Fino a poche settimane fa conoscevo appena il nome dello storico Silvio
Lanaro; non sapevo che cosa avesse scritto e quali fossero le sue idee. Solo in
qualche recente lettura ho trovato notizia delle sue originali opere sulla
storia dell’Italia contemporanea e della sua interpretazione del fascismo come
fenomeno che ha radici nel Risorgimento. Basta dunque con la concezione aulica
e patriottarda del Risorgimento, sbandierata da personaggi gaudiosi come
Corrado Augias!
Per assecondare il mio improvviso entusiasmo, avrei voluto acquistare
subito almeno i libri più importanti di Lanaro, ma poi, venuto a più miti…
calcoli, li ho chiesti in prestito a una lontana biblioteca del bolognese.
Nell’attesa, cercavo in Internet notizie e immagini di questo storico ormai
scomparso; e ho provato, in anticipo, simpatia e stima persino per la sua
faccia rubizza di oste o di vignaiolo.
Arrivato il primo libro, “Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese
in Italia, 1870-1925”, mi ci sono buttato a capofitto, pronto a copiarlo dalla
prima all’ultima pagina. L’introduzione non è stata facilissima. Certi periodi
hanno un po’ raffreddato il mio slancio. Per esempio, questo:
“Nessuno di questi approcci [di Asor Rosa, Bobbio, Garin] valorizza
le forme di perorazione pragmatica, di razionalizzazione partigiana del mondo
empirico, di tessitura incondita ma vigorosa della stereotipia mentale, che
sono specialmente utili per capire la storia delle classi dirigenti – come
delle classi subalterne, del resto – nei periodi di dinamismo
economico-sociale”.
Ma mi sono detto: qui siamo ancora ad una esposizione molto sintetica ed
astratta degli argomenti. La ‘polpa’ arriverà col primo capitolo.
E invece no.
Lo stile e i concetti sono diventati sempre più astratti, contorti e
allusivi. Cito a caso:
“Nei paesi industrialmente
evoluti la natura irreversibile di questa ‘crisi’ che incombe viene scontata
fino all’ultimo. Ciò fa sì che risposta razionalizzatrice e rifiuto vitalistico
dell’umanesimo liberale seguano percorsi molto distanziati: dove non esistono
scorciatoie, perché i doni dello sviluppo sono già stati spesi, la volontà di
costruire una disciplina fattuale dell’anarchia capitalistica appare
inconciliabile con il disadattamento di chi si sente estraneo a una realtà e
tuttavia non riesce a superarla – data la propria ostinazione a pensare in
termini di valore – senza rifugiarsi nell’utopia, o nella regressione
escatologica”.
A questo punto, ho chiuso il libro, deciso a restituirlo e ho gettato nel
cestino le schede scritte fino a quel momento.
Ma poi ho pensato che il secondo capitolo, che analizza opere letterarie e
filosofiche, poteva essere più concreto e vivo. Invece, niente. Evidentemente
Lanaro sapeva pensare solo in questo modo libresco e aggrovigliato.
Cito ancora due esempi.
Il primo:
“Nell’universo ‘reazionario’ di
Cesare Cantù – un nome che è tutto un programma – il concetto di lavoro occupa
ancora una posizione privilegiata. Ma il suo non è né il lavoro-work degli smilesiani laici, che interpone
fra l’uomo e la natura una catena di res, di frutti dell’alacrità e dell’ingegno; né il lavoro-job degli ergometristi della scuola positiva,
che è una somma di gesti scomponibili e misurabili scientificamente in vista
della massima economia di sforzo; né il lavoro-capitale dei socialisti della
cattedra, impegnati a inseguire la forma ideale del salario per disperdere una
‘forza’ – la classe operaia – già potenzialmente organizzata sul terreno
sociale. Il suo è il lavoro-labour […]
il lavoro-fatica, insomma, funzione del sostentamento fisiologico…”
Il secondo esempio:
“Un itinerario non dissimile
percorre Napoleone Colajanni, da quando incomincia a rimpiazzare il suo
repubblicanesimo sociale con proposte di aggregazione politica più consone alle
prerogative di un ‘progresso economico’ che sa cancellare le stratificazioni di
classe”.
Ho dunque rinunciato definitivamente al libro, contento di non averlo
acquistato.
Non credo che si possa dire che il modo di scrivere di Lanaro sia uno stile
personale e originale e che, per questo motivo, sia necessariamente difficile.
Io lo trovo identico, ugualmente faticoso e sfuggente, a quello di altri
storici e di altri critici. Scrivere in modo chiaro, concreto e logico è
difficile perché (dando per scontato - il che non accade sempre - che le idee siano chiare almeno nella testa dell'autore) presuppone un fervore di convinzioni e un sentimento di
partecipazione che scarseggiano nei professori e negli accademici. Fra costoro
i tiepidi sono maggioranza: alcuni di loro scrivono in modo facile e banale; i
più si esprimono in modo arido e ostentatorio, e seguono una specie di grammatica
normativa del linguaggio universitario che è stata codificata nel tempo.
….
La “Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni
novanta”, pubblicata nel 1992, tredici anni dopo “Nazione e lavoro”, è un
originale e interessante manuale universitario di storia e di sociologia. Oltre
che alle vicende politiche, infatti, dà largo spazio a tutto ciò che accade
nella società: cinema, letteratura, musica leggera, calcio e ciclismo,
programmi televisivi, fumetti, pubblicità, ecc. Davvero troppo, per essere solo
un manuale! Questo desiderio di completezza, in un libro di poche centinaia di
pagine, si risolve in una sintesi dove i fenomeni sono poco più che accennati,
mentre – visto che Lanaro ne ha voluto parlare – gli effetti disgregatori di
televisione, pubblicità e sport meritavano un maggiore approfondimento e una
valutazione più preoccupata.
Sono interessanti le pagine dedicate a Giovanni Guareschi e a Leo
Longanesi, alla contestazione studentesca del ’68 e all’assassinio di Aldo
Moro. Ma il quadro d’insieme disegnato da Lanaro non è saldo né coerente.
L’epoca di Berlusconi e dei suoi epigoni era ancora di là da venire, e già Lanaro,
giustamente, parlava degli “scempi della sempiterna partitocrazia”, della
“frammentazione morale e civile che ha accompagnato l’unificazione economica e
mediologica del sistema Italia”, della “scomparsa di ogni senso di solidarietà
e di cittadinanza sociale collettiva”. Ma subito dopo, nella pagina seguente, che
è quella che conclude l’opera, fa una professione di ottimismo fondato sul
niente, solo sul suo pio e libresco sentimento patriottico e progressista.
“Ancora una volta, comunque, sarebbe fuori luogo drammatizzare, perché se
solo si volesse procedere a un nuovo reclutamento della classe politica si
vedrebbe che esistono in molti ambienti – nel mondo delle professioni, del
volontariato, delle associazioni di categoria, degli istituti per la ricerca
applicata – intelligenza e determinazione sufficienti a curare l’ammalato senza
farlo troppo soffrire”. E Lanaro conclude definitivamente il libro con questa
perla:
“… è forse lecito augurarsi che questo paese ormai ricco e sviluppato (anche nel Mezzogiorno, contrariamente alle
opinioni che corrono) riesca almeno per una volta a normalizzare la propria
vita pubblica senza eccessi di sudore e di lacrime”.
Da quel “lecito augurio” sono trascorsi ben 27 anni. Lanaro, con tutta la
sua onniscienza, non si era accorto, nel formularlo, che il paese “ormai ricco e sviluppato” era
sull’orlo del baratro. Da allora non fa altro che scivolarvi dentro, sempre più
in basso.
Nessun commento:
Posta un commento