Quando i soldati napoletani, contro ogni logica di strategia militare, si ritirarono da Palermo quasi senza combattere, G. C. Abba credette fosse avvenuto un miracolo. “Mi par di sentire qualche cosa nell’aria, come il canto trionfale del passaggio del Mar Rosso”. La faccia di Garibaldi, infatti, scrive Abba, fa pensare a Mosè, a un Gesù guerriero, a Carlomagno. Come Mosè aveva ottenuto che le acque del Mar Rosso si aprissero perché lui potesse passare indenne, Garibaldi è riuscito a far indietreggiare le truppe borboniche e poi, addirittura, a scioglierle. In Calabria, a Soveria Mannelli, il Washington d’Italia, il Re pastore, simile a un eroe di Senofonte, ha fatto “deporre le armi ai quindicimila soldati del generale Ghio”. “I comandanti borbonici si lavano le mani di tutto l’uno sull’altro, da grado a grado; non c’è più disciplina, tutto si squaglia”. Le bande di volontari garibaldini, scrive Abba, hanno risalito la Calabria, fino a Napoli, senza sparare una schioppettata. Lo scrittore garibaldino pensa che ciò sia accaduto, oltre che per colpa di generali imbelli, soprattutto per una specie di incantesimo, perché la Rivoluzione ha avvolto l’esercito borbonico “come di un’aria che non si può respirare”. Però le rozze truppe napoletane non sono state sensibili a quest’aria che ipnotizza e paralizza; esse, a differenza dei loro capi, avevano voglia di combattere, e Abba deve annotare con rammarico che il generale borbonico Fileno Briganti è stato ucciso, come traditore, dai suoi stessi soldati. “Dicono che il generale Briganti si vide col Dittatore, e che patteggiò la sospensione dell’armi. Me l’hanno descritto. Che spettacolo tutta quella brigata ridotta a nulla, quei soldati mandati sciolti!”.
Eppure, nonostante l’arrendevolezza dei comandanti napoletani e la facilità miracolosa delle vittorie, l’Autore trova continuamente nella impresa di Garibaldi una grandezza degna della storia romana, l’ardimento e il valore degli eroi antichi e l’atmosfera di avventure byroniane.
Prima che lo leggessi per intero, pensavo a “Da Quarto al Volturno” come a un libro partigiano ma di grande animo. Ricordavo dalle lontanissime letture della prima media una paginetta piena di entusiasmo festoso: “Tutta Salemi era fuori a salutarci. <Benedetti! Benedetti!>”. Ora, a lettura terminata, il libro di Abba mi sembra insopportabile sia per lo stile che per l’atteggiamento dell'autore. Il suo patriottismo è senza dubbio sincero; la sua abnegazione è fuori discussione. Però Abba non spiega nulla, non dice nulla; il suo amor di patria sembra frutto di una esaltazione letteraria, vissuta sinceramente, certo, ma senza contenuti umani profondi, senza idee che colpiscano. La sua è una sincerità personale incastonata in una grande menzogna, che egli avvalora con la sua cultura retorica e con i continui e stucchevoli richiami a personaggi di opere letterarie, citate in modo del tutto esteriore. Quando all’inizio di maggio del 1860, a Genova, incontra il signor Senatore, vecchio conoscente, che cerca di dissuaderlo dall’imbarcarsi per la Sicilia (“Ma che cosa vi ha fatto il re di Napoli a voi, che non lo conoscete e andate a fargli la guerra? Briganti!”), Abba non risponde niente, non sa cosa dire. Ha solo un pensiero, che sembra un dispettoso sberleffo: “Eppure un suo figlio verrà con noi”.
I suoi compagni d’avventura e i comandanti sono tutti belli, buoni, fieri, coraggiosi e carismatici. I nemici, invece, sono tutti brutti, “omaccioni quadrati” e ubriaconi, villani senza volto e senza storia. Le donne che Abba conosce e avvicina e che dimostrano simpatia per lui e per la causa di Garibaldi sono tutte bellissime e leggiadre, comprese alcune giovani monache. Fra queste ci sono due monache anziane che, invece, guardano i garibaldini con “cera sdegnosa”. La cosa non sorprende, quando si scopre che esse sono due nobildonne, naturalmente cattive perché “fanno tribolare” le religiose più giovani a loro sottomesse. Le donne che si inginocchiano davanti a Garibaldi o gli porgono i loro figlioletti perché lui li tocchi e li benedica, rendono un omaggio spontaneo e doveroso al grand’uomo. Le donne che inneggiano al re di Napoli, invece, “urlavano dalle finestre come Furie”; e le donne del Sannio che combattono con le unghie e coi denti gli invasori sono “cagne scatenate”. I contadini di Pettorano, Carpinone, Isernia che si difendono dagli stranieri e li ammazzano sulla propria terra, Abba li chiama rivoltosi, e crede naturale che le loro rivolte vengano represse.
No, Abba non è l’italiano nuovo, l’italiano rigenerato, completo e umano, che ci si poteva aspettare da un vero Risorgimento di popolo. E’ il solito italiano di animo servile e conformista, che poi diventerà interventista, fascista, antifascista… Il suo unico merito, in questo libro, è una esile vena poetica crepuscolare che si manifesta ogni tanto nella descrizione di paesaggi e in qualche momento erotico-sentimentale. “Prima dell’alba, eravamo già su, colle armi in ispalla. Un’alba così bella, che uno avrebbe voluto disfarsi per andar confuso in quei colori di cielo e in quelle fragranze”. Prima di partire da Palermo, va a salutare per l'ultima volta una giovane monaca chiusa in convento. "Essa avvicinò la faccia alla grata; io baciai, baciammo quel ferro freddo e bevvi l'alito suo".
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