Gli storici del Risorgimento, risalendo alle fonti ideali del
movimento che portò in pochi decenni all’unificazione dell’Italia, parlano
soprattutto di poeti e di scrittori. Costoro nelle loro opere, e spesso anche
con la testimonianza della propria vita, avevano creato, sul modello offerto
dalla Chiesa cattolica, una figura di patriota che si identificava con l’eroe
martire, che con la sua morte affermava la patria (Carocci). Alberto M. Banti
afferma che, agli albori del movimento risorgimentale, gli scrittori fanno leva
sulla tradizione letteraria italiana per sostenere la necessità di lottare e di
sacrificarsi per l’Italia. “Foscolo lo fa con una maestria che impone il suo
libro come uno dei testi di riferimento del patriottismo italiano”. Di Foscolo,
anche Benedetto Croce, in ‘Poesia e non poesia’, scrive che “i patrioti
italiani dell’Ottocento potrebbero dirsi con giusta ragione suoi figliuoli”, e
che egli fu “educatore di virili generazioni”. Sarei curioso di sapere quali
siano state queste virili generazioni composte da patrioti tutti ispirati dai
sentimenti foscoliani. Nella sua ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’ il filosofo
abruzzese, fra le tante esagerazioni che sembrano quasi spacconate, scrive: “Di
rado un popolo ebbe a capo della cosa pubblica
un’eletta di uomini come quelli della vecchia Destra italiana, da
considerare a buon diritto esemplari per la purezza del loro amore di patria
che era amore della virtù, per la serietà e dignità del loro abito di vita, per
l’interezza del loro disinteresse, per il vigore dell’animo e della mente […]
Gli atti loro, le parole che ci hanno lasciate scritte, sono fonti perenni di
educazione morale e civile” ecc. ecc. Quanto poco perspicace conoscitore di
uomini fosse Croce, e disinvolto valutatore di fatti storici, lo dimostra il
suo giudizio su Vittorio Emanuele II. Giampiero Carocci scrive che “Vittorio
Emanuele II era un uomo rozzo e ignorante, amante della caccia e della guerra,
donnaiolo di facili gusti”. Croce, con semplici giochetti di parole, riesce a
trasformare queste caratteristiche negative, senza negarle, in qualità regali.
“Vittorio Emanuele II aveva serbato non poco del vecchio re di razza, la qual
cosa conferiva al suo prestigio presso il popolo, che trovava rispondente al
proprio concetto di un re il suo aspetto e piglio soldatesco, il suo abito di
gentiluomo campagnolo e cacciatore, la franchezza e la sprezzatura dei suoi
modi, e perfino quel che si bisbigliava delle sue relazioni col bel sesso”. Il
filosofo, ostinato a vantare anche i difetti dei protagonisti del Risorgimento,
non si è nemmeno accorto di aver disegnato un popolo e un re da operetta. – Per
quanto ne so, non riesco a immaginare, a metà dell’Ottocento, dei patrioti
d’ispirazione foscoliana diversi da quel garibaldino diciannovenne, Telesforo
Catoni, di cui parla l’Abba nelle sue noterelle sui Mille. “Gli si legge in
faccia una castità di fanciulla; non gli esce mai una parola volgare; sta quasi
sempre solo; adora Foscolo e il carme dei Sepolcri che sa a memoria […] Catoni
ha molto del foscoliano, e chi ponesse il suo ritratto per frontespizio
nell’Ortis, ognuno direbbe che certo il povero Jacopo fu così”. Il giovane
Telesforo sarà anche stato molto somigliante all’Ortis e innamorato della
poesia foscoliana, ma certo l’eroe del romanzo di Foscolo avrebbe rifiutato di
partecipare alla guerra civile scatenata dal Regno di Sardegna per conquistare il
pacifico Regno delle Due Sicilie. Gli ideali dell’Ortis erano ben più nobili e
generosi di una semplice unificazione politico-amministrativa del paese, compiuta con la violenza e ignorando la volontà delle popolazioni. Il
filosofo Andrea Caffi ha detto nel modo più chiaro: “Il Risorgimento italiano è
stato in definitiva un movimento addomesticato, deviato, confiscato da
profittatori equivoci. Il suo esito ha determinato un disagio sociale e un marasma
della vita intellettuale in Italia, che hanno avuto per sbocco (tutt’altro che
inaspettato) il fascismo”. – Le lettere
appassionate di Jacopo Ortis, sfrondate dell’enfasi e delle lacrime giovanili e
romantiche, sono piene di idee profonde, concrete e lungimiranti. Personalmente era un giovane disposto a sacrificare la vita per la verità. “S’io avessi venduta la
fede, rinnegata la verità, trafficato il mio ingegno, credi tu ch’io non vivrei
più onorato e tranquillo? Ma gli onori e la tranquillità del mio secolo guasto
meritano forse di essere acquistati col sagrificio dell’anima? Forse più che
l’amore della virtù, il timore della bassezza m’ha rattenuto alle volte da
quelle colpe, che sono rispettate ne’ potenti”. Foscolo afferma che la libertà
non si può né comprare con denaro né raggiungere con l’aiuto di paesi stranieri,
che perseguono sempre il loro esclusivo interesse. I francesi, scrive il poeta, “hanno fatto
parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertà”. Già solo questa
idea avrebbe bocciato la politica egemonica piemontese, che, per occupare gli altri stati italiani, aveva necessariamente bisogno dell’aiuto straniero, e avrebbe invece favorito una possibile federazione di
stati. Ma Foscolo, benché fosse ancora molto giovane quando scriveva l’Ortis,
ha anche una larga visione della società, che manca del tutto alla gretta
cultura dei governi piemontesi. “L’Italia ha preti e frati, non già sacerdoti…
ha de’ titolati quanti ne vuoi; ma non ha propriamente patrizj […] abbiamo
plebe; non già cittadini […] i medici, gli avvocati, i professori d’università,
i letterati, i ricchi mercatanti, l’innumerabile schiera degl’impiegati… non
hanno nerbo e diritto cittadinesco […] Or di preti e frati facciamo de’
sacerdoti; convertiamo i titolati in patrizj; i popolani tutti in cittadini
abbienti… ma badiamo! senza carneficine; senza riforme sacrileghe di religione;
senza fazioni; senza proscrizioni né esilii; senza ajuto e sangue e
depredazioni d’armi straniere”. Ortis-Foscolo non può essere ridotto a
eroe-santino, invocato per dare
un’aura d’ideale ai propri misfatti.
domenica 22 dicembre 2024
Ugo Foscolo (1778-1827). Ultime lettere di Jacopo Ortis. Oscar Mondadori, 1987
sabato 14 dicembre 2024
Giuseppe Cesare Abba (1838-1910). Da Quarto al Volturno (Noterelle d'uno dei Mille). Gherardo Casini, 1966
martedì 10 dicembre 2024
Giampiero Carocci (1919-2017). Il Risorgimento. Newton Compton, 2006
Questa operetta è il perfetto pendant del libro di Alberto Mario Banti, Il Risorgimento italiano, che ho commentato nell’articolo precedente. Ho voluto leggerli di seguito per la curiosità di scoprire quanto si assomigliassero le loro omissioni, mistificazioni e bugie. Nell’edizione Olschki le lettere di Cavour occupano ben 21 volumi, eppure sia Banti che Carocci, che si suppone le abbiano studiate tutte con attenzione, per dimostrare il grande amore che lo statista piemontese aveva per il parlamento, non hanno trovato di meglio che citare lo stesso passo della stessa lettera. Ho già detto quanto quella lettera sia retorica e poco limpida (come invece sostiene il Banti). Ora aggiungo: la frase di Cavour “Io non mi sono mai sentito debole, se non quando le camere erano chiuse” è un piccolo indizio del fatto che egli amava il parlamento soprattutto perché gli faceva da scudo contro le interferenze del re. Se questo è vero (ed è vero), anche l’altra frase “Sono figlio della libertà, è ad essa che debbo tutto quel che sono” ha il significato limitato di un Cavour geloso, sì, della propria libertà, ma non per questo incline a riconoscere e rispettare la libertà degli altri. Carocci scrive parecchie cose inesatte: che i morti della spedizione di Crimea furono solo 29 (e le migliaia di morti a causa del colera?); che il generale La Marmora era simpatico perché assomigliava ai grandi capitani di commedia (ma dimentica che questo simpaticone nell’aprile 1849, per ordine di Vittorio Emanuele, aveva bombardato la popolazione civile di Genova e che poi difese gli stupri commessi dalle sue truppe con queste abiette parole: “i soldati erano bei giovani e in quelle violenze le donne avean pure provato un piacere”); che ai Mille si unirono presto molti altri volontari, tra cui “alcune centinaia, che avevano disertato dall’esercito piemontese” (invece erano soldati regolari senza uniforme ‘prestati’ dal governo; intervento illegale simile a quello che viene fatto oggi in Ucraina); che le battaglie di Calatafimi, Palermo e Milazzo “furono una cosa seria”; ecc. ecc. Cavour aveva l’obiettivo di affermare la laicità dello stato. Progetto encomiabile. Però il suo principio “libera chiesa in libero stato” non riesce a giustificare la soppressione dei conventi e l’incameramento dei beni ecclesiastici. Riguardo alla spaccatura creatasi con la Chiesa, Cavour, scrive Carocci, “era animato da una grande speranza, che si nutriva della sua fede non meno grande nella libertà”. E Carocci cita un discorso di Cavour: “Io credo che la soluzione della Questione romana debba essere prodotta dalla convinzione, che andrà sempre più crescendo nella società moderna, ed anche nella grande società cattolica, essere la libertà altamente favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso”. La libertà favorirebbe lo sviluppo del vero sentimento religioso? Ma è proprio il contrario. Cavour vuole fare qui anche il teologo modernista, e per questo piacerebbe tanto a Papa Francesco. Però sbaglia. Il sentimento religioso è l’anima della libertà. La libertà non è niente se è vissuta senza un sentimento religioso (il cui fondamento, comune a tutte le religioni, consiste nella convinzione di vivere per uno scopo superiore alla propria persona). Carocci non capisce la drammatica attualità di questo intreccio, giudica positivamente il pensierino di Cavour, che a me sembra solo un espediente verbale, e conclude: “Da una Chiesa che avesse fatto suoi i principi di libertà e che da questi fosse vivificata [addirittura!] ... l’Italia non aveva nulla da temere”. Un altro problema di grande importanza che si presentò al governo sardo fu questo: il nuovo stato avrebbe dovuto avere un ordinamento accentrato o decentrato? Cavour, dice Carocci, era favorevole al decentramento, ma poi Luigi Carlo Farini, ministro dell’interno, gli scrisse dal Sud il 27 ottobre 1860: “Amico mio, che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile...”. Cavour cambiò subito opinione (che tempra!), convinto che occorresse imporre l’unificazione al Mezzogiorno, “alla parte più corrotta e più debole d’Italia. Sui mezzi (sono parole di Cavour) non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e, se questa non basta, la fisica”. Noi non siamo sorpresi da questa rozzezza; eravamo sicuri che la grande fede di Cavour nella libertà, tanto sbandierata e lodata, si sarebbe risolta, alla fine, con l'offerta, nella mano sinistra, di un presentimento del libro Cuore (pubblicato nel 1886) e con la minaccia, nella mano destra, di un fucile ben carico. Ha scritto il filosofo Andrea Caffi, 1887-1955, "lasciamo Cavour ai cultori di sagge amministrazioni, di scaltre diplomazie e di gerarchie sociali fondate sulla proprietà privata... Anche le camicie rosse portavano con sé troppi germi di squadrismo".
lunedì 2 dicembre 2024
ALBERTO MARIO BANTI. IL RISORGIMENTO ITALIANO. LATERZA, 2004
Di fronte a un libro come questo, scritto da uno storico qualificato e corredato da una imponente bibliografia che prende le mosse dalle opere di Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Gaetano Salvemini e Gioacchino Volpe, viene spontaneo esclamare con sorpresa e fastidio: “La montagna ha partorito un topolino!”. E non si tratta nemmeno di un bel topolino vivace e simpatico. Il libretto (130 pagine più appendice di documenti) è scritto con lo stile burocratico di un catechismo. L’Autore si concede una spruzzatina di modernità anticonformista, ma omette fatti essenziali e quelli che cita sono descritti secondo i concetti retorici della interpretazione istituzionale del Risorgimento. Non parla delle "rivoluzioni colorate" promosse fuori del Regno di Sardegna da Cavour e dai suoi emissari (magari inviando, come a Firenze, ottanta carabinieri piemontesi travestiti da popolani), definisce "pressione propagandistica" le violenze commesse durante i plebisciti di annessione, chiama "scarsa fermezza" il tradimento dei generali borbonici comprati con denaro e promesse, considera "memorabili" le vittorie di Garibaldi in Sicilia contro nemici evanescenti... Alberto Banti, ora col riduzionismo ora con l'esaltazione, disegna un quadro eroico che non esiste. Anche la sua conclusione è forzata. Cita una lettera di Cavour alla contessa di Circourt della fine del 1860 (quando ormai si può dire che il suo gioco d'azzardo si fosse concluso con successo): "Per parte mia, non ho alcuna fiducia nelle dittature e soprattutto nelle dittature civili. Io credo che con un parlamento si possano fare parecchie cose che sarebbero impossibili per un potere assoluto... Sono figlio della libertà: è ad essa che debbo tutto quel che sono...", ecc. Banti, che considera il parlamento del Piemonte costituzionale una grande scuola di libertà, commenta: "La lezione di Cavour è limpida". Io credo invece che non sia affatto limpida; e conoscendo un poco le decisioni e le istruzioni segrete di Cavour, penso che le affermazioni fatte all'amica contessa siano più che altro una civetteria e sincere solo a metà, perché egli si sentiva perfettamente a suo agio nelle beghe del parlamento, che sapeva di poter manipolare e dominare. Questo atteggiamento si rivela con evidenza anche nella lettera citata: "Un'esperienza di tredici anni m'ha convinto che un ministero onesto ed energico, che non abbia nulla da temere dalle rivelazioni della tribuna e non si lasci intimidire dalla violenza dei partiti, ha tutto da guadagnare dalle lotte parlamentari". Meno limpido di così!
giovedì 28 novembre 2024
Angela Pellicciari. L'altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata. Casale Monferrato, Piemme, 2008 (8^ ed.)
Questo libro così ben documentato mi spinge a pensare che l’unica grande opposizione all’espansionismo territoriale della casa Savoia e all’offensiva ideologica liberale e massonica che ha trasformato l’Italia a metà dell’Ottocento sia stata quella della cultura cattolica. Le encicliche di Pio IX e i contemporanei articoli della ‘Civiltà Cattolica’, citati da Angela Pellicciari, contengono analisi che convincono, perché il lungo tempo trascorso non solo ha confermato la verità del loro assunto, ma le fa sentire ancora molto attuali. Il Risorgimento, scrive l’Autrice, si inserisce a pieno titolo nel progetto delle rivoluzioni mondiali, nella battaglia che vuole rifare il mondo secondo i dettami del pensiero ‘illuminato’, ridisegnare la vita e le abitudini di tutta l’umanità, secondo idee astratte e irrealistiche di felicità, giustizia, progresso e moralità. Nel 1852 la ‘Civiltà Cattolica’ così sintetizzava l’obiettivo delle società segrete, che erano strumento, ma anche ispiratrici, della politica di Cavour: “Esse agognano lo sperperamento e il taglio di ogni vincolo più sacro, che lega uomo con uomo, nella Chiesa, nella società, nella famiglia, per ricostruire l’umanità sotto una nuova forma di totale servaggio, in cui lo Stato sia tutto, e i capi della setta sieno lo Stato”. La società transumanista e il regime di controllo totale di una umanità liquida e fluida, vagheggiata oggi da Bill Gates & C., non sono diversi dal mondo descritto con timore dalla rivista dei gesuiti quasi due secoli fa; quella società è diversa solo per la sua perfezione tecnologica, e non è lontana. Angela Pellicciari osserva che nella storiografia ufficiale dell’ultimo secolo è scomparso ogni riferimento al ruolo guida svolto dalla massoneria durante il Risorgimento, e cita come esempio il fatto che nelle 2572 pagine della biografia di Cavour scritta da Rosario Romeo neppure una volta vengono ricordate le convinzioni massoniche del conte. La dimenticanza dei fatti e dei propositi anticristiani della Massoneria, secondo la Pellicciari, rende incomprensibile il magistero profetico di Pio IX, perché considerato avulso dalla realtà, e lo fa apparire espressione di un reazionarismo bieco concepito da un uomo intellettualmente mediocre.
sabato 26 ottobre 2024
Giacinto de' Sivo (1814-1867). Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861. Napoli, Arturo Berisio editore, 1964
Quest’opera monumentale (due volumi di
grande formato di mille pagine complessive) lascia il lettore senza fiato per
la straordinaria forza intellettuale e morale che ha sorretto l’autore. Anche
se il periodo studiato è di soli quattordici anni e il teatro dei fatti è un
luogo circoscritto e relativamente piccolo, il racconto ha un respiro europeo,
perché lo scontro delle idee, degli interessi, delle ambizioni e delle
personalità è descritto con il dolore, lo sdegno e la prospettiva di un grande
moralista e di un grande scrittore. Io avvicino questa storia di De Sivo a
opere imponenti quali “Le origini della Francia contemporanea” di Hippolyte
Taine e la “Storia delle guerre civili di Francia” di Enrico Caterino Davila.
De Sivo considera l’unificazione italiana il frutto di una conquista vile e
violenta da parte del Regno sardo, aiutato in modo subdolo da Francia e
Inghilterra. Benché sia considerato il maggiore storico legittimista, la
cultura ufficiale (risorgimentale e post-risorgimentale, monarchica e repubblicana,
fascista e antifascista) lo ha completamente seppellito e dimenticato. De Sivo
non è citato nella Enciclopedia Treccani, né nel Dizionario biografico degli
italiani, né nell’Enciclopedia Europea Garzanti, né tantomeno nei manuali
scolastici di storia e di letteratura. Dopo mezzo secolo di oblìo, lo aveva
riscoperto Benedetto Croce nel 1918. Ma lo ha riscoperto solo per seppellirlo
di nuovo con un minimo di onoranze funebri, cioè con l'intento di “conferire dignità
storiografica ad una memorialistica ormai dimenticata” e di “anticipare la più
compiuta pacificazione etico-politica che si sarebbe concretata con la
pubblicazione della Storia del Regno di Napoli»” (Lorenzo Arnone
Sipari, cit. da Wikipedia). Ma Benedetto Croce in quella ‘Storia del Regno di
Napoli’ definisce ‘truci e osceni briganti’ i popolani meridionali in armi
contro i piemontesi, e non dimostra di essere un pacificatore, ma solo di
volere, simulando buoni sentimenti, seppellire per sempre le ragioni dei vinti.
Il grande filosofo, con degnazione, giudicava De Sivo “un onest’uomo” (che è un
po’ meno di ‘uomo onesto’) e gli rimproverava di essere uno storico
reazionario, poco obiettivo e partigiano, e considerava il suo libro opera
pressoché inutile, perché “non reca a dire il vero molta luce sugli avvenimenti
che descrive”. Secondo Croce il limite di De Sivo come storico “è necessaria
conseguenza del concetto politico dell'autore il quale, condannando tutta la
storia moderna, considerandola perversione, non sentiva il bisogno di
intenderla”. Quanta vuota presunzione in questo grande filosofo! De Sivo, in
effetti, considerava la conquista piemontese come una vittoria locale della
guerra che la massoneria internazionale conduceva in tutta Europa. Ma chi può
dargli torto? Oggi, quasi due secoli dopo, non accade la stessa cosa su scala
planetaria? La storia di oggi non è forse ‘perversione’? Chi conosce i piani
per un nuovo ordine mondiale elaborati già più di trent’anni fa nei pensatoi
politico-economico-militari statunitensi, e via via aggiornati nella loro
implacabile attuazione, non può non vedervi un disegno perverso. I pochi
giornalisti che denunciano quel programma vengono chiamati con disprezzo
‘complottisti’. E’ la stessa accusa che Croce, inguaribile ottimista (così lo
definiva il suo amico Giustino Fortunato), muoveva a De Sivo. Ma gli ottimisti
che sono refrattari alla realtà finiscono facilmente con il diventare ciechi e
cinici, e a Croce non mancò neppure un tocco di volgarità, quando spiegava con
sussiego che l’opera di De Sivo non ebbe grande diffusione perché “i borbonici
non avevano in verità l'abitudine di leggere [...] e i liberali, che
componevano allora la propria storia o epopea, non si davano briga delle
querimonie del rappresentante di un partito vinto”. Croce chiama 'querimonie',
senza però poterle negare, le denunce dei crimini commessi dai piemontesi;
riconosce implicitamente la veridicità di quei fatti tragici, ma considera come
uggiose lagnanze le proteste di chi li racconta. Con spensierata insensibilità
il grande filosofo si inchina alle dure necessità della Storia come la intende
lui. Il libro di De Sivo, ignorato dagli accademici della cultura, è in
realtà, a dispetto loro, più attuale che mai. La società napoletana, dopo
l’annessione al Regno di Sardegna, contiene tutti i germi velenosi che si
svilupperanno nell’Italia dei decenni successivi, fino ai giorni nostri: la
disgregazione, il trasformismo, la violenza squadristica, la devastazione di giornali
anti governativi, la corruzione, il traffico di impieghi, il servilismo e
l’arroganza dei politici, l’uso governativo della camorra, la menzogna e la
calunnia, l’ipocrisia e la retorica, il colonialismo cialtrone e la
subordinazione a potenze straniere… De Sivo disegna un affresco impressionante,
che è credibile non perché quegli avvenimenti, almeno nella loro nudità e crudezza di semplici accadimenti, fanno ormai parte della memoria collettiva, ma
perché nel suo racconto i fatti si spiegano gli uni con gli altri e il quadro
descritto ha la coerenza della verità. Il modo di argomentare di De Sivo è
lucido e logico. Vittorio Emanuele il 10 gennaio del 1859 nel suo discorso in parlamento
pronuncia le famose parole: “… io non sono insensibile al grido di dolore che
da tanta parte d’Italia si leva verso di me…”. De Sivo commenta così. “Ben si
comprese quali fossero i gridi dolorosi sentiti da casa Savoia, sempre intenta a
ingrandirsi sui vicini. Chiaro era l’accordo con Francia, appunto per frangere
i trattati e saziare ambizioni col sangue dei popoli. Udiva dolori promossi da
esso stesso in paesi altrui prosperosi e quieti; non udiva le spontanee
lamentazioni del suo popolo macinato dai debiti e tasse enormi”.
La prosa di De Sivo, che usa una
sintassi e un lessico piuttosto antiquati, mi pare, anche per il suo tempo, è
tuttavia molto espressiva e, all’occasione, di un asciutto sarcasmo. Ecco come
viene descritta la propaganda antiborbonica sotto il regno di Ferdinando e poi del figlio, il giovane e
mite Francesco II. Il governo del re “fatto segno a tutti strali, subiva
passivamente una guerra di diffamazione non più vista. I congiurati sempre all’erta
usavano queste arti: discreditare, voltare a male tutto, diffamare uffiziali, o
corromperli, o sforzarli, o spaurirli; se manca una derrata, dire mandatasi
fuori, essersene fatto monopolio dai potenti della corte; se abbonda, dire che
il commercio boccheggia; se si fa una strada, gridare volersi abbatter case per
farle mancare ai poveri; se non si fa, maledire all’indolenza e all’oscurantismo;
se si fanno limosine, il governo paga sue spie; se non si fanno, esso si mangia
tutto; se punisce i rei, è tiranno; se grazia, è debole e pavido; se fa feste,
gitta polvere agli occhi, insulta al pubblico dolore; se non ne fa, è presso a
cadere, teme la moltitudine. Che che avvenisse si criticava con violenza, mentendo,
calunniando, inventando guai, destando nel popolo ubbìe e paure”.
La Storia di De Sivo trascina il lettore con il
ritmo di un romanzo di avventure, seppur dolorose.
Raffaele Simone "Il paese del pressappoco". Garzanti, 2005
Il libro di Raffaele Simone, professore di linguistica e noto saggista, è
composto, mi pare, di tre parti, che sono divise non in modo formale, ma solo
mentale. I capitoli che descrivono le mille piaghe inflitte da sempre ai
cittadini italiani dai governi nazionali, dalle amministrazioni locali e dalle
varie istituzioni del paese costituiscono la parte più brillante e, oso dire,
divertente (nonostante che il lettore, quotidianamente afflitto da quelle
piaghe, sia dolorosamente coinvolto). I capitoli nei quali l’autore descrive il
carattere degli italiani e i loro tanti difetti non sono, invece, altrettanto
chiari e incisivi e hanno un poco il tono di un corso di catechismo o di
educazione civica. La parte, infine, dove il professor Simone cerca di spiegare
perché gli italiani sono così “pressappochisti” contiene parecchi spunti
interessanti, che però l’autore, nonostante la molta dottrina che vi profonde,
sviluppa, a mio parere, in modo sbagliato.
Intanto non mi convince l’impostazione generale. Il professor Simone dice
di aver voluto guardare l’Italia con l’atteggiamento che Diderot attribuiva a
Montesquieu: sentirsi straniero in patria, ‘étranger dans son propre pays’. Non
mi sembra che ne sia venuto un gran vantaggio. L’autore guarda l’Italia troppo
da vicino, troppo da dentro, come un medico che, dovendo curare un individuo
con disturbi psicofisici, si limitasse a fare le solite analisi di routine e a ripetergli: ‘Dica trentatré’, senza chiedere che lavoro fa, chi frequenta,
dove abita, ecc. Simone ha girato l’Italia in lungo e in largo e indietro nel
tempo (però, appunto, come un visitatore straniero), e ha girato anche il
mondo, però non parla mai di globalizzazione, non s’è accorto che il nostro
paese è, di fatto, da molti decenni, una colonia americana e che, in Europa,
già nel 2005 (anno di pubblicazione del libro), esso aveva un ruolo succubo dei
burocrati di Bruxelles. I difetti italiani hanno radici lontane, certo, ben
anteriori alla colonizzazione americana, ma questa, da quasi ottant’anni, ha tuttavia
un peso schiacciante sui loro comportamenti. Non parlo delle basi militari che
gli USA mantengono in Italia, delle loro interferenze nella nostra vita
politica, né delle loro guerre. Tralascio anche gli aspetti economici e mi
limito a quelli sociali e culturali, che costituiscono la parte appariscente e
spettacolare degli altri aspetti più sostanziali. La cultura americana che
importiamo da decenni in quantità sempre più massicce pesa in modo determinante
e capillare sulle abitudini, sui pensieri e sul modo di vivere degli italiani,
che sono quotidianamente sommersi da decine di film brutti e uguali, di
spettacoli stupidi e noiosi, di pubblicità e di mode disgustose che pretendono
di insegnarci come vivere, cosa pensare e come parlare. Il professor Simone
accenna agli ‘esecrabili programmi televisivi’, ma sono accenni scarsi e generici che non indicano i
responsabili politici di quest’opera di devastazione mentale. Simone descrive
un fenomeno noto e studiato, che è il fatto sociale più importante degli ultimi
settant’anni: il passaggio abbastanza veloce e improvviso di milioni di proletari e di
contadini a una condizione di piccola e piccolissima borghesia. Questi milioni
di italiani, scrive Simone, “non hanno avuto la possibilità né il gusto di
bagnarsi in alcun valore civico e sono rimasti mentalmente e moralmente plebei.
L’opera è stata completata dalla televisione spazzatura, dallo
sport-spettacolo, dal turismo forzoso e dal consumismo di massa, che si sono
abbattuti sul paese come una spaventosa sequela di impalpabili tsunami. Data la
sua inveterata gracilità culturale e civile, l’Italia non era in grado di
difendersi e si è lasciata travolgere senza che fosse possibile opporre alcuna
resistenza”. Simone deplora le conseguenze, ma non analizza le cause. O meglio,
forse ne vede una, ed è il berlusconismo. Troppo poco, per un fenomeno così
gigantesco. Anzi, più che una causa, anche il berlusconismo è un effetto della
capillare americanizzazione dell’Italia e dell’Europa.
Simone critica lo spirito consumistico degli italiani senza dire, però, che
essi sono vittime, seppur felici e inconsapevoli, di un programma ben studiato
proveniente dalla nazione più consumista e prepotente del mondo, che li
martella quotidianamente diffondendo i suoi scintillanti ma velenosi valori. Simone
cita un passo di Tocqueville dalla sua ‘Democrazia in America’. Il passo, dice
Simone, è profetico perché Tocqueville "cercò di immaginare che aspetto avrebbe
potuto prendere il dispotismo del futuro”. Le frasi dello scrittore francese si
riferiscono agli Stati Uniti, dove, già nella prima metà dell’Ottocento,
Tocqueville vedeva i germi del dispotismo e di una società disgregata. Ebbene
Simone, con un sorprendente spostamento d'attenzione, non verifica il pensiero di
Tocqueville sulla società statunitense di oggi, per vedere se quella profezia
si sia avverata, ma lo applica alla realtà italiana. "Questo passo, dice,
sembra scritto apposta per descrivere l’ethos moderno degli italiani". E' vero,
purtroppo, che una americanizzazione di settant’anni ha portato l’Italia ad
assomigliare alla società statunitense, però Simone non può considerare il
pensiero di Tocqueville profetico per l’Italia e non profetico per gli Stati
Uniti, che sono proprio il paese per il quale quel pensiero era stato
elaborato. Simone considera gli Stati Uniti di oggi (nei vent’anni trascorsi
dalla pubblicazione del libro gli USA non sono affatto cambiati) un grande
paese compatto dove esiste una alleanza fra popolo e governo. Per creare un
paese forte e unito, scrive Simone, ci vuole un ‘grande evento’, e aggiunge che
negli USA la rivoluzione e la guerra civile hanno creato un amalgama in cui
maggioranza e opposizione si uniscono. Simone porta come esempio di questo
positivo amalgama la compattezza popolare che, nel 2003, fu favorevole all’invasione
armata dell’Iraq (Simone la chiama, in modo neutro, ‘presenza militare’) e
portò nel 2004 alla rielezione di George W. Bush. Quella compattezza popolare,
se ci fu, non mi sembra affatto un fenomeno di cui compiacersi e la vedo
ispirata, piuttosto che dalla rivoluzione di George Washington, dal mito della
frontiera e dal ricordo della distruzione di tutti i feroci e inutili nativi
americani, che Simone omette di elencare fra i grandi eventi. La Germania,
invece, per risorgere dalle rovine del secondo dopoguerra, non ha avuto bisogno
di grandi eventi. Secondo Simone, il paese uscì rafforzato dal tremendo
disastro prodotto dalla guerra e dal nazismo per due motivi: "l’elaborazione
positiva di un gigantesco senso di colpa collettivo... e la perdurante percezione
di una propria superiorità". A me pare che questi due motivi si escludano
reciprocamente. Come è possibile sentirsi colpevoli per i crimini del nazismo e
nello stesso tempo credere di essere superiori agli altri popoli? Il giornalista e storico
americano William Shirer, autore di una bellissima Storia del Terzo Reich, nel
suo ‘Diario di Berlino (1934-1947)’ scriveva che i tedeschi “non hanno alcun
senso di colpa e non provano rimorsi. La maggior parte dei tedeschi pensano
semplicemente di essere stati sfortunati”. Per loro, scriveva Shirer, anche il
processo di Norimberga è solo un atto illegale e propagandistico.
L’Italia, secondo Simone, non ha avuto grandi eventi. Né il Risorgimento né
la Resistenza hanno unito gli italiani, che sono unificati solo dal consumismo.
Sul Risorgimento il giudizio di Simone non è molto limpido. “Oggi si vede
chiaramente che il popolo d’Italia non ha digerito affatto gli ideali
risorgimentali: li vediamo infatti contestati da molte parti”. Ma non è questo
il punto. Il vero problema è che essi sono rimasti solo petizioni di principio. Ma poi, di quali
ideali parliamo? Cavour, vero protagonista del Risorgimento, non
aveva ideali. Altrove Simone scrive: ‘L’unità si rivelò per quel che è: una
ideologia speranzosa elaborata da élites intellettuali e politiche, che non ha
mai davvero toccato e tanto meno coinvolto il popolo’. Benché sostenuta da
Gobetti e da Gramsci, questa è una versione edulcorata della tragedia di quei
decenni, che, nella storia degli italiani costituì uno spartiacque decisivo
(dopo l’unificazione sono emigrati in un secolo trenta milioni di
connazionali). Simone scrive che ‘l’unificazione del paese si attuò in un
contesto di asfissìa e di marginalità culturale’. Non posso approfondire questo
argomento, però voglio portare, con cognizione di causa, un piccolo elemento
che aiuta a capire quanto si fosse ancor più ristretto l’orizzonte culturale
del paese dopo il 1861 e dà ragione a chi, come la storica Angela Pellicciari, ha scritto che, fatto il Regno d'Italia, l'Italia diventò l'Italietta. La biblioteca granducale Palatina di Firenze, prima
dell’Unità, acquistava i libri più importanti, di tutte le discipline,
pubblicati o venduti in antiquariato in Europa, e atlanti e carte geografiche
di tutti i paesi del mondo, compresi i lontani governatorati russi e la
remotissima Cina. Dopo l’Unità, la Biblioteca nazionale, nella quale erano
confluite la Palatina e la Magliabechiana, altra importante biblioteca
fiorentina, non ha comprato più niente, assolutamente niente. In una
discussione alla Camera dei deputati, del 1 febbraio 1869, Angelo Messedaglia
(1820-1891), relatore della Commissione bilancio, denunciava il fatto che,
mentre le biblioteche Magliabechiana e Palatina, sotto il governo granducale,
avevano una dotazione media di 50.000 lire l’anno, aumentabile secondo il
bisogno, la Bilioteca nazionale di Firenze, la più importante d’Italia,
disponeva per il 1869 solo di 16.306 lire e 53 centesimi per tutto il
materiale. “Detratta ogni altra spesa, sono appena poche centinaia di lire che si
possono mettere da banda per acquisto di nuovi libri”. Che le cose, dopo un
secolo e mezzo, non fossero affatto cambiate, lo ha fatto capire un articolo
del Corriere della sera del 1 novembre 2011 pag. 43, “Salviamo le biblioteche
dalla notte della civiltà”, di Paolo Di Stefano. Nell’articolo si dice che
‘negli ultimi cinque anni i finanziamenti delle biblioteche statali sono
passati da 30 a 17 milioni, mentre la sola Bibliothèque Nationale di Parigi
gode di un budget di 254 milioni’, ecc.
Raffaele Simone, pur criticando governi e amministrazioni, non è affatto tenero con gli
italiani, che sono arruffoni, pressappochisti e confusionari, mugugnano senza
posa e rimpiangono in modo lamentoso un passato che non è mai esistito. Gli
italiani sono anarchici e servili, hanno tratti di volgarità e di aggressività,
sono indolenti e scettici, nemici del cambiamento e del dinamismo. I trenta
milioni di emigranti non confortano, però, quest’ultima osservazione. Inoltre i
giudizi di Simone sono spesso oscillanti. Scrive che ‘lo Stato (con la sua
inefficienza, la sua irrazionale crudeltà, la sua sostanziale estraneità alla
nostra vita) è uno dei motivi principali della nostra tristitia collettiva’; di
conseguenza i nostri comportamenti da furbi sembrerebbero giustificati. Però
poco prima aveva scritto che ‘noi italiani siamo neonati della democrazia:
pertanto di questo sistema non abbiamo avuto il tempo storico di apprezzare
pienamente i vantaggi’. Qui Simone sembra dire che è solo a causa del nostro
individualismo e della nostra immaturità culturale che noi tendiamo a eludere
le regole della democrazia, i cui vantaggi sarebbero indiscutibili. Mi pare che
Simone consideri gli italiani sempre uguali da un’epoca all’altra, con
caratteristiche identiche dal lontano passato fino ai tristi giorni presenti.
Fra queste caratteristiche ci sarebbe anche la mancanza di ‘ogni orgoglio della
cosa ben fatta e lavorata fino in fondo’. Questo giudizio è corretto solo se
applicato agli ultimi ottant’anni. Le nostre città, Bari, Firenze, Roma (ma
anche cittadine e paesi di provincia) hanno quartieri ottocenteschi e anche
novecenteschi belli o almeno molto decorosi, ben lontani dallo strazio che è
stato fatto nel secondo dopoguerra delle nostre città. I bei palazzi dell’Ottocento
che ancora rimangono a Bari, per esempio, testimoniano l’esistenza di uno
stuolo di artigiani (muratori, vetrai, falegnami, fabbri, decoratori…) di
altissimo livello che è andato disperso non certo per colpa loro. “Se gli
italiani tendono a comportarsi male in questo mondo, sembra concludere Simone,
è perché sono un popolo filosofo: guardano all’eterno e non si curano a
sufficienza del mondo di quaggiù’. Per sostenere questa tesi, Simone cita vari
autori e soprattutto Giacomo Leopardi, che nel suo breve saggio sui costumi
degli italiani aveva scritto: ‘Gli italiani sono nella pratica, e in parte
eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque popolo straniero,
poiché essi convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che
è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità di ogni
cosa’. Ma Simone, a mio parere, ha forzato il pensiero di Leopardi. Nel suo
breve saggio, Leopardi, quando parla degli italiani, specifica sempre che parla
di ‘italiani di mondo’, ‘italiani non bisognosi’, italiani che non hanno
'bisogni primi'. Questi italiani, non avendo una ‘società stretta’, come hanno
invece i popoli più progrediti, hanno una vita vuota e si annoiano. E’ dalla
noia che nasce la loro ‘cognizione della vanità di ogni cosa’. Leopardi solo in
un punto allude agli italiani poveri e bisognosi, dove scrive: ‘Il popolaccio
italiano è il più cinico di tutti i popolacci’. Ma su questo giudizio non
insiste, e la sua condanna del popolaccio non sembra sincera e autentica, sembra
piuttosto trascinata dalla feroce polemica contro le ‘classi superiori’. Non si
può, del resto, dimenticare che nei versi del poeta le persone del popolo sono
sempre viste con simpatia, come figure serene, attive, soddisfatte della loro
condizione. La donzelletta, la vecchierella, lo zappatore, il legnaiuolo,
l’erbaiuolo, i fanciulli che giocano e fanno un lieto rumore sono tutte figure
positive e indimenticabili.
E’ stata la borghesia acculturata, grande e piccola, che ha
corrotto i milioni di proletari semianalfabeti che sono saliti nella scala
sociale, piuttosto che il contrario. Nei primi anni Sessanta del Novecento le
pubbliche amministrazioni si reggevano ancora su un personale di scarsa
istruzione scolastica, ma complessivamente operoso e dotato di senso del
dovere. Dopo la metà degli anni Sessanta cominciarono ad arrivare a valanga gli ambiziosi e svogliati figli dell’università di massa, e quello che fino allora era stato un lento declino della
pubblica amministrazione si trasformò in un improvviso e definitivo tracollo, che ha dato ragione della frase di Seneca, diventata ormai una sentenza: “Ora che sono arrivati i
dotti, sono spariti i buoni”. Dopo di allora, il contadino, il figlio di
contadini o l’ex operaio che arrivava come impiegato in un ufficio pubblico di
una qualsiasi città italiana trovava un ambiente dove era ben radicata l'idea che
fosse normale considerare il lavoro una noiosa incombenza e cercare di trarre vantaggio da ogni occasione, forzando a proprio favore ogni norma del
regolamento per rosicchiare più benefici possibile. L’italiano interpretato da
Alberto Sordi, che è l'archetipo degli italiani di oggi, ha sempre la viltà e
la sfrontatezza del borghese o del piccolo borghese. Il contadino, finché
restava contadino, anche se analfabeta, aveva l’acume e la franchezza di un
popolano del Belli. Giuseppe Bucciante nel suo libro ‘I generali della
dittatura’ racconta che nei mesi drammatici a cavallo fra il 1939 e il 1940,
quando Mussolini stava preparando l'entrata in guerra con il suo "esercito
di accattoni" (pag. 359), incontrò un contadino abruzzese che gli disse:
‘Sta guerra s’ha da fà e s’ha da perde’. Grande!