lunedì 11 marzo 2024

Mimmo Franzinelli. Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini. Mondadori, 2021

Il libro di Franzinelli non è una biografia intellettuale di Gentile; è solo una biografia politica. Però attraverso i discorsi e gli interventi politici, non si può evitare di giudicare anche il suo pensiero filosofico. Nel 1914-15 Gentile è interventista ed esalta la guerra. “E’ santa finché è necessaria… E’ il nostro atto assoluto, il nostro dovere, il nostro supremo e unico interesse… Sospirare oggi la pace per orrore degli eccidi e delle ruine che il flagello della guerra va seminando spietatamente, è viltà d’animo”. Se si pensa che personalmente Gentile era un uomo mite e sensibile e che come padre sarà un padre angosciatissimo, quando suo figlio Federico, nel 1943, rimarrà per parecchi mesi prigioniero dei tedeschi (che Gentile considerava bravi e giusti alleati), non si può non pensare che, a partire dalla Grande Guerra, in lui sia stato costantemente presente un elemento di grande esaltazione intellettuale, morale e politica, che ha oscurato la sua percezione della realtà. Legatosi, dopo la guerra, a Mussolini e al suo movimento, vede nel Duce il realizzatore delle idealità mazziniane e nutre per lui una ammirazione che arriva alla sudditanza psicologica, alla fiducia mistica. Nel marzo del 1924 tiene a Palermo un grande discorso dove la logica del nostro umanesimo è già tutta alterata. “Ogni forza è forza morale, perché si rivolge sempre alla volontà: e qualunque sia il mezzo adoperato – dalla predica al  manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo e lo persuade a consentire”. Vedere nel manganello non uno strumento che opprime la volontà, ma un argomento che la sollecita a consentire (sembra una frase detta per ironia), è il segno che si è fatto un bel salto dalla realtà umana ad una immaginazione corrotta. Una spiegazione almeno parziale di questa immaginazione inumana la dà Luigi Russo in “La critica letteraria contemporanea”. Secondo Russo, Gentile considera ‘artista’ sia l’autore di un sonetto che l’iniziatore di una guerra o di una rivoluzione: chiunque ordisca le fila di un’impresa atta a raggiungere uno scopo. Dal 1918, scrive Russo, era iniziata quella specie di lievitazione oratoria del pensiero gentiliano, una specie di crescendo alla Bolero di Ravel, che doveva portare il suo autore a un’oratoria sempre più parossisticamente generica. Nel 1940, in un saggio pubblicato su ‘Civiltà’, Gentile scrive in modo esaltato: “Mussolini ha sentito la grandezza del passato immanente ed eterno dell’Italia romana e cristiana. Ma l’ha sentita come realtà non chiusa e sigillata nel passato venerando, bensì come vivente processo  in via di immancabile realizzazione”, e via vaneggiando. Manterrà questo tono fino alla fine, fino all’ultimo discorso del 19 marzo 1944 (poche settimane prima di essere ucciso), quando, oltre a osannare Mussolini, capo redivivo della Repubblica di Salò, inneggia a Hitler, condottiero della grande Germania: il duce e il Führer forgeranno il nuovo ordine europeo.

In Gentile, oltre all’esaltazione politica, c’è un immiserimento retorico del linguaggio, che è anche immiserimento morale. Scrivendo alla fine del 1943 al maresciallo Graziani perché interceda presso le autorità tedesche a favore del figlio Federico, loro prigioniero, esprime la sua “grande ammirazione pel tuo coraggio e per la potente [!!] energia” con cui sta ricostituendo l’esercito di Salò. Un giudizio severo di Benedetto Croce, ricordato da Luigi Russo nell’opera citata, aiuta a capire come un uomo di tanta cultura abbia potuto lasciarsi sedurre dalla bolsa retorica fascista. Per Croce, Gentile era un uomo anestetico [privo di senso estetico], chiuso e impenetrabile alla poeticità della poesia, ignaro e incurioso delle opere dell’arte, inesperto dei problemi estetici, scrittore privo di qualsiasi finezza ed eleganza, in odio alle Muse.

Il libro di Franzinelli è una biografia politica ben documentata e molto ricca di particolari. Mi sembra che il tono dell’autore, benché il suo punto di vista sia opposto a quello di Gentile, si mantenga sempre piuttosto obiettivo e umanamente comprensivo. Non vengono fuori tratti veramente simpatici del filosofo siciliano, però Franzinelli ricorda la sua discreta tolleranza e indulgenza (con qualche eccezione) verso studiosi anche di idee contrarie. Personalmente, trovo che la sua uccisione sia stata sproporzionata rispetto alle sue colpe. In confronto a molti intellettuali, poeti e artisti fascisti o simpatizzanti, che dopo il crollo del regime, per paura e opportunismo, secondo un costume oggi più vivo che mai, si allontanarono da lui lasciandolo solo, e cercarono di far dimenticare il proprio passato, Gentile, che rimase incrollabile al proprio posto e che aveva sempre rifiutato la scorta armata, merita rispetto.

 

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