sabato 16 marzo 2019

I ritratti di Perna: Piercamillo Davigo.

Giancarlo Perna, nella sua pagina 'I ritratti di Perna', ha fatto il ritratto di Piercamillo Davigo, magistrato, e l'ha intitolato: "L'eterno inquisitore che vede solo colpevoli" (La Verità di giovedì scorso). L'articolo è impeccabile come quelle camicie che indossava Totò quando voleva sembrare un uomo di mondo. Si vedevano solo i polsini, il colletto e un po’ dello sparato. Quando Totò si toglieva la giacca, ci si accorgeva che la camicia aveva solo il davanti e che non c’erano le maniche.
Anche il ritratto di Perna ha solo il davanti: ci sono alcune frasi di Davigo tolte dal loro contesto e messe in primo piano, e poi non c'è nient'altro. Lo sfondo è tutto bianco perché Perna non dice che l’Italia, sin dai tempi dell’Unità, è il paese moderno che ha la classe politica più avida, corrotta e inetta, e che corruzione e incompetenza sono largamente diffuse anche nella vita sociale e civile (università, ospedali, amministrazione pubblica, corporazioni). Se Perna avesse guardato al lavoro di Davigo sullo sfondo di questa realtà drammatica, non avrebbe avuto il coraggio di riempire il suo articolo di battute spensierate e di iniziarlo con una frase sciocca  come questa: “Stuzzicato dalla primavera, Piercamillo Davigo ha ripreso a esternare”. Per fare ritratti bisogna avere una alta coscienza. Lo stile e la capacità di giudicare vengono da lì. 

sabato 9 marzo 2019

Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato. Torino, Einaudi, 1964.


Di Lalla Romano ho letto solo questo libro. Anche 
prima, però, pensavo a lei con simpatia. Ricordavo 
una intervista a La Repubblica in cui diceva che 
Sophia Loren, portabandiera della bellezza nazio-
nale, non le sembrava per niente bella.
Questo libro è così “puro”, cioè così svincolato da 
situazioni concrete e materiali, che esso può 
diventare, per chiunque voglia volgersi al passato, 
un breviario, un indice dei ricordi, una guida per 
cominciare un viaggio dentro di sé e ritrovare le 
sensazioni della fanciullezza legate agli odori, ai 
suoni, ai nomi, alle suggestioni della luce, del-
l’aria, della notte, del tempo che passa. E’ un 
libro “astratto”, se posso dire così, che però ricor-
da tanti piccoli particolari concreti: le pietre, gli 
alberi, i banchi di scuola e perfino il campanelli-
no della farmacia del paese. Il bisogno di nomi-
nare anche i minimi oggetti nasce dal desiderio 
di farli tornare a vivere. Lalla Romano, tornata 
dopo decenni a visitare il paese della fanciullez-
za, vive questo ritorno sentendosi al confine fra 
la realtà e la favola, e scrive un libro che è come
un sottile ruscello pieno di pagliuzze d’oro.

lunedì 4 marzo 2019

Diego Fusaro, bambino prodigio.


All’inizio ascoltavo con simpatia gli interventi televisivi di questo giovanotto, perché condividevo le sue invettive, anche se generiche, contro l’euro, contro la globalizzazione e le grandi banche. Il fatto che parlasse come un libro stampato del Seicento e che la sua voce sembrasse venir fuori senza emozione da un registratore interno mi divertiva abbastanza. Ma ad un certo momento mi sono convinto che Fusaro non è affatto un filosofo e non è nemmeno uno studioso sincero. Questo momento fu quando, dopo la morte di Umberto Eco, si mise a inneggiare alla sua figura, definendolo, niente meno, un gigante della letteratura. Ma come? A parte il mediocre e deludente gusto artistico che dimostra, Fusaro ha rinnegato se stesso. In passato aveva fatto qualche decina di video-interviste a Costanzo Preve (1943-2013), un filosofo vero, consentendo sempre con le sue opinioni. In un bell'intervento sugli intellettuali degli ultimi cinquant’anni, Preve aveva avuto parole durissime e sarcastiche  su Umberto Eco, e poi, quasi timoroso di aver esagerato, aveva detto al suo intervistatore “Forse ti sembrerò troppo severo”, ma Fusaro, come un cagnolino, lo rassicura: “Noo noo”. E ora, invece, con l'esaltazione di un liceale dalla testa imbottita di libri letti troppo in fretta,  si mette a cantare le lodi di questo celebre tuttologo che Preve aveva definito “osceno”. Che Fusaro abbia la sindrome e l'ambizione di un liceale sotto il costante effetto di una sbornia di libri, lo ha dimostrato anche di recente. In attesa della nascita del primo figlio, per definire il proprio stato d'animo (ormai è diventato un innocuo personaggio vip che esibisce anche la propria vita privata), ha citato addirittura il Simposio di Platone. Se la lotta si farà dura, prevedo per lui dei comodi cambi di casacca.

domenica 3 marzo 2019

Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano. Verona - Bolzano, QuiEdit, 2010.

La prima edizione di questo libro è del 
1932, quando l'autore aveva 32 anni. 
Pensando alla sua breve vita piena di 
intensi affetti e di nobili pensieri, 
interrotta, assieme a quella del fratello 
Carlo, da una morte precocissima per 
mano dei fascisti (una morte non molto 
diversa da quella di Pisacane), non 
stupisce che il libro sia molto originale, 
scritto con stile personale e appassio-
nato, ricco di dottrina, di equilibrio e 
di idee. La figura di Pisacane, nono-
stante la sua sconfitta storica, anzi pro-
prio perché l'unità d'Italia si è realizza-
ta in un modo meschino (il giudizio è
mio, ma non è troppo esagerato rispet-
to a quello dell'autore del libro) che è 
all'origine di tutte le crisi successive, 
aveva per Rosselli, negli anni del 
fascismo, un valore politico e morale di
grande attualità. E anch'io penso che
ancora oggi, quasi novant'anni dopo la
pubblicazione del libro, Pisacane abbia
molto da dirci.
"Pisacane ci ammonisce, scrive Rossel-
li, che il riscatto di un popolo dalla ti-
rannia, dalla servitù, dalla cronica fiac-
chezza politica, è anzitutto problema
morale [...] Primo elemento della solu-
zione: indagare e chiarire perché mai
questo popolo si lasciò rapire o rinnegò
indipendenza e libertà [...] Perché così
grande e libera l'Italia, e poi non più
che una inerte colonia di sfruttamento 
per le nazioni finitime? Perché così bel-
ligera e poi così imbelle e vigliacca?
Perché tanta decadenza nei mezzi, nelle
volontà, negli ingegni? Perché?".
A proposito di ingegni...
Nella seconda edizione, 1936, Rosselli
risponde a due osservazioni critiche di
Adolfo Omodeo (l'opinione che ho di
questo storico, che Antonio Gramsci 
definì "untuoso santificatore del 
periodo liberale", l'ho espressa qualche 
anno fa in alcuni articoli su questo 
blog).
Rosselli aveva parlato a lungo della vi-
ta politica nel Piemonte di metà Otto-
cento. Omodeo coglie una inesattezza,
e Rosselli in una nota risponde così:
"A proposito dell'accenno al 'censore',
mi è stato fatto autorevolmente osser-
vare (Omodeo) che nel Piemonte co-
stituzionale vigeva il sistema del se-
questro e non già quello della censu-
ra preventiva sulla stampa. Io non lo 
ignoravo: il mio accenno al censore in-
tendeva riferirsi genericamente a quel
rappresentante del 'fisco' contro il qua-
le così alte e spesso così giustificate si
levavano allora le proteste dei giorna-
listi di estrema sinistra e di estrema de-
stra".
L'altra critica dell'Omodeo è ancora
più ridicola e notarile.
Rosselli aveva scritto: il capitano Da-
neri "poi si recò da Mazzini (nascosto
allora in casa di suo fratello Francesco)".
Nella seconda edizione aggiunse questa 
nota: "Fuorviato dalla mia locuzione, 
sintatticamente scorretta, l'Omodeo mi
ha rammentato che Mazzini non ebbe 
fratelli... Occorre dire che ho inteso al-
ludere a un fratello del Daneri?".
Ecco la nuova Italia!



lunedì 18 febbraio 2019

Vauro Senesi ride da solo alle proprie vignette.

 
Qualche giorno fa, Giancarlo Perna ha fatto un ritratto tagliente del disegnatore Vauro, però lo ha rappresentato quasi come un dignitoso avversario e perciò non è riuscito a dar conto di come egli sia potuto arrivare a concepire, fra le altre, una vignetta come questa, che, nella sua idiota turpitudine,  non è nemmeno il punto più basso toccato da Vauro, ma rappresenta appena il livello medio della sua rozzezza. Vauro è un disegnatore meno che mediocre perché manca di spirito e di senso critico, e questo spiega la facilità con cui insulta.

martedì 5 febbraio 2019

Carlo Rossella, un dandy provinciale.

Carlo Rossella, giornalista di varia esperienza, prima comunista, poi passato a Berlusconi, nella sua conversazione con Luca Telese (La Verità di ieri), dà delle risposte aride e ciniche. Ora, dice, "potrei votare indifferentemente per Berlusconi o per il Partito democratico". Conclude dichiarando che i sovranisti e i populisti al governo “mi fanno cac…e”. Per eleganza lo dice in francese, credendo forse di essere, così, anche più europeista. Come garante, cita niente di meno che Giuliano Ferrara (altro maestro di eleganza!) che ha partorito questa perla di saggezza: “l’antieuropeismo è rozzezza”.
Qualsiasi scuola abbia fatto, Rossella in ogni parola rivela una formazione da scuola serale. Dice: “Io prima di ogni altra cosa giudico la qualità e lo spessore di un collega, non le sue idee”. Che bravo! Già nell’Ottocento Bouvard e Pécuchet avevano affermato che “le idee ormai hanno fatto il loro tempo”. Ma chi si ricorda più di quegli eroi della letteratura? E' arrivato Rossella a scoprire di nuovo la stessa verità. Lui, però, ironia a parte, ha confuso le idee con le opinioni politiche, che nei personaggi della nostra vita pubblica sono sempre variabili e molto spesso superflue: si mettono e si tolgono come vestiti, secondo il clima e la temperatura, e perciò appaiono trascurabili a uno come lui, che ha una visione disincantata della società.

sabato 5 gennaio 2019

La cultura dei mediocri.


I grandi supermercati Coop hanno a cuore la cultura. Nei loro immensi atrii, dove d’estate si rifugiano i pensionati che abitano nei pressi per sottrarsi al caldo asfissiante della città, c’è spesso una stanzetta che funziona da bibliotechina. I libri appartengono per lo più al genere paccottiglia, perché per i direttori dei grandi magazzini e per i funzionari comunali o di partito che gestiscono queste bibliotechine la cultura serve a riposare la mente e a tenerla quieta, non certo ad affaticarla.
Su uno scaffale dove sono libri da portare liberamente a casa (praticamente in regalo), ho trovato una raccolta di poesie. Il volumetto assomiglia a cento, a mille altri volumetti di versi pubblicati a spese dell’autore, con poesie ermetiche che sembrano prodotti liofilizzati, dove pochi elementi di una realtà terra terra si mescolano a molti minutissimi frammenti verbali elaborati a tavolino. La lingua italiana oscilla fra il diario della lavandaia e una panna acida montata con parole e costrutti modernamente artificiosi. Questo libretto ha attirato la mia attenzione solo per i nomi degli autori che hanno scritto la prefazione e la postfazione.
Il primo è un docente universitario che riesce a scrivere cinque paginette senza dire niente, se non generica fuffa (“La poesia arriva così a collimare con un afflato quasi profetico, come testimonianza del proprio tempo, anche di quello rivissuto nella memoria , nella capacità eccezionale di fermare il presente nei colori di una tavolozza proposta senza risparmio…”, ecc. ecc.).
L’autore della postfazione è un insegnante, oggi ottantenne, che da parecchi decenni tiene il campo nell’area provinciale come poeta, saggista, pittore, prolifico autore di prefazioni, conferenziere, organizzatore culturale e direttore di collane editoriali: insomma un factotum al servizio delle istituzioni locali. Anche la sua postfazione è solo fuffa, però è una fuffa davvero esilarante perché il nostro saggista si è impegnato a fondo dando tutto se stesso.
“… Tante cose la poetessa ha da dire, che il corpo della parola e la parola del corpo colludono e collidono come in una sorta di lotta con l’angelo da cui emerge – per necessità – un impeto catartico nel segno della sacertà della poesia.  Ma per rispondere, le sue fondamenta leopardiane la riportano continuamente al dubbio, alla risposta che pone altre domande, alla inquietudine animica assediante il logos che pure presidia il cursus di questa scrittura…”.
Bisogna chiarire che la cultura dei mediocri è inconsistente non perché i mediocri intellettuali che la producono abbiano letto pochi libri o magari i più scadenti. No. Essi hanno invece letto moltissimo e solo capolavori. I loro pensieri e i loro scritti sono mediocri perché sono meschini, o molto fiacchi, i loro sentimenti. E la loro meschinità o la loro fiacchezza d'animo sono irrimediabili. Ciò che colpisce è che ci siano vaste cerchie di pubblico che mangiano solo il pane ammuffito (che evidentemente appare croccante e appena sfornato) preparato da questi ciarlatani, i quali alimentano un bel giro di soldi e lusingano vanità e velleità culturali di masse di persone che sarebbero più genuine e simpatiche se fossero rimaste analfabete. Questo immenso pubblico si divide in tante sètte (gli acquosi e vacui democratici, i fanatici e severi ecologisti, le femministe arrabbiate, ecc. ecc.) che potrebbero essere utilmente studiate da una équipe di sociologi. Io rimango fedele alla concezione umanistica che vede unite strettamente cultura e vita morale, perché penso che "uomo d'ingegno e uomo di carattere sono una sola cosa, che l’ingegno è arricchimento morale dello spirito, e non capricciosa immaginazione e turpe abilità di sofisti” (Luigi Russo). Non c’è cultura quando mancano queste qualità naturali, ma solo foglie secche, anzi velenose.