I grandi supermercati Coop hanno a cuore la cultura.
Nei loro immensi atrii, dove d’estate si rifugiano i pensionati che abitano nei
pressi per sottrarsi al caldo asfissiante della città, c’è spesso una stanzetta
che funziona da bibliotechina. I libri appartengono per lo più al genere
paccottiglia, perché per i direttori dei grandi magazzini e per i funzionari
comunali o di partito che gestiscono queste bibliotechine la cultura serve a riposare la
mente e a tenerla quieta, non certo ad affaticarla.
Su uno scaffale dove sono libri da portare
liberamente a casa (praticamente in regalo), ho trovato una raccolta di poesie.
Il volumetto assomiglia a cento, a mille altri volumetti di versi pubblicati a spese dell’autore, con poesie
ermetiche che sembrano prodotti liofilizzati, dove pochi elementi di una realtà
terra terra si mescolano a molti minutissimi frammenti verbali elaborati a
tavolino. La lingua italiana oscilla fra il diario della lavandaia e una panna
acida montata con parole e costrutti modernamente artificiosi. Questo libretto
ha attirato la mia attenzione solo per i nomi degli autori che hanno scritto la prefazione e la
postfazione.
Il primo è un docente universitario che riesce a
scrivere cinque paginette senza dire niente, se non generica fuffa (“La poesia arriva così a collimare con un
afflato quasi profetico, come testimonianza del proprio tempo, anche di quello
rivissuto nella memoria , nella capacità eccezionale di fermare il presente nei
colori di una tavolozza proposta senza risparmio…”, ecc. ecc.).
L’autore della postfazione è un insegnante, oggi
ottantenne, che da parecchi decenni tiene il campo nell’area provinciale come
poeta, saggista, pittore, prolifico autore di prefazioni, conferenziere, organizzatore culturale e direttore di
collane editoriali: insomma un factotum al servizio delle istituzioni locali. Anche la sua postfazione è solo fuffa, però è una fuffa davvero
esilarante perché il nostro saggista si è impegnato a fondo dando tutto se
stesso.
“…
Tante cose la poetessa ha da dire, che il corpo della parola e la parola del
corpo colludono e collidono come in una sorta di lotta con l’angelo da cui
emerge – per necessità – un impeto catartico nel segno della sacertà della
poesia. Ma per rispondere, le sue
fondamenta leopardiane la riportano continuamente al dubbio, alla risposta che
pone altre domande, alla inquietudine animica assediante il logos che pure presidia
il cursus di questa scrittura…”.
Bisogna chiarire che la cultura dei mediocri è inconsistente non perché i mediocri intellettuali che la producono abbiano letto pochi libri o magari i più scadenti.
No. Essi hanno invece letto moltissimo e solo capolavori. I loro pensieri e i loro scritti sono mediocri perché sono meschini, o molto fiacchi, i loro sentimenti. E la loro meschinità o la loro fiacchezza d'animo sono irrimediabili. Ciò che colpisce è che
ci siano vaste cerchie di pubblico che mangiano solo il pane ammuffito (che evidentemente appare croccante e appena sfornato) preparato da questi ciarlatani, i quali alimentano un bel
giro di soldi e lusingano vanità e velleità culturali di masse di persone che sarebbero
più genuine e simpatiche se fossero rimaste analfabete. Questo immenso pubblico
si divide in tante sètte (gli acquosi e vacui democratici, i fanatici e severi ecologisti, le femministe
arrabbiate, ecc. ecc.) che potrebbero essere utilmente studiate da una équipe
di sociologi. Io rimango fedele alla concezione umanistica che vede unite strettamente cultura e
vita morale, perché penso che "uomo d'ingegno e uomo di carattere sono una sola cosa, che l’ingegno
è arricchimento morale dello spirito, e non capricciosa immaginazione e turpe
abilità di sofisti” (Luigi Russo). Non c’è cultura quando mancano queste qualità naturali, ma solo foglie secche, anzi velenose.
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