sabato 26 ottobre 2024

Raffaele Simone "Il paese del pressappoco". Garzanti, 2005

Il libro di Raffaele Simone, professore di linguistica e noto saggista, è composto, mi pare, di tre parti, che sono divise non in modo formale, ma solo mentale. I capitoli che descrivono le mille piaghe inflitte da sempre ai cittadini italiani dai governi nazionali, dalle amministrazioni locali e dalle varie istituzioni del paese costituiscono la parte più brillante e, oso dire, divertente (nonostante che il lettore, quotidianamente afflitto da quelle piaghe, sia dolorosamente coinvolto). I capitoli nei quali l’autore descrive il carattere degli italiani e i loro tanti difetti non sono, invece, altrettanto chiari e incisivi e hanno un poco il tono di un corso di catechismo o di educazione civica. La parte, infine, dove il professor Simone cerca di spiegare perché gli italiani sono così “pressappochisti” contiene parecchi spunti interessanti, che però l’autore, nonostante la molta dottrina che vi profonde, sviluppa, a mio parere, in modo sbagliato.

Intanto non mi convince l’impostazione generale. Il professor Simone dice di aver voluto guardare l’Italia con l’atteggiamento che Diderot attribuiva a Montesquieu: sentirsi straniero in patria, ‘étranger dans son propre pays’. Non mi sembra che ne sia venuto un gran vantaggio. L’autore guarda l’Italia troppo da vicino, troppo da dentro, come un medico che, dovendo curare un individuo con disturbi psicofisici, si limitasse a fare le solite analisi di routine e a ripetergli: ‘Dica trentatré’, senza chiedere che lavoro fa, chi frequenta, dove abita, ecc. Simone ha girato l’Italia in lungo e in largo e indietro nel tempo (però, appunto, come un visitatore straniero), e ha girato anche il mondo, però non parla mai di globalizzazione, non s’è accorto che il nostro paese è, di fatto, da molti decenni, una colonia americana e che, in Europa, già nel 2005 (anno di pubblicazione del libro), esso aveva un ruolo succubo dei burocrati di Bruxelles. I difetti italiani hanno radici lontane, certo, ben anteriori alla colonizzazione americana, ma questa, da quasi ottant’anni, ha tuttavia un peso schiacciante sui loro comportamenti. Non parlo delle basi militari che gli USA mantengono in Italia, delle loro interferenze nella nostra vita politica, né delle loro guerre. Tralascio anche gli aspetti economici e mi limito a quelli sociali e culturali, che costituiscono la parte appariscente e spettacolare degli altri aspetti più sostanziali. La cultura americana che importiamo da decenni in quantità sempre più massicce pesa in modo determinante e capillare sulle abitudini, sui pensieri e sul modo di vivere degli italiani, che sono quotidianamente sommersi da decine di film brutti e uguali, di spettacoli stupidi e noiosi, di pubblicità e di mode disgustose che pretendono di insegnarci come vivere, cosa pensare e come parlare. Il professor Simone accenna agli ‘esecrabili programmi televisivi’, ma sono accenni  scarsi e generici che non indicano i responsabili politici di quest’opera di devastazione mentale. Simone descrive un fenomeno noto e studiato, che è il fatto sociale più importante degli ultimi settant’anni: il passaggio abbastanza veloce e improvviso di milioni di proletari e di contadini a una condizione di piccola e piccolissima borghesia. Questi milioni di italiani, scrive Simone, “non hanno avuto la possibilità né il gusto di bagnarsi in alcun valore civico e sono rimasti mentalmente e moralmente plebei. L’opera è stata completata dalla televisione spazzatura, dallo sport-spettacolo, dal turismo forzoso e dal consumismo di massa, che si sono abbattuti sul paese come una spaventosa sequela di impalpabili tsunami. Data la sua inveterata gracilità culturale e civile, l’Italia non era in grado di difendersi e si è lasciata travolgere senza che fosse possibile opporre alcuna resistenza”. Simone deplora le conseguenze, ma non analizza le cause. O meglio, forse ne vede una, ed è il berlusconismo. Troppo poco, per un fenomeno così gigantesco. Anzi, più che una causa, anche il berlusconismo è un effetto della capillare americanizzazione dell’Italia e dell’Europa.

Simone critica lo spirito consumistico degli italiani senza dire, però, che essi sono vittime, seppur felici e inconsapevoli, di un programma ben studiato proveniente dalla nazione più consumista e prepotente del mondo, che li martella quotidianamente diffondendo i suoi scintillanti ma velenosi valori. Simone cita un passo di Tocqueville dalla sua ‘Democrazia in America’. Il passo, dice Simone, è profetico perché Tocqueville "cercò di immaginare che aspetto avrebbe potuto prendere il dispotismo del futuro”. Le frasi dello scrittore francese si riferiscono agli Stati Uniti, dove, già nella prima metà dell’Ottocento, Tocqueville vedeva i germi del dispotismo e di una società disgregata. Ebbene Simone, con un sorprendente spostamento d'attenzione, non verifica il pensiero di Tocqueville sulla società statunitense di oggi, per vedere se quella profezia si sia avverata, ma lo applica alla realtà italiana. "Questo passo, dice, sembra scritto apposta per descrivere l’ethos moderno degli italiani". E' vero, purtroppo, che una americanizzazione di settant’anni ha portato l’Italia ad assomigliare alla società statunitense, però Simone non può considerare il pensiero di Tocqueville profetico per l’Italia e non profetico per gli Stati Uniti, che sono proprio il paese per il quale quel pensiero era stato elaborato. Simone considera gli Stati Uniti di oggi (nei vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del libro gli USA non sono affatto cambiati) un grande paese compatto dove esiste una alleanza fra popolo e governo. Per creare un paese forte e unito, scrive Simone, ci vuole un ‘grande evento’, e aggiunge che negli USA la rivoluzione e la guerra civile hanno creato un amalgama in cui maggioranza e opposizione si uniscono. Simone porta come esempio di questo positivo amalgama la compattezza popolare che, nel 2003, fu favorevole all’invasione armata dell’Iraq (Simone la chiama, in modo neutro, ‘presenza militare’) e portò nel 2004 alla rielezione di George W. Bush. Quella compattezza popolare, se ci fu, non mi sembra affatto un fenomeno di cui compiacersi e la vedo ispirata, piuttosto che dalla rivoluzione di George Washington, dal mito della frontiera e dal ricordo della distruzione di tutti i feroci e inutili nativi americani, che Simone omette di elencare fra i grandi eventi. La Germania, invece, per risorgere dalle rovine del secondo dopoguerra, non ha avuto bisogno di grandi eventi. Secondo Simone, il paese uscì rafforzato dal tremendo disastro prodotto dalla guerra e dal nazismo per due motivi: "l’elaborazione positiva di un gigantesco senso di colpa collettivo... e la perdurante percezione di una propria superiorità". A me pare che questi due motivi si escludano reciprocamente. Come è possibile sentirsi colpevoli per i crimini del nazismo e nello stesso tempo credere di essere superiori agli altri popoli? Il giornalista e storico americano William Shirer, autore di una bellissima Storia del Terzo Reich, nel suo ‘Diario di Berlino (1934-1947)’ scriveva che i tedeschi “non hanno alcun senso di colpa e non provano rimorsi. La maggior parte dei tedeschi pensano semplicemente di essere stati sfortunati”. Per loro, scriveva Shirer, anche il processo di Norimberga è solo un atto illegale e propagandistico.

L’Italia, secondo Simone, non ha avuto grandi eventi. Né il Risorgimento né la Resistenza hanno unito gli italiani, che sono unificati solo dal consumismo. Sul Risorgimento il giudizio di Simone non è molto limpido. “Oggi si vede chiaramente che il popolo d’Italia non ha digerito affatto gli ideali risorgimentali: li vediamo infatti contestati da molte parti”. Ma non è questo il punto. Il vero problema è che essi sono rimasti solo petizioni di principio. Ma poi, di quali ideali parliamo? Cavour, vero protagonista del Risorgimento, non aveva ideali. Altrove Simone scrive: ‘L’unità si rivelò per quel che è: una ideologia speranzosa elaborata da élites intellettuali e politiche, che non ha mai davvero toccato e tanto meno coinvolto il popolo’. Benché sostenuta da Gobetti e da Gramsci, questa è una versione edulcorata della tragedia di quei decenni, che, nella storia degli italiani costituì uno spartiacque decisivo (dopo l’unificazione sono emigrati in un secolo trenta milioni di connazionali). Simone scrive che ‘l’unificazione del paese si attuò in un contesto di asfissìa e di marginalità culturale’. Non posso approfondire questo argomento, però voglio portare, con cognizione di causa, un piccolo elemento che aiuta a capire quanto si fosse ancor più ristretto l’orizzonte culturale del paese dopo il 1861 e dà ragione a chi, come la storica Angela Pellicciari, ha scritto che, fatto il Regno d'Italia, l'Italia diventò l'Italietta. La biblioteca granducale Palatina di Firenze, prima dell’Unità, acquistava i libri più importanti, di tutte le discipline, pubblicati o venduti in antiquariato in Europa, e atlanti e carte geografiche di tutti i paesi del mondo, compresi i lontani governatorati russi e la remotissima Cina. Dopo l’Unità, la Biblioteca nazionale, nella quale erano confluite la Palatina e la Magliabechiana, altra importante biblioteca fiorentina, non ha comprato più niente, assolutamente niente. In una discussione alla Camera dei deputati, del 1 febbraio 1869, Angelo Messedaglia (1820-1891), relatore della Commissione bilancio, denunciava il fatto che, mentre le biblioteche Magliabechiana e Palatina, sotto il governo granducale, avevano una dotazione media di 50.000 lire l’anno, aumentabile secondo il bisogno, la Bilioteca nazionale di Firenze, la più importante d’Italia, disponeva per il 1869 solo di 16.306 lire e 53 centesimi per tutto il materiale. “Detratta ogni altra spesa, sono appena poche centinaia di lire che si possono mettere da banda per acquisto di nuovi libri”. Che le cose, dopo un secolo e mezzo, non fossero affatto cambiate, lo ha fatto capire un articolo del Corriere della sera del 1 novembre 2011 pag. 43, “Salviamo le biblioteche dalla notte della civiltà”, di Paolo Di Stefano. Nell’articolo si dice che ‘negli ultimi cinque anni i finanziamenti delle biblioteche statali sono passati da 30 a 17 milioni, mentre la sola Bibliothèque Nationale di Parigi gode di un budget di 254 milioni’, ecc. 

Raffaele Simone, pur criticando governi e  amministrazioni, non è affatto tenero con gli italiani, che sono arruffoni, pressappochisti e confusionari, mugugnano senza posa e rimpiangono in modo lamentoso un passato che non è mai esistito. Gli italiani sono anarchici e servili, hanno tratti di volgarità e di aggressività, sono indolenti e scettici, nemici del cambiamento e del dinamismo. I trenta milioni di emigranti non confortano, però, quest’ultima osservazione. Inoltre i giudizi di Simone sono spesso oscillanti. Scrive che ‘lo Stato (con la sua inefficienza, la sua irrazionale crudeltà, la sua sostanziale estraneità alla nostra vita) è uno dei motivi principali della nostra tristitia collettiva’; di conseguenza i nostri comportamenti da furbi sembrerebbero giustificati. Però poco prima aveva scritto che ‘noi italiani siamo neonati della democrazia: pertanto di questo sistema non abbiamo avuto il tempo storico di apprezzare pienamente i vantaggi’. Qui Simone sembra dire che è solo a causa del nostro individualismo e della nostra immaturità culturale che noi tendiamo a eludere le regole della democrazia, i cui vantaggi sarebbero indiscutibili. Mi pare che Simone consideri gli italiani sempre uguali da un’epoca all’altra, con caratteristiche identiche dal lontano passato fino ai tristi giorni presenti. Fra queste caratteristiche ci sarebbe anche la mancanza di ‘ogni orgoglio della cosa ben fatta e lavorata fino in fondo’. Questo giudizio è corretto solo se applicato agli ultimi ottant’anni. Le nostre città, Bari, Firenze, Roma (ma anche cittadine e paesi di provincia) hanno quartieri ottocenteschi e anche novecenteschi belli o almeno molto decorosi, ben lontani dallo strazio che è stato fatto nel secondo dopoguerra delle nostre città. I bei palazzi dell’Ottocento che ancora rimangono a Bari, per esempio, testimoniano l’esistenza di uno stuolo di artigiani (muratori, vetrai, falegnami, fabbri, decoratori…) di altissimo livello che è andato disperso non certo per colpa loro. “Se gli italiani tendono a comportarsi male in questo mondo, sembra concludere Simone, è perché sono un popolo filosofo: guardano all’eterno e non si curano a sufficienza del mondo di quaggiù’. Per sostenere questa tesi, Simone cita vari autori e soprattutto Giacomo Leopardi, che nel suo breve saggio sui costumi degli italiani aveva scritto: ‘Gli italiani sono nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque popolo straniero, poiché essi convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità di ogni cosa’. Ma Simone, a mio parere, ha forzato il pensiero di Leopardi. Nel suo breve saggio, Leopardi, quando parla degli italiani, specifica sempre che parla di ‘italiani di mondo’, ‘italiani non bisognosi’, italiani che non hanno 'bisogni primi'. Questi italiani, non avendo una ‘società stretta’, come hanno invece i popoli più progrediti, hanno una vita vuota e si annoiano. E’ dalla noia che nasce la loro ‘cognizione della vanità di ogni cosa’. Leopardi solo in un punto allude agli italiani poveri e bisognosi, dove scrive: ‘Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci’. Ma su questo giudizio non insiste, e la sua condanna del popolaccio non sembra sincera e autentica, sembra piuttosto trascinata dalla feroce polemica contro le ‘classi superiori’. Non si può, del resto, dimenticare che nei versi del poeta le persone del popolo sono sempre viste con simpatia, come figure serene, attive, soddisfatte della loro condizione. La donzelletta, la vecchierella, lo zappatore, il legnaiuolo, l’erbaiuolo, i fanciulli che giocano e fanno un lieto rumore sono tutte figure positive e indimenticabili.

E’ stata la borghesia acculturata, grande e piccola, che ha corrotto i milioni di proletari semianalfabeti che sono saliti nella scala sociale, piuttosto che il contrario. Nei primi anni Sessanta del Novecento le pubbliche amministrazioni si reggevano ancora su un personale di scarsa istruzione scolastica, ma complessivamente operoso e dotato di senso del dovere. Dopo la metà degli anni Sessanta cominciarono ad arrivare a valanga gli ambiziosi e svogliati figli dell’università di massa, e quello che fino allora era stato un lento declino della pubblica amministrazione si trasformò in un improvviso e definitivo tracollo, che ha dato ragione della frase di Seneca, diventata ormai una sentenza: “Ora che sono arrivati i dotti, sono spariti i buoni”. Dopo di allora, il contadino, il figlio di contadini o l’ex operaio che arrivava come impiegato in un ufficio pubblico di una qualsiasi città italiana trovava un ambiente dove era ben radicata l'idea che fosse normale considerare il lavoro una noiosa incombenza e cercare di trarre vantaggio da ogni occasione, forzando a proprio favore ogni norma del regolamento per rosicchiare più benefici possibile. L’italiano interpretato da Alberto Sordi, che è l'archetipo degli italiani di oggi, ha sempre la viltà e la sfrontatezza del borghese o del piccolo borghese. Il contadino, finché restava contadino, anche se analfabeta, aveva l’acume e la franchezza di un popolano del Belli. Giuseppe Bucciante nel suo libro ‘I generali della dittatura’ racconta che nei mesi drammatici a cavallo fra il 1939 e il 1940, quando Mussolini stava preparando l'entrata in guerra con il suo "esercito di accattoni" (pag. 359), incontrò un contadino abruzzese che gli disse: ‘Sta guerra s’ha da fà e s’ha da perde’. Grande!

 

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