martedì 30 gennaio 2024

Manara Valgimigli (1876-1965). La mula di don Abbondio. Cappelli, 1954

Manara Valgimigli, filologo classico, traduttore di Platone e di altri autori greci, forse è ancora noto agli studenti colti di oggi. In questo volumetto sono raccolti articoli di varia cultura pubblicati nei primi anni Quaranta e Cinquanta. I temi non sono mai argomenti generali, concezioni vaste, visioni d’insieme, ma solo questioni particolari: l’interpretazione di un verso o di una scena, magari intrecciata alla rievocazione di un ricordo lontano. Ma anche in queste minuzie filologiche Valgimigli mette tutta la sua sensibilità, il suo buon gusto e la sua arguzia. Colpisce la pacatezza del tono, che, seppur conforme all’indole di Valgimigli, stupisce un poco in un tempo burrascoso quale furono il 1942 e il 1943, anni di pubblicazione di molti di questi articoli, e poi nel clima politico-culturale per niente tranquillo degli anni 1952-53, quando uscirono i rimanenti elzeviri. Qui non c’è mai nessuna asprezza, nessuna vera polemica; e qualche leggero dissenso da altri critici e letterati è espresso con estremo garbo. Lo  stile e la lingua di questi scritti sembrano appartenere a un’epoca ben più remota di quanto non sia il tempo reale della loro composizione. Valgimigli scrive più o meno come Carducci, di cui fu allievo e ammiratore. C’è sempre una certa enfasi musicale nelle sue frasi, che cominciano spesso con il complemento oggetto, seguito dal verbo e con il soggetto per ultimo: “Ahimè il silenzio più non lo amano gli uomini, e anzi lo fuggono, e anzi lo odiano, e vogliono vivere in un furore cieco che acceca; e l’anima acceca”. Accenno al tema di qualcuno dei suoi articoli. Don Abbondio si reca per la prima volta al castello dell’Innominato su una mula. Perché proprio su una mula? “A piedi, no [...] A piedi don Abbondio farà l’altro viaggio, insieme con Agnese e Perpetua [...] In lettiga neanche [...] in lettiga, in portantina, come un prelato più o meno solenne, lui pover uomo non riusciamo a vederlo. E neanche a cavallo, alla pari, o magari di fianco, con l’Innominato. Ci voleva una mula; e proprio quella mula”. La mula del segretario, che era un letterato. Dunque una bestia quieta, “la mula che ci voleva proprio per lui, che pareva nata apposta per aspettare lui, in quel paese e in quella circostanza”. In tutti i suoi scritti Valgimigli difende le ragioni fantastiche dei poeti contro le ragioni della verisimiglianza, che solo apparentemente sembrano più valide. “In poesia c’è quello soltanto che la poesia vuole ci sia; senza il suo battesimo niente nasce. E questo è così vero che se un poeta e brav’uomo come il Manzoni, perché affezionato a certi personaggi del suo romanzo, ha voglia, sulla fine, di raccontarci cose ormai fuori della fantasia e della poesia, nessuno gli bada”, e le cose che aggiunge, subito si dimenticano perché non hanno una ragione poetica di essere. Nell’articolo “Nausicaa dalle bianche braccia”, Valgimigli fa un’osservazione estetica che mi sembra bella e sottile. “E’ manifesto che nel tono lirico la parola singola ha un rilievo spiccato che nel tono epico non ha”. Tralascio i vari esempi portati da Valgimigli e mi limito a questa sua riprova a contrario. “Prendete del Pascoli un gruppetto di esametri tradotti da Omero. Li liricizza. Cioè taglia e stacca e distingue le parole una per una; e perfino gli elementi di una parola. E allora la ‘lunga ombra della lancia’ vale più essa della lancia: che in un racconto e canto di guerra è cosa che un poco disdice”. Nell’ultimo articolo che voglio ricordare Valgimigli racconta come il conte Carlo Gamba, discendente della contessa Teresa Guiccioli, donasse alla Biblioteca Classense di Ravenna (di cui Valgimigli fu direttore dal 1948 al 1955), decine di lettere d’amore inviate da Lord Byron alla ‘zia Teresa’. “Era nato questo amore a Venezia nell’aprile del 1810, quando lei non aveva ancora venti anni e già era stata maritata a un conte Guiccioli di Ravenna, vecchio e canaglia; e durò fino alla partenza di Byron per la Grecia nel maggio del 1823. Fu da principio, nel Byron, un’avventura, una delle sue numerose avventure con donne di ogni specie, e non senza qualche volgarità (‘si tratta di cornificare un conte del papa’, scriveva a un amico); poi, a quella gran fiamma, anche lui un poco si apprese e si accese. Ma in lei fu l’amore veramente unico, che amò e nutrì e custodì vivo fino che visse. Perché amò ella il suo Byron, ma anche amò il suo amore per Byron... Ma queste lettere, ahimè, come sono brutte! A leggerle è una dispettosa noia. Non dico brutte per il brutto e stentato italiano... La verità è che il Byron, di proprio suo, alla Guiccioli non aveva niente da dire. Quei milioni di baci scritti con quell’uno e tanti zeri, fanno pensare a lettere d’amore scritte da un soldatino. Certe altre espressioni hanno l’aria di essere ricopiate da un segretario galante”.

Povera contessa Teresa, quante illusioni! Ma Valgimigli non sembra compiangerla troppo; e anzi, con una certa ironia, si rammarica che lei, ormai non più bionda, in una malinconica sera d’inverno, sedendo davanti al caminetto della sua villa di Settimello, alla periferia di Firenze, non abbia riletto un’ultima volta le lettere del suo amato per poi lasciarle cadere sul fuoco una per una. Se la ‘zia Teresa’ avesse avuto il coraggio di fare questo, avrebbe contribuito meglio alla buona fama di Lord Byron.

 

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