Il libro di Raffaele Simone, professore di linguistica e noto saggista, è
composto, mi pare, di tre parti, che sono divise non in modo formale, ma solo
mentale. I capitoli che descrivono le mille piaghe inflitte da sempre ai
cittadini italiani dai governi nazionali, dalle amministrazioni locali e dalle
varie istituzioni del paese costituiscono la parte più brillante e, oso dire,
divertente (nonostante che il lettore, quotidianamente afflitto da quelle
piaghe, sia dolorosamente coinvolto). I capitoli nei quali l’autore descrive il
carattere degli italiani e i loro tanti difetti non sono, invece, altrettanto
chiari e incisivi e hanno un poco il tono di un corso di catechismo o di
educazione civica. La parte, infine, dove il professor Simone cerca di spiegare
perché gli italiani sono così “pressappochisti” contiene parecchi spunti
interessanti, che però l’autore, nonostante la molta dottrina che vi profonde,
sviluppa, a mio parere, in modo sbagliato.
Intanto non mi convince l’impostazione generale. Il professor Simone dice
di aver voluto guardare l’Italia con l’atteggiamento che Diderot attribuiva a
Montesquieu: sentirsi straniero in patria, ‘étranger dans son propre pays’. Non
mi sembra che ne sia venuto un gran vantaggio. L’autore guarda l’Italia troppo
da vicino, troppo da dentro, come un medico che, dovendo curare un individuo
con disturbi psicofisici, si limitasse a fare le solite analisi di routine e a ripetergli: ‘Dica trentatré’, senza chiedere che lavoro fa, chi frequenta,
dove abita, ecc. Simone ha girato l’Italia in lungo e in largo e indietro nel
tempo (però, appunto, come un visitatore straniero), e ha girato anche il
mondo, però non parla mai di globalizzazione, non s’è accorto che il nostro
paese è, di fatto, da molti decenni, una colonia americana e che, in Europa,
già nel 2005 (anno di pubblicazione del libro), esso aveva un ruolo succubo dei
burocrati di Bruxelles. I difetti italiani hanno radici lontane, certo, ben
anteriori alla colonizzazione americana, ma questa, da quasi ottant’anni, ha tuttavia
un peso schiacciante sui loro comportamenti. Non parlo delle basi militari che
gli USA mantengono in Italia, delle loro interferenze nella nostra vita
politica, né delle loro guerre. Tralascio anche gli aspetti economici e mi
limito a quelli sociali e culturali, che costituiscono la parte appariscente e
spettacolare degli altri aspetti più sostanziali. La cultura americana che
importiamo da decenni in quantità sempre più massicce pesa in modo determinante
e capillare sulle abitudini, sui pensieri e sul modo di vivere degli italiani,
che sono quotidianamente sommersi da decine di film brutti e uguali, di
spettacoli stupidi e noiosi, di pubblicità e di mode disgustose che pretendono
di insegnarci come vivere, cosa pensare e come parlare. Il professor Simone
accenna agli ‘esecrabili programmi televisivi’, ma sono accenni scarsi e generici che non indicano i
responsabili politici di quest’opera di devastazione mentale. Simone descrive
un fenomeno noto e studiato, che è il fatto sociale più importante degli ultimi
settant’anni: il passaggio abbastanza veloce e improvviso di milioni di proletari e di
contadini a una condizione di piccola e piccolissima borghesia. Questi milioni
di italiani, scrive Simone, “non hanno avuto la possibilità né il gusto di
bagnarsi in alcun valore civico e sono rimasti mentalmente e moralmente plebei.
L’opera è stata completata dalla televisione spazzatura, dallo
sport-spettacolo, dal turismo forzoso e dal consumismo di massa, che si sono
abbattuti sul paese come una spaventosa sequela di impalpabili tsunami. Data la
sua inveterata gracilità culturale e civile, l’Italia non era in grado di
difendersi e si è lasciata travolgere senza che fosse possibile opporre alcuna
resistenza”. Simone deplora le conseguenze, ma non analizza le cause. O meglio,
forse ne vede una, ed è il berlusconismo. Troppo poco, per un fenomeno così
gigantesco. Anzi, più che una causa, anche il berlusconismo è un effetto della
capillare americanizzazione dell’Italia e dell’Europa.
Simone critica lo spirito consumistico degli italiani senza dire, però, che
essi sono vittime, seppur felici e inconsapevoli, di un programma ben studiato
proveniente dalla nazione più consumista e prepotente del mondo, che li
martella quotidianamente diffondendo i suoi scintillanti ma velenosi valori. Simone
cita un passo di Tocqueville dalla sua ‘Democrazia in America’. Il passo, dice
Simone, è profetico perché Tocqueville "cercò di immaginare che aspetto avrebbe
potuto prendere il dispotismo del futuro”. Le frasi dello scrittore francese si
riferiscono agli Stati Uniti, dove, già nella prima metà dell’Ottocento,
Tocqueville vedeva i germi del dispotismo e di una società disgregata. Ebbene
Simone, con un sorprendente spostamento d'attenzione, non verifica il pensiero di
Tocqueville sulla società statunitense di oggi, per vedere se quella profezia
si sia avverata, ma lo applica alla realtà italiana. "Questo passo, dice,
sembra scritto apposta per descrivere l’ethos moderno degli italiani". E' vero,
purtroppo, che una americanizzazione di settant’anni ha portato l’Italia ad
assomigliare alla società statunitense, però Simone non può considerare il
pensiero di Tocqueville profetico per l’Italia e non profetico per gli Stati
Uniti, che sono proprio il paese per il quale quel pensiero era stato
elaborato. Simone considera gli Stati Uniti di oggi (nei vent’anni trascorsi
dalla pubblicazione del libro gli USA non sono affatto cambiati) un grande
paese compatto dove esiste una alleanza fra popolo e governo. Per creare un
paese forte e unito, scrive Simone, ci vuole un ‘grande evento’, e aggiunge che
negli USA la rivoluzione e la guerra civile hanno creato un amalgama in cui
maggioranza e opposizione si uniscono. Simone porta come esempio di questo
positivo amalgama la compattezza popolare che, nel 2003, fu favorevole all’invasione
armata dell’Iraq (Simone la chiama, in modo neutro, ‘presenza militare’) e
portò nel 2004 alla rielezione di George W. Bush. Quella compattezza popolare,
se ci fu, non mi sembra affatto un fenomeno di cui compiacersi e la vedo
ispirata, piuttosto che dalla rivoluzione di George Washington, dal mito della
frontiera e dal ricordo della distruzione di tutti i feroci e inutili nativi
americani, che Simone omette di elencare fra i grandi eventi. La Germania,
invece, per risorgere dalle rovine del secondo dopoguerra, non ha avuto bisogno
di grandi eventi. Secondo Simone, il paese uscì rafforzato dal tremendo
disastro prodotto dalla guerra e dal nazismo per due motivi: "l’elaborazione
positiva di un gigantesco senso di colpa collettivo... e la perdurante percezione
di una propria superiorità". A me pare che questi due motivi si escludano
reciprocamente. Come è possibile sentirsi colpevoli per i crimini del nazismo e
nello stesso tempo credere di essere superiori agli altri popoli? Il giornalista e storico
americano William Shirer, autore di una bellissima Storia del Terzo Reich, nel
suo ‘Diario di Berlino (1934-1947)’ scriveva che i tedeschi “non hanno alcun
senso di colpa e non provano rimorsi. La maggior parte dei tedeschi pensano
semplicemente di essere stati sfortunati”. Per loro, scriveva Shirer, anche il
processo di Norimberga è solo un atto illegale e propagandistico.
L’Italia, secondo Simone, non ha avuto grandi eventi. Né il Risorgimento né
la Resistenza hanno unito gli italiani, che sono unificati solo dal consumismo.
Sul Risorgimento il giudizio di Simone non è molto limpido. “Oggi si vede
chiaramente che il popolo d’Italia non ha digerito affatto gli ideali
risorgimentali: li vediamo infatti contestati da molte parti”. Ma non è questo
il punto. Il vero problema è che essi sono rimasti solo petizioni di principio. Ma poi, di quali
ideali parliamo? Cavour, vero protagonista del Risorgimento, non
aveva ideali. Altrove Simone scrive: ‘L’unità si rivelò per quel che è: una
ideologia speranzosa elaborata da élites intellettuali e politiche, che non ha
mai davvero toccato e tanto meno coinvolto il popolo’. Benché sostenuta da
Gobetti e da Gramsci, questa è una versione edulcorata della tragedia di quei
decenni, che, nella storia degli italiani costituì uno spartiacque decisivo
(dopo l’unificazione sono emigrati in un secolo trenta milioni di
connazionali). Simone scrive che ‘l’unificazione del paese si attuò in un
contesto di asfissìa e di marginalità culturale’. Non posso approfondire questo
argomento, però voglio portare, con cognizione di causa, un piccolo elemento
che aiuta a capire quanto si fosse ancor più ristretto l’orizzonte culturale
del paese dopo il 1861 e dà ragione a chi, come la storica Angela Pellicciari, ha scritto che, fatto il Regno d'Italia, l'Italia diventò l'Italietta. La biblioteca granducale Palatina di Firenze, prima
dell’Unità, acquistava i libri più importanti, di tutte le discipline,
pubblicati o venduti in antiquariato in Europa, e atlanti e carte geografiche
di tutti i paesi del mondo, compresi i lontani governatorati russi e la
remotissima Cina. Dopo l’Unità, la Biblioteca nazionale, nella quale erano
confluite la Palatina e la Magliabechiana, altra importante biblioteca
fiorentina, non ha comprato più niente, assolutamente niente. In una
discussione alla Camera dei deputati, del 1 febbraio 1869, Angelo Messedaglia
(1820-1891), relatore della Commissione bilancio, denunciava il fatto che,
mentre le biblioteche Magliabechiana e Palatina, sotto il governo granducale,
avevano una dotazione media di 50.000 lire l’anno, aumentabile secondo il
bisogno, la Bilioteca nazionale di Firenze, la più importante d’Italia,
disponeva per il 1869 solo di 16.306 lire e 53 centesimi per tutto il
materiale. “Detratta ogni altra spesa, sono appena poche centinaia di lire che si
possono mettere da banda per acquisto di nuovi libri”. Che le cose, dopo un
secolo e mezzo, non fossero affatto cambiate, lo ha fatto capire un articolo
del Corriere della sera del 1 novembre 2011 pag. 43, “Salviamo le biblioteche
dalla notte della civiltà”, di Paolo Di Stefano. Nell’articolo si dice che
‘negli ultimi cinque anni i finanziamenti delle biblioteche statali sono
passati da 30 a 17 milioni, mentre la sola Bibliothèque Nationale di Parigi
gode di un budget di 254 milioni’, ecc.
Raffaele Simone, pur criticando governi e amministrazioni, non è affatto tenero con gli
italiani, che sono arruffoni, pressappochisti e confusionari, mugugnano senza
posa e rimpiangono in modo lamentoso un passato che non è mai esistito. Gli
italiani sono anarchici e servili, hanno tratti di volgarità e di aggressività,
sono indolenti e scettici, nemici del cambiamento e del dinamismo. I trenta
milioni di emigranti non confortano, però, quest’ultima osservazione. Inoltre i
giudizi di Simone sono spesso oscillanti. Scrive che ‘lo Stato (con la sua
inefficienza, la sua irrazionale crudeltà, la sua sostanziale estraneità alla
nostra vita) è uno dei motivi principali della nostra tristitia collettiva’; di
conseguenza i nostri comportamenti da furbi sembrerebbero giustificati. Però
poco prima aveva scritto che ‘noi italiani siamo neonati della democrazia:
pertanto di questo sistema non abbiamo avuto il tempo storico di apprezzare
pienamente i vantaggi’. Qui Simone sembra dire che è solo a causa del nostro
individualismo e della nostra immaturità culturale che noi tendiamo a eludere
le regole della democrazia, i cui vantaggi sarebbero indiscutibili. Mi pare che
Simone consideri gli italiani sempre uguali da un’epoca all’altra, con
caratteristiche identiche dal lontano passato fino ai tristi giorni presenti.
Fra queste caratteristiche ci sarebbe anche la mancanza di ‘ogni orgoglio della
cosa ben fatta e lavorata fino in fondo’. Questo giudizio è corretto solo se
applicato agli ultimi ottant’anni. Le nostre città, Bari, Firenze, Roma (ma
anche cittadine e paesi di provincia) hanno quartieri ottocenteschi e anche
novecenteschi belli o almeno molto decorosi, ben lontani dallo strazio che è
stato fatto nel secondo dopoguerra delle nostre città. I bei palazzi dell’Ottocento
che ancora rimangono a Bari, per esempio, testimoniano l’esistenza di uno
stuolo di artigiani (muratori, vetrai, falegnami, fabbri, decoratori…) di
altissimo livello che è andato disperso non certo per colpa loro. “Se gli
italiani tendono a comportarsi male in questo mondo, sembra concludere Simone,
è perché sono un popolo filosofo: guardano all’eterno e non si curano a
sufficienza del mondo di quaggiù’. Per sostenere questa tesi, Simone cita vari
autori e soprattutto Giacomo Leopardi, che nel suo breve saggio sui costumi
degli italiani aveva scritto: ‘Gli italiani sono nella pratica, e in parte
eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque popolo straniero,
poiché essi convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che
è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità di ogni
cosa’. Ma Simone, a mio parere, ha forzato il pensiero di Leopardi. Nel suo
breve saggio, Leopardi, quando parla degli italiani, specifica sempre che parla
di ‘italiani di mondo’, ‘italiani non bisognosi’, italiani che non hanno
'bisogni primi'. Questi italiani, non avendo una ‘società stretta’, come hanno
invece i popoli più progrediti, hanno una vita vuota e si annoiano. E’ dalla
noia che nasce la loro ‘cognizione della vanità di ogni cosa’. Leopardi solo in
un punto allude agli italiani poveri e bisognosi, dove scrive: ‘Il popolaccio
italiano è il più cinico di tutti i popolacci’. Ma su questo giudizio non
insiste, e la sua condanna del popolaccio non sembra sincera e autentica, sembra
piuttosto trascinata dalla feroce polemica contro le ‘classi superiori’. Non si
può, del resto, dimenticare che nei versi del poeta le persone del popolo sono
sempre viste con simpatia, come figure serene, attive, soddisfatte della loro
condizione. La donzelletta, la vecchierella, lo zappatore, il legnaiuolo,
l’erbaiuolo, i fanciulli che giocano e fanno un lieto rumore sono tutte figure
positive e indimenticabili.
E’ stata la borghesia acculturata, grande e piccola, che ha
corrotto i milioni di proletari semianalfabeti che sono saliti nella scala
sociale, piuttosto che il contrario. Nei primi anni Sessanta del Novecento le
pubbliche amministrazioni si reggevano ancora su un personale di scarsa
istruzione scolastica, ma complessivamente operoso e dotato di senso del
dovere. Dopo la metà degli anni Sessanta cominciarono ad arrivare a valanga gli ambiziosi e svogliati figli dell’università di massa, e quello che fino allora era stato un lento declino della
pubblica amministrazione si trasformò in un improvviso e definitivo tracollo, che ha dato ragione della frase di Seneca, diventata ormai una sentenza: “Ora che sono arrivati i
dotti, sono spariti i buoni”. Dopo di allora, il contadino, il figlio di
contadini o l’ex operaio che arrivava come impiegato in un ufficio pubblico di
una qualsiasi città italiana trovava un ambiente dove era ben radicata l'idea che
fosse normale considerare il lavoro una noiosa incombenza e cercare di trarre vantaggio da ogni occasione, forzando a proprio favore ogni norma del
regolamento per rosicchiare più benefici possibile. L’italiano interpretato da
Alberto Sordi, che è l'archetipo degli italiani di oggi, ha sempre la viltà e
la sfrontatezza del borghese o del piccolo borghese. Il contadino, finché
restava contadino, anche se analfabeta, aveva l’acume e la franchezza di un
popolano del Belli. Giuseppe Bucciante nel suo libro ‘I generali della
dittatura’ racconta che nei mesi drammatici a cavallo fra il 1939 e il 1940,
quando Mussolini stava preparando l'entrata in guerra con il suo "esercito
di accattoni" (pag. 359), incontrò un contadino abruzzese che gli disse:
‘Sta guerra s’ha da fà e s’ha da perde’. Grande!
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