareschi e a Leo Longanesi, alla contestazione studentesca del ’68 e all’assassinio di Aldo Moro. Ma il quadro d’insieme disegnato da Lanaro non è saldo né coerente.
L’epoca di Berlusconi e dei suoi epigoni era ancora di là da venire, e già Lanaro, giustamente, parlava degli “scempi della sempiterna partitocrazia”, della “frammentazione morale e civile che ha accompagnato l’unificazione economica e mediologica del sistema Italia”, della “scomparsa di ogni senso di solidarietà e di cittadinanza sociale collettiva”. Ma subito dopo, nella pagina seguente, che è quella che conclude l’opera, fa una professione di ottimismo fondato sul niente, solo sul suo pio e libresco sentimento patriottico e progressista.
“Ancora una volta, comunque, sarebbe fuori luogo drammatizzare, perché se solo si volesse procedere a un nuovo reclutamento della classe politica si vedrebbe che esistono in molti ambienti – nel mondo delle professioni, del volontariato, delle associazioni di categoria, degli istituti per la ricerca applicata – intelligenza e determinazione sufficienti a curare l’ammalato senza farlo troppo soffrire”. E Lanaro conclude definitivamente il libro con questa perla:
“… è forse lecito augurarsi che questo paese ormai ricco e sviluppato (anche nel Mezzogiorno, contrariamente alle opinioni che corrono) riesca almeno per una volta a normalizzare la propria vita pubblica senza eccessi di sudore e di lacrime”.
Da quel “lecito augurio” sono trascorsi ben 27 anni. Lanaro, con tutta la sua onniscienza, non si era accorto, nel formularlo,  che il paese “ormai ricco e sviluppato” era sull’orlo del baratro. Da allora non fa altro che scivolarvi dentro, sempre più in basso.

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