lunedì 11 marzo 2024

Mimmo Franzinelli. Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini. Mondadori, 2021

Il libro di Franzinelli non è una biografia intellettuale di Gentile; è solo una biografia politica. Però attraverso i discorsi e gli interventi politici, non si può evitare di giudicare anche il suo pensiero filosofico. Nel 1914-15 Gentile è interventista ed esalta la guerra. “E’ santa finché è necessaria… E’ il nostro atto assoluto, il nostro dovere, il nostro supremo e unico interesse… Sospirare oggi la pace per orrore degli eccidi e delle ruine che il flagello della guerra va seminando spietatamente, è viltà d’animo”. Se si pensa che personalmente Gentile era un uomo mite e sensibile e che come padre sarà un padre angosciatissimo, quando suo figlio Federico, nel 1943, rimarrà per parecchi mesi prigioniero dei tedeschi (che Gentile considerava bravi e giusti alleati), non si può non pensare che, a partire dalla Grande Guerra, in lui sia stato costantemente presente un elemento di grande esaltazione intellettuale, morale e politica, che ha oscurato la sua percezione della realtà. Legatosi, dopo la guerra, a Mussolini e al suo movimento, vede nel Duce il realizzatore delle idealità mazziniane e nutre per lui una ammirazione che arriva alla sudditanza psicologica, alla fiducia mistica. Nel marzo del 1924 tiene a Palermo un grande discorso dove la logica del nostro umanesimo è già tutta alterata. “Ogni forza è forza morale, perché si rivolge sempre alla volontà: e qualunque sia il mezzo adoperato – dalla predica al  manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo e lo persuade a consentire”. Vedere nel manganello non uno strumento che opprime la volontà, ma un argomento che la sollecita a consentire (sembra una frase detta per ironia), è il segno che si è fatto un bel salto dalla realtà umana ad una immaginazione corrotta. Una spiegazione almeno parziale di questa immaginazione inumana la dà Luigi Russo in “La critica letteraria contemporanea”. Secondo Russo, Gentile considera ‘artista’ sia l’autore di un sonetto che l’iniziatore di una guerra o di una rivoluzione: chiunque ordisca le fila di un’impresa atta a raggiungere uno scopo. Dal 1918, scrive Russo, era iniziata quella specie di lievitazione oratoria del pensiero gentiliano, una specie di crescendo alla Bolero di Ravel, che doveva portare il suo autore a un’oratoria sempre più parossisticamente generica. Nel 1940, in un saggio pubblicato su ‘Civiltà’, Gentile scrive in modo esaltato: “Mussolini ha sentito la grandezza del passato immanente ed eterno dell’Italia romana e cristiana. Ma l’ha sentita come realtà non chiusa e sigillata nel passato venerando, bensì come vivente processo  in via di immancabile realizzazione”, e via vaneggiando. Manterrà questo tono fino alla fine, fino all’ultimo discorso del 19 marzo 1944 (poche settimane prima di essere ucciso), quando, oltre a osannare Mussolini, capo redivivo della Repubblica di Salò, inneggia a Hitler, condottiero della grande Germania: il duce e il Führer forgeranno il nuovo ordine europeo.

In Gentile, oltre all’esaltazione politica, c’è un immiserimento retorico del linguaggio, che è anche immiserimento morale. Scrivendo alla fine del 1943 al maresciallo Graziani perché interceda presso le autorità tedesche a favore del figlio Federico, loro prigioniero, esprime la sua “grande ammirazione pel tuo coraggio e per la potente [!!] energia” con cui sta ricostituendo l’esercito di Salò. Un giudizio severo di Benedetto Croce, ricordato da Luigi Russo nell’opera citata, aiuta a capire come un uomo di tanta cultura abbia potuto lasciarsi sedurre dalla bolsa retorica fascista. Per Croce, Gentile era un uomo anestetico [privo di senso estetico], chiuso e impenetrabile alla poeticità della poesia, ignaro e incurioso delle opere dell’arte, inesperto dei problemi estetici, scrittore privo di qualsiasi finezza ed eleganza, in odio alle Muse.

Il libro di Franzinelli è una biografia politica ben documentata e molto ricca di particolari. Mi sembra che il tono dell’autore, benché il suo punto di vista sia opposto a quello di Gentile, si mantenga sempre piuttosto obiettivo e umanamente comprensivo. Non vengono fuori tratti veramente simpatici del filosofo siciliano, però Franzinelli ricorda la sua discreta tolleranza e indulgenza (con qualche eccezione) verso studiosi anche di idee contrarie. Personalmente, trovo che la sua uccisione sia stata sproporzionata rispetto alle sue colpe. In confronto a molti intellettuali, poeti e artisti fascisti o simpatizzanti, che dopo il crollo del regime, per paura e opportunismo, secondo un costume oggi più vivo che mai, si allontanarono da lui lasciandolo solo, e cercarono di far dimenticare il proprio passato, Gentile, che rimase incrollabile al proprio posto e che aveva sempre rifiutato la scorta armata, merita rispetto.

 

sabato 2 marzo 2024

Angela Pellicciari. Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa. Edizioni Ares, 2009

La classe politica di governo del Regno di Sardegna, dopo la concessione dello Statuto nel 1848 da parte del re Carlo Alberto, diventò liberale e dette inizio a una polemica molto aspra contro i gesuiti, gli ordini religiosi in generale e contro la Chiesa cattolica. La polemica ebbe varie fasi: dapprima fu diretta contro obiettivi parziali, in un secondo tempo contro obiettivi più generali e infine puntò alla cancellazione dell’intero Stato della Chiesa. Le leggi nate da questo furore anticattolico, che abolirono gli ordini religiosi e ne espropriarono i beni, non furono decisioni episodiche e occasionali, aspetti secondari della politica governativa e di Cavour in particolare. Furono, piuttosto, l’architrave della politica sabauda sia prima che dopo l’unificazione della penisola. Benché il cattolicesimo fosse la religione ufficiale dello Stato, i governi piemontesi, per attuare il loro progetto di conquista degli altri stati italiani, avevano bisogno che il Regno di Sardegna acquistasse la fama di paese laico, illuminato,  progressista, favorevole all'industria e alla moderna agricoltura. Questa fama avrebbe dato al Piemonte una sorta di egemonia culturale e politica sugli altri Stati italiani, attirando la simpatia di tutti i patrioti che aspiravano all’indipendenza, all’unità e, genericamente, alla libertà. Inoltre, obiettivo forse più essenziale, questa politica anticlericale guardava all’estero, soprattutto ai paesi protestanti, che non bisognava scontentare e che anzi bisognava assecondare per averne l’amicizia e, all’occasione, aiuto politico, economico, militare. C’è da dire, infine, che per i politici liberali, quasi tutti iscritti alla massoneria, era naturale scagliarsi contro il tradizionalismo e l’oscurantismo di preti, frati e monache, e mettere al primo posto, nella loro scala dei valori, il lavoro produttivo e la ricchezza materiale, a scapito della riflessione, della meditazione, della disinteressata ricerca artistica e culturale. Il fatto che i progressisti fossero solo l’uno o il due per cento della popolazione, e che il restante 98% fosse legato alle istituzioni che essi volevano distruggere, non aveva alcuna importanza: la minoranza, anche minima, poiché era 'illuminata' decideva per tutti, naturalmente per il loro bene e per il bene della religione cattolica, che senza più ricchezze materiali da amministrare, poteva finalmente riacquistare l’antica purezza spirituale. Il progetto piemontese era di conquistare gli altri stati italiani, e l'unificazione fu, in effetti, una vera opera di conquista. Già nel 1848, nel corso della prima guerra d’indipendenza, i piemontesi “furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri stati italiani, napoletani e romani [che erano andati in loro aiuto], per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non una confederazione italiana; essi non favorirono ma osteggiarono il movimento dei volontari [...] Non volevano ausiliari, pensando di poter vincere gli austriaci con le sole forze regolari piemontesi (e non si capisce come potessero avere una tale presunzione)”. Questi giudizi sono di Antonio Gramsci, citato dall’autrice. Il libro della Pellicciari è molto interessante e, per quello che posso giudicare, originale. In modo non generico né enfatico mostra quanto sia stata pesante l’eredità sabauda sull’Italia dei decenni successivi.

“Il pensiero liberale è fin dall’inizio indirizzato all’espansionismo e il primo frutto è proprio l’unificazione della penisola sotto il Piemonte. L’avventura di Crispi in Africa, il nazionalismo d’inizio secolo, il desiderio di potenza che porta il Paese al dramma della prima guerra mondiale, la politica mussoliniana, sono in perfetta sintonia con le posizioni espresse da Cavour”. 

Paradossalmente, le aspirazioni espansionistiche del Regno di Sardegna erano implicite nella sua dipendenza e nel suo servilismo verso le grandi potenze europee. Rosario Romeo (citato dall'autrice) scrive: "Il Piemonte, spinto dalle sue ambizioni, doveva tenere nel massimo conto i desideri e talora i capricci dei potenti vicini". Romeo, da ammiratore di Cavour, ricorda i "meriti acquistati dal Piemonte presso le corti francese e inglese con anni di leale solidarietà e di coerente politica liberale". Quella 'leale solidarietà' con gli stati occidentali più potenti è ancora oggi, XXI secolo, la massima necessità e aspirazione dei governi e degli uomini politici italiani. Infatti siamo una felice colonia degli Stati Uniti d'America.

I liberali piemontesi, inoltre, già prima dell’unificazione, avevano elaborato una concezione del cittadino che avrà grandi conseguenze sulla storia futura del nostro paese. Nelle loro esternazioni alla Camera dei deputati e sui giornali, essi sostenevano che l’esproprio dei beni temporali avrebbe migliorato e purificato la religione, la quale, affermavano con arroganza, non ha bisogno di mezzi, perché la vita spirituale si svolge tutta nell’intimo della propria coscienza e, secondo loro, rimane invisibile, senza mai assumere una dimensione concreta, sociale e collettiva, di popolo. La conseguenza di questa concezione autoritaria è che ogni individuo è condannato a restare isolato e indifeso di fronte al potere, senza legami. Tali idee disgregatrici hanno avuto una piena e incontrastata applicazione in Italia nel recente biennio 2020-2021, ispirando le rigidissime e insane misure prese dal governo di Giuseppe Conte e Roberto Speranza con la giustificazione del coronavirus. L'Italia intera è rimasta chiusa e bloccata per lunghi mesi, con strade e locali pubblici deserti, mentre l'ineffabile Fiorello catechizzava il pubblico televisivo con il suo servile sermoncino: "Io reesto a caasa!".

Dulcis in fundo. Il concetto di "dissidente pericoloso", ben vivo nel Piemonte sabaudo, che considerava nemici tutti coloro che criticavano la politica del governo, si trasformò più tardi, nelle discussioni fra interventisti e pacifisti al tempo della Grande Guerra, nella figura del "nemico interno". Questa figura non è mai morta e oggi è più viva che mai. Il "nemico interno" di oggi, considerato una sorta di traditore dell'interesse nazionale, è il cittadino che rifiuta il vaccino anti-covid o quello che non crede alla santità e all'eroismo della resistenza ucraina e critica le sanzioni alla Russia. E' un individuo da tenere a bada e da isolare. La parola d'ordine, perciò, è sempre la stessa: Avanti Savoia!

 

giovedì 22 febbraio 2024

Carlo Alianello (1901-1981). L'eredità della Priora. Romanzo. Feltrinelli, 1979


 ‘L’eredità della Priora’, pubblicato nel 1963, ha le stesse caratteristiche del primo romanzo di Alianello, ‘L’alfiere’, che io ho commentato su questo Blog qualche settimana fa; però non ha più i difetti che ho trovato in quell’opera del 1942, o almeno non li ha in modo così marcato. Alianello è un grande narratore. I dialoghi, anche quelli dove si discute di storia e di politica, non hanno qui più niente di estrinseco, di artificioso e di didascalico, ma sono fusi con l’azione e con i personaggi. Che Alianello non sia nemmeno citato nelle storie letterarie, è una prova del vergognoso conformismo culturale dell’Italia ‘democratica’ del dopoguerra. Un romanzo noioso come ‘Gli indifferenti’ è portato alle stelle, perché in esso si è voluto vedere lo specchio della noia e della corruzione della piccola borghesia fascista, mentre ‘L’eredità della Priora’, opera ricca, complessa e varia, è pressoché ignorata. Sotto l'egemonia culturale dei progressisti, il romanzo di Moravia è sembrato molto attuale. Quello di Alianello, invece, che capovolge l’interpretazione eroica del Risorgimento, è stato considerato reazionario e anacronistico. In realtà, però, l’opera dello scrittore lucano (anche se nato a Roma) è troppo profonda e lungimirante per servire agli interessi di singole  botteghe ideologiche. Ammettiamo pure, con generosità, che il romanzo di Moravia descriva la piccola borghesia fascista (che è il punto più alto fino al quale sa risalire la critica di intellettuali democratici come Augias, Scalfari & C.), non si può negare, però, che il libro di Alianello pone problemi ben più essenziali e intrinseci alla storia d'Italia: infatti se non si mette in discussione il modo con cui si è arrivati all'unità nazionale, non si capisce la decadenza e il decadimento dell'Italia e degli italiani di oggi. In questa prospettiva, 'L’eredità della Priora’, oltre ad avere una superiore qualità artistica, assume un valore di attualità politica e storica che Moravia non si sogna nemmeno. Il difetto del libro, mi sembra, è, come nel primo romanzo, una certa prolissità  (però più contenuta), la mancanza di una misura che, se Alianello non cedesse continuamente al suo sovrabbondante talento di descrivere tutto nei minimi dettagli, avrebbe dato a quest'opera robusta e compatta anche una felice agilità.  Tuttavia la sovrabbondante passione descrittiva di Alianello offre una grande ricchezza di impressioni e di suggestioni, come se il lettore facesse un lungo viaggio nel sud d'Italia. I vestiti, le abitudini, i cibi, i passatempo dei galantuomini (nelle due farmacie della cittadina capoluogo, al caffè o in qualche sacrestia accogliente), tutto è descritto con premurosa attenzione o con fantasia accesa. "Nel fango attaccaticcio gli zoccoli dei cavalli facevano un suono come di bottiglie stappate con precauzione".  I dialoghi in dialetto sono credibili, naturali e spiritosi. La scena in cui la moglie di un notabile locale intrattiene il giovane Andrea Guarna e gli presenta, con la speranza di un possibile matrimonio, le proprie figlie piuttosto bruttine, è fresca e spiritosa come una scena di Goldoni. "Intanto donna Antonietta continuava ad informarlo delle virtù delle figlie: 'Nanà suona l'arpa... na meraviglia, barone, tale e quale a un angelillo del cielo... No, l'arpa non l'abbiamo acquistata... che vulite truvà a stu paiese? ma mio marito l'ha commissionata a Parigi... Pé tramente 'a nennella va a suonare lo strumento addò... voglio dire in casa della maestra, donna Amalia Peluso, diplomata a San Pietro a Maiella, e Ninì sona 'o mandulino. 'A verità, io avevo l'intenzione di fargli scegliere 'o pianoforte a Ninì, ma poi mi sono disillusa, perché 'o pianoforte mò sta diventando plebeo...' ". Alianello, da grande narratore, sa animare e rendere indimenticabili come vividi affreschi anche le scene piene di folla: combattimenti fra briganti e soldati, feste ufficiali di gentiluomini e militari, grandi pranzi di famiglia. A Rionero in Vulture, in casa del possidente don Pasquale Forogna, c'è un pranzo di gala. Lunga tavola in uno stanzone vastissimo. "Attorno attorno, come un festone nero, c'era la parata di tutta la famiglia... In prima fila Gerardo vide le donne; ma erano tutte vecchie... E queste vecchie erano tutte formidabili nella loro veste nera, nel corpetto nero, nello scialle nero...". Accenno soltanto alla capacità di Alianello di cogliere sentimenti intimi d'amore, slanci di religiosità, come nella figura complessa e ascetica della Priora, di descrivere facce caricaturali che nel Meridione sono così frequenti (Rocco Sfregola "allargò sulla faccia un sorriso che gli scoprì un guazzabuglio di denti neri, scompigliati e spersi"). Non mancano episodi pieni di fantasia surreale, di superstizione, di sentimenti primitivi: tutti elementi che sono vivi ancora oggi nella vita meridionale. Quando Gerardo Satriano fugge da Potenza per salvarsi dai soldati piemontesi, càpita per la seconda volta nella casa di favola di due giovani sorelle che sembrano piovute dal cielo: Carmenella, adolescente Giunone, e Nannina, una Venere o Diana. "Streghe o no, erano brave femmine e l'avevano tenuto come fosse un re; con lui avevano diviso tutto, la tavola, la bottiglia e perfino il letto. L'avevano messo a dormire tra loro nel letto grande e Gerardo ci si trovava comodo... Gli pareva d'essere diventato un turco con due mogliere, la bionda e la bruna, l'esile e la polposa...". Ma il grande amore di Alianello per la sua terra e la sua gente trova più spesso un tono doloroso e sarcastico. Parla un galantuomo che si è fatto brigante: "I proprietari e i dotti hanno dirupata Napoli, l'hanno assassinata. Noi napoletani non rialzeremo la testa da tanta vergogna, d'esserci consegnati all'invasore lietamente per fanatismo, per corruzione, per indifferenza, per desiderio di novità, che tra un secolo o due. I nostri proprietari non hanno nessun attaccamento alla terra, i nostri saputi non sentono la responsabilità della loro cultura...". Un cafone che ascoltava queste parole chiede: "Eccellenza, voi che sapite tante belle cose, perché i piemontesi ci hanno voluto pigliare la terra nostra?". "Come? Non lo sai? Per amore di libertà".

domenica 11 febbraio 2024

Carlo Alianello (1901-1981), La conquista del Sud. Il Risorgimento nell'Italia meridionale. Rusconi, 1972


 Il libro di Alianello è una antologia di testi, molti dei quali già cinquant'anni fa, quando il libro fu pubblicato, erano introvabili, scritti soprattutto da testimoni oculari. Sulle menzogne, la slealtà, il razzismo e la ferocia dei piemontesi non mi dilungo. Queste pagine raccontano sia i casi particolari di violenza e di repressione, che le leggi e i proclami crudelissimi che le ispirarono. Sulle conseguenze ancora attuali di quella conquista e del saccheggio del Sud da parte dei Savoia, ho già detto qualcosa commentando in questo Blog vari libri di storia e di denuncia. Trovo invece qui per la prima volta (ma le mie letture sull’argomento non sono molte) lo sforzo di capire come mai il Regno delle Due Sicilie sia crollato così facilmente, praticamente senza combattere, travolto soprattutto dal tradimento in massa dei generali, degli alti ufficiali, dei comandanti della flotta, e dalle giravolte tortuose di tanti ministri, direttori, intendenti e perfino preti e vescovi. La causa principale, secondo Alianello, fu l’irrequietezza e l’indecisione della classe media, infarinata superficialmente di illuminismo, giansenismo, ecc.; furono le velleità di gran parte degli intellettuali, ansiosi di essere ‘moderni’, simili agli inglesi e ai francesi, ansiosi di far entrare a Napoli (“Cina d’Europa”), un soffio innovatore e vivificatore. Soprattutto gli pseudo istruiti erano sempre a caccia di novità. Perniciosa fu anche l’influenza dei ‘paglietti’, cioè gli avvocatucoli, avidi, chiacchieroni e cavillosi (l’avvocato nel Meridione è ancora oggi una figura sociale negativa e parassitaria). Alianello cita lo storico Raffaele De Cesare. L’Europa assordata da tante ripetute accuse non smentite, considerò come vera la famosa frase sulle carceri napoletane come ‘negazione di Dio’ scritta da lord Gladstone a lord Aberdeen nel 1851. Gli sfaccendati, i faccendieri, i dottoruzzi che bevono un facile sapere dai giornali, divennero strumenti di rivolta senza saperlo; ripetevano le lamentazioni senza intendere qual danno facessero, né quale immaginaria felicità si inventassero. Concorrevano a discreditare il governo molti avvocati tristi, che nella magistratura e nelle leggi trovavano argini alla loro avidità; giornalisti, poetastri, sollecitatori di affari; negozianti falliti o senza capitali, medici senza malati, studenti senza libri, proletari svogliati dalla fatica, camorristi, commessi viaggiatori, usciti di galera, servitorame a spasso; questa mescolanza di persone diverse era interessata ai subbugli, tutti costoro erano propagatori o inventori di mille laidissime favole. Che tutti costoro fossero della nazione napoletana solo una minima parte e la più rea, i fatti posteriori hanno pienamente dimostrato all’Europa stupefatta delle nefandezze che nei loro trionfi hanno perpetrato. 
Questo quadro sociale disegnato in breve da Raffaele De Cesare a me sembra molto simile alle  descrizioni che Hippolyte Taine fa con maggiore ampiezza della società prerivoluzionaria nella sua opera “Le origini della Francia contemporanea”. 
Dopo la conquista, scrive Alianello, nel Meridione non fu messa più pietra su pietra; le opere iniziate non furono mai portate a termine; quelle che cominciavano a dare già qualche frutto furono prima interrotte e poi soppresse. Tutte le cose buone furono cancellate o rapinate e portate al Nord a piemontesizzarsi. I contadini furono abbandonati e costretti a vivere nelle condizioni peggiori: non ebbero più un tozzo di pane da rosicchiare e in più dovettero pagare tasse e gabelle delle quali fino ad allora mai avevano sentito parlare. Per la prima volta nella loro storia travagliata, si videro sequestrare il campo, la capanna, il mulo, gli attrezzi, e non da un feudatario spietato e violento, ma da quel grande benefattore – così si proclamava – che fu il Grande Progresso Liberatore. Nessuno dei tanti ministri o grandi uomini del Meridione, a cominciare da Francesco Crispi per terminare col papa laico della cultura italiana, Benedetto Croce (il grande filosofo che ha definito i contadini ribelli ‘osceni briganti’), ha mosso un dito per riscattare l’oltraggio; nessuno s’è mai opposto alle leggi inique che, per favorire le industrie del Nord, cancellavano ogni traccia di quelle del Sud e ne ferivano a morte l’agricoltura un tempo fiorente. Nessuno ha difeso il proprio paese a viso aperto, anche solo limitandosi a dire la verità.

domenica 4 febbraio 2024

Carlo Alianello (1901-1981), L' Alfiere. Feltrinelli, 1964

Di Carlo Alianello sapevo solo che era uno scrittore noto per aver rovesciato l’interpretazione ufficiale dell’epopea del Risorgimento. Recentemente ho sentito un giudizio sul suo primo romanzo “L’Alfiere” (1942) dato dal giornalista Giorgio Dell’Arti, di cui su Facebook trovo continuamente brevissimi video in cui esprime velocissimi pensieri. Per Dell’Arti “L’Alfiere” è un romanzo bellissimo. L’entusiasmo con cui ho cominciato a leggerlo, però, si è presto raffreddato. No, non è un romanzo bellissimo; è solo un bel romanzo pieno di difetti, ma pieno anche di qualità. E’ un romanzo robusto, scritto con grande forza e convinzione, con grande padronanza di tutti gli elementi del racconto: il paesaggio, la vicenda storica, la psicologia dei personaggi e il loro linguaggio, gli oggetti, i mobili, i vestiti... Alianello vuole dominare e descrivere minuziosamente ogni cosa, anche minima. Ma le sue descrizioni non sono mai piatte, non sono inventari o elenchi come in altri scrittori (Cassola, per es.).

Il vecchio don Rinaldo Lecaldani. “Era in pantofole e in maniche di camicia e la barba bianca e spumosa si sfioccava al sole e al vento. E al sole si increspava beatamente il cranio nudo, mentre i ciuffi lanosi che glielo incoronavano, gonfiandoli lievemente al respiro sordo della calura, mandavan lampi d’argento”.

Notevoli sono i paesaggi, descritti in modo vivo e animato, con forza visionaria: “e in cielo le nubi passavano di carriera e si lasciavan dietro nella lor fuga stracci, batuffoli, fiocchi, fettucce. Tutte al mare andavano, verso Gaeta e si mettevano in riga lì all’orizzonte, l’una dopo l’altra, domate alfine, ma irrequiete ancora”.  Il paesaggio vale forse metà del romanzo, perché Alianello, di origini lucane, è innamorato della terra meridionale: non solo del clima e della vegetazione (“dove lo trovi un paese che a novembre ci sono arance e fichidindia e te ne vai così senza cappotto?”), ma anche della sua storia millenaria, che fa del Sud non una provincia meschina, ma una terra classica, piena di dignità, che gli usurpatori piemontesi non hanno. “Quella è la via Appia”, diceva don Giacinto, “e quanta storia c’è passata sopra! Consoli, imperatori, re, romani e saraceni, S. Pietro e S. Paolo...Tu qui ritrovi Oriente e Occidente, Grecia e Roma, Paganesimo e Cristianesimo...”

Questo nobile culto della propria terra, che non esclude affatto l’amore per l’Italia intera, non è stato compreso dalla critica. Alessandra Cimmino, in Dizionario biografico degli italiani, trova che il romanzo abbia, oggi, appena “un qualche interesse” e che l’autore sia uno scrittore “attardato e isolato”, un cattolico reazionario, senza alcuna fiducia nello sviluppo storico. Certo, quando lo sviluppo storico era considerato da tutti un sicuro progresso, chi era scettico finiva isolato, ai margini della società culturale. Ma oggi che lo sviluppo storico cui ha dato impulso l’unità d’Italia ci ha portati a questa “Itaglietta” e a questi “itagliani” inqualificabili, forse la posizione di Alianello non sembrerebbe così colpevolmente ‘attardata’. Il romanzo è certamente prolisso, specialmente il primo quarto. Dopo che l’alfiere, il nobile ventenne don Pino Lancia, è tornato a casa, a Napoli, per guarire da una ferita ricevuta dai garibaldini a Palermo, il ritmo diventa un po’ più svelto e la vicenda più vivace. L’esercito napoletano si disfa senza combattere, a causa della fiacchezza, incompetenza e corruzione degli alti gradi. A Calatafimi i Cacciatori napoletani stavano vincendo, quando il generale Francesco Landi, “sparuto, giallognolo, angoloso...affogato da tutto l’oro della montura”, ordina la ritirata. Ma tutta la società napoletana è malata: la gioventù aristocratica, il ceto medio e il popolino di città vogliono il cambiamento, la libertà. Solo qualcuno è consapevole che la libertà che viene da fuori e che è imposta con le armi è tirannia. “La libertà di quei signori,” e il colonnello brigadiere additò ai monti lontani, dietro i quali era il Volturno e i garibaldini, “è un feudalismo camuffato”. L’alfiere rifiuta di cambiare bandiera, pur sapendo quanto l’esercito e il governo napoletani sono corrotti. Il suo senso dell’onore lo mantiene fedele al giuramento fatto al Re; il suo coraggio e la dignità ne fanno un uomo sprezzante del tornaconto personale. Segue il re Francesco II fino a Gaeta, dove ci sarà l’ultima resistenza non più contro i volontari di Garibaldi, ma contro l’esercito piemontese di Enrico Cialdini, sceso in forze dal Nord a concludere la disfatta dei borbonici.

L’alfiere è un personaggio credibile; forse non è avvincente e ammaliatore come un vero eroe, ma la sua umanità è compresa e descritta bene, e così è, mi pare, di tutti gli altri personaggi minori. Indimenticabile e commovente è la figura di Titina Lecaldani, una ragazza di nobile famiglia, di Tito, paese della Lucania dove l’alfiere si reca in convalescenza. L’incontro fra i due giovani è breve e intenso, e l’amore è espresso con poche parole essenziali. La sua completa dedizione a Pino (lo libera dopo che i giovani nobili del paese, tutti simpatizzanti per Garibaldi, lo avevano messo sotto chiave) la porta a morire, uccisa da una fucilata sparata a casaccio nella notte. Bella, simpatica, intelligente, dolce Titina!

A parte la prolissità e la lentezza, che spesso gli fanno perdere slancio e vigore (tra l’altro, è riportato il testo di noiose circolari ministeriali del governo napoletano, come fa Manzoni con le grida), il romanzo ha altri due difetti che lo appesantiscono e lo squilibrano. C’è un ricorrente elemento di sensualità torbida, che probabilmente fa parte del carattere di Alianello, ma è legittimato artisticamente, per così dire,  da un  verismo d’ispirazione dannunziana (Le novelle della Pescara). C’è nel romanzo una sorta di co-protagonista, fra’ Carmelo, giovane e coraggioso francescano di sentimenti purissimi. E’ interessante e originale, mi pare, il fatto che egli, nella sua passione di prodigarsi per il sollievo delle anime dei combattenti, partito da Palermo per unirsi ai garibaldini, finisce con il diventare cappellano di un battaglione napoletano a Gaeta. Gran parte del viaggio da Palermo verso nord, Carmelo lo fa con una ragazza, Speranza, con suo padre Nunzio, ex sbirro governativo ferito, e con Neli, un altro sbirro in fuga  che ha messo incinta la ragazza. Speranza è una ragazza lasciva da cui Carmelo, con sua sorpresa e spavento, si sente tentato. Queste situazioni torbide si ripetono spesso e quando, dopo molte peripezie, Speranza e Carmelo si incontrano di nuovo, a Itri, la ragazza, guardando il frate “con una tenerezza un po’ beffarda”, lo rimprovera per averla respinta quando lei era pronta a darsi. “Padrino, oggi voglio dirvi una cosa. Lo sapete il proverbio? Ogni lasciata è persa [...] Non è carità cristiana, padrino bello, strapparmi il cuore dal petto e poi buttarlo lì all’angolo della strada, ai cani”. Le scene di sensualismo torbido e di fisicità truculenta sono frequenti e culminano in un omicidio. Nunzio, il padre della ragazza, uccide Neli, l’amante che non vuole sposarla, e viene per questo fucilato.

L’altro peso che aggrava il romanzo sono i molti discorsi privi di naturalezza e spontaneità, e troppo didascalici. Sono certo pieni di senno e ricchi di buone idee, però molto artificiosi. Il colonnello brigadiere che nomina fra’ Carmelo cappellano del suo scalcagnato battaglione fa un pacato ed ecumenico discorso in cui si sente l’eco delle parole di Federigo Borromeo a don Abbondio. E le ispirate prediche di fra’ Carmelo sono innumerevoli: magari sono belle prediche, qualcuna è più che mai attuale (“Questo secolo ha peccato contro lo Spirito Santo e non v’è perdono per lui. V’è un solo Dio e voi vi fate idoli il denaro, la lussuria, la Potenza, la violenza...”), però  la qualità artistica del romanzo ne soffre. E’ un peccato, perché Alianello, oltre che un robusto pensatore, sa dominare le situazioni e le scene e sa far muovere bene i personaggi (bello e divertente lo scontro in una osteria napoletana di Pino e la sua amante Ginevra con i camorristi) e può inoltre creare molte belle e delicate immagini liriche.

Di notte, al fiume. “Ma d’acqua non ce n’era che un filo, un filo stento e così sottile da parer spiccato dal gomitolo bianco della luna”.

 

 

 

 

 

 



 

martedì 30 gennaio 2024

Manara Valgimigli (1876-1965). La mula di don Abbondio. Cappelli, 1954

Manara Valgimigli, filologo classico, traduttore di Platone e di altri autori greci, forse è ancora noto agli studenti colti di oggi. In questo volumetto sono raccolti articoli di varia cultura pubblicati nei primi anni Quaranta e Cinquanta. I temi non sono mai argomenti generali, concezioni vaste, visioni d’insieme, ma solo questioni particolari: l’interpretazione di un verso o di una scena, magari intrecciata alla rievocazione di un ricordo lontano. Ma anche in queste minuzie filologiche Valgimigli mette tutta la sua sensibilità, il suo buon gusto e la sua arguzia. Colpisce la pacatezza del tono, che, seppur conforme all’indole di Valgimigli, stupisce un poco in un tempo burrascoso quale furono il 1942 e il 1943, anni di pubblicazione di molti di questi articoli, e poi nel clima politico-culturale per niente tranquillo degli anni 1952-53, quando uscirono i rimanenti elzeviri. Qui non c’è mai nessuna asprezza, nessuna vera polemica; e qualche leggero dissenso da altri critici e letterati è espresso con estremo garbo. Lo  stile e la lingua di questi scritti sembrano appartenere a un’epoca ben più remota di quanto non sia il tempo reale della loro composizione. Valgimigli scrive più o meno come Carducci, di cui fu allievo e ammiratore. C’è sempre una certa enfasi musicale nelle sue frasi, che cominciano spesso con il complemento oggetto, seguito dal verbo e con il soggetto per ultimo: “Ahimè il silenzio più non lo amano gli uomini, e anzi lo fuggono, e anzi lo odiano, e vogliono vivere in un furore cieco che acceca; e l’anima acceca”. Accenno al tema di qualcuno dei suoi articoli. Don Abbondio si reca per la prima volta al castello dell’Innominato su una mula. Perché proprio su una mula? “A piedi, no [...] A piedi don Abbondio farà l’altro viaggio, insieme con Agnese e Perpetua [...] In lettiga neanche [...] in lettiga, in portantina, come un prelato più o meno solenne, lui pover uomo non riusciamo a vederlo. E neanche a cavallo, alla pari, o magari di fianco, con l’Innominato. Ci voleva una mula; e proprio quella mula”. La mula del segretario, che era un letterato. Dunque una bestia quieta, “la mula che ci voleva proprio per lui, che pareva nata apposta per aspettare lui, in quel paese e in quella circostanza”. In tutti i suoi scritti Valgimigli difende le ragioni fantastiche dei poeti contro le ragioni della verisimiglianza, che solo apparentemente sembrano più valide. “In poesia c’è quello soltanto che la poesia vuole ci sia; senza il suo battesimo niente nasce. E questo è così vero che se un poeta e brav’uomo come il Manzoni, perché affezionato a certi personaggi del suo romanzo, ha voglia, sulla fine, di raccontarci cose ormai fuori della fantasia e della poesia, nessuno gli bada”, e le cose che aggiunge, subito si dimenticano perché non hanno una ragione poetica di essere. Nell’articolo “Nausicaa dalle bianche braccia”, Valgimigli fa un’osservazione estetica che mi sembra bella e sottile. “E’ manifesto che nel tono lirico la parola singola ha un rilievo spiccato che nel tono epico non ha”. Tralascio i vari esempi portati da Valgimigli e mi limito a questa sua riprova a contrario. “Prendete del Pascoli un gruppetto di esametri tradotti da Omero. Li liricizza. Cioè taglia e stacca e distingue le parole una per una; e perfino gli elementi di una parola. E allora la ‘lunga ombra della lancia’ vale più essa della lancia: che in un racconto e canto di guerra è cosa che un poco disdice”. Nell’ultimo articolo che voglio ricordare Valgimigli racconta come il conte Carlo Gamba, discendente della contessa Teresa Guiccioli, donasse alla Biblioteca Classense di Ravenna (di cui Valgimigli fu direttore dal 1948 al 1955), decine di lettere d’amore inviate da Lord Byron alla ‘zia Teresa’. “Era nato questo amore a Venezia nell’aprile del 1810, quando lei non aveva ancora venti anni e già era stata maritata a un conte Guiccioli di Ravenna, vecchio e canaglia; e durò fino alla partenza di Byron per la Grecia nel maggio del 1823. Fu da principio, nel Byron, un’avventura, una delle sue numerose avventure con donne di ogni specie, e non senza qualche volgarità (‘si tratta di cornificare un conte del papa’, scriveva a un amico); poi, a quella gran fiamma, anche lui un poco si apprese e si accese. Ma in lei fu l’amore veramente unico, che amò e nutrì e custodì vivo fino che visse. Perché amò ella il suo Byron, ma anche amò il suo amore per Byron... Ma queste lettere, ahimè, come sono brutte! A leggerle è una dispettosa noia. Non dico brutte per il brutto e stentato italiano... La verità è che il Byron, di proprio suo, alla Guiccioli non aveva niente da dire. Quei milioni di baci scritti con quell’uno e tanti zeri, fanno pensare a lettere d’amore scritte da un soldatino. Certe altre espressioni hanno l’aria di essere ricopiate da un segretario galante”.

Povera contessa Teresa, quante illusioni! Ma Valgimigli non sembra compiangerla troppo; e anzi, con una certa ironia, si rammarica che lei, ormai non più bionda, in una malinconica sera d’inverno, sedendo davanti al caminetto della sua villa di Settimello, alla periferia di Firenze, non abbia riletto un’ultima volta le lettere del suo amato per poi lasciarle cadere sul fuoco una per una. Se la ‘zia Teresa’ avesse avuto il coraggio di fare questo, avrebbe contribuito meglio alla buona fama di Lord Byron.

 

venerdì 26 gennaio 2024

Prospero Mérimée (1803-1870). La notte di S. Bartolomeo (Storia del tempo di Carlo IX). Milano, Fratelli Treves, 1931


 Questo breve romanzo giovanile (1829) ricostruisce con fedeltà storica il clima delle guerre civili in Francia fra cattolici e protestanti e la strage di 'eretici' compiuta la notte del 24 agosto 1572. In qualche personaggio e in qualche episodio di osterie ci sono, in anticipo, lo spirito avventuroso e la comicità de 'I tre moschettieri', ma la prosa di Mérimée, il quale - da scettico - non si addentra nelle controverse questioni di fede, è veloce e pungente e sa essere umana e drammatica. E' indimenticabile la descrizione della caccia al cervo, ucciso dal sadico re Carlo IX.

"Il cervo si era gettato dapprima in uno stagno dal quale si era durato fatica a snidarlo. Molti cavalieri smontati di sella e armati di lunghe pertiche avevano costretto il povero animale a riprendere la corsa; ma il freddo dell'acqua pareva che avesse ormai esaurite le sue forze. Uscì infatti ansante dallo stagno e corse irregolarmente un buon tratto con la lingua fuori, mentre i cani al contrario sembravano raddoppiare l'ardore. Infine, sentendo che non le sarebbe ormai più valsa la fuga, la povera bestia tentò un ultimo sforzo e piantata sotto una grande quercia si preparò a tener testa bravamente ai cani. I primi che gli si accostarono furono infatti sventrati e gettati in aria e anche un cavallo col suo cavaliere fu gettato a terra violentemente ... A questo punto il re smontò agilmente di cavallo e, girando abilmente dietro la quercia armato del suo coltello da caccia, tagliò di un colpo il garetto del cervo. L'animale emise una specie di soffio e cadde di colpo, assalito immediatamente da venti cani. Preso alla gola, al muso, alla lingua l'animale fu immobilizzato, e grosse lacrime gli scendevano dagli occhi".