sabato 26 ottobre 2024

Giacinto de' Sivo (1814-1867). Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861. Napoli, Arturo Berisio editore, 1964



Quest’opera monumentale (due volumi di grande formato di mille pagine complessive) lascia il lettore senza fiato per la straordinaria forza intellettuale e morale che ha sorretto l’autore. Anche se il periodo studiato è di soli quattordici anni e il teatro dei fatti è un luogo circoscritto e relativamente piccolo, il racconto ha un respiro europeo, perché lo scontro delle idee, degli interessi, delle ambizioni e delle personalità è descritto con il dolore, lo sdegno e la prospettiva di un grande moralista e di un grande scrittore. Io avvicino questa storia di De Sivo a opere imponenti quali “Le origini della Francia contemporanea” di Hippolyte Taine e la “Storia delle guerre civili di Francia” di Enrico Caterino Davila. De Sivo considera l’unificazione italiana il frutto di una conquista vile e violenta da parte del Regno sardo, aiutato in modo subdolo da Francia e Inghilterra. Benché sia considerato il maggiore storico legittimista, la cultura ufficiale (risorgimentale e post-risorgimentale, monarchica e repubblicana, fascista e antifascista) lo ha completamente seppellito e dimenticato. De Sivo non è citato nella Enciclopedia Treccani, né nel Dizionario biografico degli italiani, né nell’Enciclopedia Europea Garzanti, né tantomeno nei manuali scolastici di storia e di letteratura. Dopo mezzo secolo di oblìo, lo aveva riscoperto Benedetto Croce nel 1918. Ma lo ha riscoperto solo per seppellirlo di nuovo con un minimo di onoranze funebri, cioè con l'intento di “conferire dignità storiografica ad una memorialistica ormai dimenticata” e di “anticipare la più compiuta pacificazione etico-politica che si sarebbe concretata con la pubblicazione della Storia del Regno di Napoli»” (Lorenzo Arnone Sipari, cit. da Wikipedia). Ma Benedetto Croce in quella ‘Storia del Regno di Napoli’ definisce ‘truci e osceni briganti’ i popolani meridionali in armi contro i piemontesi, e non dimostra di essere un pacificatore, ma solo di volere, simulando buoni sentimenti, seppellire per sempre le ragioni dei vinti. Il grande filosofo, con degnazione, giudicava De Sivo “un onest’uomo” (che è un po’ meno di ‘uomo onesto’) e gli rimproverava di essere uno storico reazionario, poco obiettivo e partigiano, e considerava il suo libro opera pressoché inutile, perché “non reca a dire il vero molta luce sugli avvenimenti che descrive”. Secondo Croce il limite di De Sivo come storico “è necessaria conseguenza del concetto politico dell'autore il quale, condannando tutta la storia moderna, considerandola perversione, non sentiva il bisogno di intenderla”. Quanta vuota presunzione in questo grande filosofo! De Sivo, in effetti, considerava la conquista piemontese come una vittoria locale della guerra che la massoneria internazionale conduceva in tutta Europa. Ma chi può dargli torto? Oggi, quasi due secoli dopo, non accade la stessa cosa su scala planetaria? La storia di oggi non è forse ‘perversione’? Chi conosce i piani per un nuovo ordine mondiale elaborati già più di trent’anni fa nei pensatoi politico-economico-militari statunitensi, e via via aggiornati nella loro implacabile attuazione, non può non vedervi un disegno perverso. I pochi giornalisti che denunciano quel programma vengono  chiamati con disprezzo ‘complottisti’. E’ la stessa accusa che Croce, inguaribile ottimista (così lo definiva il suo amico Giustino Fortunato), muoveva a De Sivo. Ma gli ottimisti che sono refrattari alla realtà finiscono facilmente con il diventare ciechi e cinici, e a Croce non mancò neppure un tocco di volgarità, quando spiegava con sussiego che l’opera di De Sivo non ebbe grande diffusione perché “i borbonici non avevano in verità l'abitudine di leggere [...] e i liberali, che componevano allora la propria storia o epopea, non si davano briga delle querimonie del rappresentante di un partito vinto”. Croce chiama 'querimonie', senza però poterle negare, le denunce dei crimini commessi dai piemontesi; riconosce implicitamente la veridicità di quei fatti tragici, ma considera come uggiose lagnanze le proteste di chi li racconta. Con spensierata insensibilità il grande filosofo si inchina alle dure necessità della Storia come la intende lui. Il libro di De Sivo, ignorato dagli accademici della cultura, è in realtà, a dispetto loro, più attuale che mai. La società napoletana, dopo l’annessione al Regno di Sardegna, contiene tutti i germi velenosi che si svilupperanno nell’Italia dei decenni successivi, fino ai giorni nostri: la disgregazione, il trasformismo, la violenza squadristica, la devastazione di giornali anti governativi, la corruzione, il traffico di impieghi, il servilismo e l’arroganza dei politici, l’uso governativo della camorra, la menzogna e la calunnia, l’ipocrisia e la retorica, il colonialismo cialtrone e la subordinazione a potenze straniere… De Sivo disegna un affresco impressionante, che è credibile non perché quegli avvenimenti, almeno nella loro nudità e crudezza di semplici accadimenti, fanno ormai parte della memoria collettiva, ma perché nel suo racconto i fatti si spiegano gli uni con gli altri e il quadro descritto ha la coerenza della verità. Il modo di argomentare di De Sivo è lucido e logico. Vittorio Emanuele il 10 gennaio del 1859 nel suo discorso in parlamento pronuncia le famose parole: “… io non sono insensibile al grido di dolore che da tanta parte d’Italia si leva verso di me…”. De Sivo commenta così. “Ben si comprese quali fossero i gridi dolorosi sentiti da casa Savoia, sempre intenta a ingrandirsi sui vicini. Chiaro era l’accordo con Francia, appunto per frangere i trattati e saziare ambizioni col sangue dei popoli. Udiva dolori promossi da esso stesso in paesi altrui prosperosi e quieti; non udiva le spontanee lamentazioni del suo popolo macinato dai debiti e tasse enormi”.

La prosa di De Sivo, che usa una sintassi e un lessico piuttosto antiquati, mi pare, anche per il suo tempo, è tuttavia molto espressiva e, all’occasione, di un asciutto sarcasmo. Ecco come viene descritta la propaganda antiborbonica sotto il regno di Ferdinando e poi del figlio, il giovane e mite Francesco II. Il governo del re “fatto segno a tutti strali, subiva passivamente una guerra di diffamazione non più vista. I congiurati sempre all’erta usavano queste arti: discreditare, voltare a male tutto, diffamare uffiziali, o corromperli, o sforzarli, o spaurirli; se manca una derrata, dire mandatasi fuori, essersene fatto monopolio dai potenti della corte; se abbonda, dire che il commercio boccheggia; se si fa una strada, gridare volersi abbatter case per farle mancare ai poveri; se non si fa, maledire all’indolenza e all’oscurantismo; se si fanno limosine, il governo paga sue spie; se non si fanno, esso si mangia tutto; se punisce i rei, è tiranno; se grazia, è debole e pavido; se fa feste, gitta polvere agli occhi, insulta al pubblico dolore; se non ne fa, è presso a cadere, teme la moltitudine. Che che avvenisse si criticava con violenza, mentendo, calunniando, inventando guai, destando nel popolo ubbìe e paure”.  

La Storia di De Sivo trascina il lettore con il ritmo di un romanzo di avventure, seppur dolorose.


Nessun commento: