domenica 4 febbraio 2024

Carlo Alianello (1901-1981), L' Alfiere. Feltrinelli, 1964

Di Carlo Alianello sapevo solo che era uno scrittore noto per aver rovesciato l’interpretazione ufficiale dell’epopea del Risorgimento. Recentemente ho sentito un giudizio sul suo primo romanzo “L’Alfiere” (1942) dato dal giornalista Giorgio Dell’Arti, di cui su Facebook trovo continuamente brevissimi video in cui esprime velocissimi pensieri. Per Dell’Arti “L’Alfiere” è un romanzo bellissimo. L’entusiasmo con cui ho cominciato a leggerlo, però, si è presto raffreddato. No, non è un romanzo bellissimo; è solo un bel romanzo pieno di difetti, ma pieno anche di qualità. E’ un romanzo robusto, scritto con grande forza e convinzione, con grande padronanza di tutti gli elementi del racconto: il paesaggio, la vicenda storica, la psicologia dei personaggi e il loro linguaggio, gli oggetti, i mobili, i vestiti... Alianello vuole dominare e descrivere minuziosamente ogni cosa, anche minima. Ma le sue descrizioni non sono mai piatte, non sono inventari o elenchi come in altri scrittori (Cassola, per es.).

Il vecchio don Rinaldo Lecaldani. “Era in pantofole e in maniche di camicia e la barba bianca e spumosa si sfioccava al sole e al vento. E al sole si increspava beatamente il cranio nudo, mentre i ciuffi lanosi che glielo incoronavano, gonfiandoli lievemente al respiro sordo della calura, mandavan lampi d’argento”.

Notevoli sono i paesaggi, descritti in modo vivo e animato, con forza visionaria: “e in cielo le nubi passavano di carriera e si lasciavan dietro nella lor fuga stracci, batuffoli, fiocchi, fettucce. Tutte al mare andavano, verso Gaeta e si mettevano in riga lì all’orizzonte, l’una dopo l’altra, domate alfine, ma irrequiete ancora”.  Il paesaggio vale forse metà del romanzo, perché Alianello, di origini lucane, è innamorato della terra meridionale: non solo del clima e della vegetazione (“dove lo trovi un paese che a novembre ci sono arance e fichidindia e te ne vai così senza cappotto?”), ma anche della sua storia millenaria, che fa del Sud non una provincia meschina, ma una terra classica, piena di dignità, che gli usurpatori piemontesi non hanno. “Quella è la via Appia”, diceva don Giacinto, “e quanta storia c’è passata sopra! Consoli, imperatori, re, romani e saraceni, S. Pietro e S. Paolo...Tu qui ritrovi Oriente e Occidente, Grecia e Roma, Paganesimo e Cristianesimo...”

Questo nobile culto della propria terra, che non esclude affatto l’amore per l’Italia intera, non è stato compreso dalla critica. Alessandra Cimmino, in Dizionario biografico degli italiani, trova che il romanzo abbia, oggi, appena “un qualche interesse” e che l’autore sia uno scrittore “attardato e isolato”, un cattolico reazionario, senza alcuna fiducia nello sviluppo storico. Certo, quando lo sviluppo storico era considerato da tutti un sicuro progresso, chi era scettico finiva isolato, ai margini della società culturale. Ma oggi che lo sviluppo storico cui ha dato impulso l’unità d’Italia ci ha portati a questa “Itaglietta” e a questi “itagliani” inqualificabili, forse la posizione di Alianello non sembrerebbe così colpevolmente ‘attardata’. Il romanzo è certamente prolisso, specialmente il primo quarto. Dopo che l’alfiere, il nobile ventenne don Pino Lancia, è tornato a casa, a Napoli, per guarire da una ferita ricevuta dai garibaldini a Palermo, il ritmo diventa un po’ più svelto e la vicenda più vivace. L’esercito napoletano si disfa senza combattere, a causa della fiacchezza, incompetenza e corruzione degli alti gradi. A Calatafimi i Cacciatori napoletani stavano vincendo, quando il generale Francesco Landi, “sparuto, giallognolo, angoloso...affogato da tutto l’oro della montura”, ordina la ritirata. Ma tutta la società napoletana è malata: la gioventù aristocratica, il ceto medio e il popolino di città vogliono il cambiamento, la libertà. Solo qualcuno è consapevole che la libertà che viene da fuori e che è imposta con le armi è tirannia. “La libertà di quei signori,” e il colonnello brigadiere additò ai monti lontani, dietro i quali era il Volturno e i garibaldini, “è un feudalismo camuffato”. L’alfiere rifiuta di cambiare bandiera, pur sapendo quanto l’esercito e il governo napoletani sono corrotti. Il suo senso dell’onore lo mantiene fedele al giuramento fatto al Re; il suo coraggio e la dignità ne fanno un uomo sprezzante del tornaconto personale. Segue il re Francesco II fino a Gaeta, dove ci sarà l’ultima resistenza non più contro i volontari di Garibaldi, ma contro l’esercito piemontese di Enrico Cialdini, sceso in forze dal Nord a concludere la disfatta dei borbonici.

L’alfiere è un personaggio credibile; forse non è avvincente e ammaliatore come un vero eroe, ma la sua umanità è compresa e descritta bene, e così è, mi pare, di tutti gli altri personaggi minori. Indimenticabile e commovente è la figura di Titina Lecaldani, una ragazza di nobile famiglia, di Tito, paese della Lucania dove l’alfiere si reca in convalescenza. L’incontro fra i due giovani è breve e intenso, e l’amore è espresso con poche parole essenziali. La sua completa dedizione a Pino (lo libera dopo che i giovani nobili del paese, tutti simpatizzanti per Garibaldi, lo avevano messo sotto chiave) la porta a morire, uccisa da una fucilata sparata a casaccio nella notte. Bella, simpatica, intelligente, dolce Titina!

A parte la prolissità e la lentezza, che spesso gli fanno perdere slancio e vigore (tra l’altro, è riportato il testo di noiose circolari ministeriali del governo napoletano, come fa Manzoni con le grida), il romanzo ha altri due difetti che lo appesantiscono e lo squilibrano. C’è un ricorrente elemento di sensualità torbida, che probabilmente fa parte del carattere di Alianello, ma è legittimato artisticamente, per così dire,  da un  verismo d’ispirazione dannunziana (Le novelle della Pescara). C’è nel romanzo una sorta di co-protagonista, fra’ Carmelo, giovane e coraggioso francescano di sentimenti purissimi. E’ interessante e originale, mi pare, il fatto che egli, nella sua passione di prodigarsi per il sollievo delle anime dei combattenti, partito da Palermo per unirsi ai garibaldini, finisce con il diventare cappellano di un battaglione napoletano a Gaeta. Gran parte del viaggio da Palermo verso nord, Carmelo lo fa con una ragazza, Speranza, con suo padre Nunzio, ex sbirro governativo ferito, e con Neli, un altro sbirro in fuga  che ha messo incinta la ragazza. Speranza è una ragazza lasciva da cui Carmelo, con sua sorpresa e spavento, si sente tentato. Queste situazioni torbide si ripetono spesso e quando, dopo molte peripezie, Speranza e Carmelo si incontrano di nuovo, a Itri, la ragazza, guardando il frate “con una tenerezza un po’ beffarda”, lo rimprovera per averla respinta quando lei era pronta a darsi. “Padrino, oggi voglio dirvi una cosa. Lo sapete il proverbio? Ogni lasciata è persa [...] Non è carità cristiana, padrino bello, strapparmi il cuore dal petto e poi buttarlo lì all’angolo della strada, ai cani”. Le scene di sensualismo torbido e di fisicità truculenta sono frequenti e culminano in un omicidio. Nunzio, il padre della ragazza, uccide Neli, l’amante che non vuole sposarla, e viene per questo fucilato.

L’altro peso che aggrava il romanzo sono i molti discorsi privi di naturalezza e spontaneità, e troppo didascalici. Sono certo pieni di senno e ricchi di buone idee, però molto artificiosi. Il colonnello brigadiere che nomina fra’ Carmelo cappellano del suo scalcagnato battaglione fa un pacato ed ecumenico discorso in cui si sente l’eco delle parole di Federigo Borromeo a don Abbondio. E le ispirate prediche di fra’ Carmelo sono innumerevoli: magari sono belle prediche, qualcuna è più che mai attuale (“Questo secolo ha peccato contro lo Spirito Santo e non v’è perdono per lui. V’è un solo Dio e voi vi fate idoli il denaro, la lussuria, la Potenza, la violenza...”), però  la qualità artistica del romanzo ne soffre. E’ un peccato, perché Alianello, oltre che un robusto pensatore, sa dominare le situazioni e le scene e sa far muovere bene i personaggi (bello e divertente lo scontro in una osteria napoletana di Pino e la sua amante Ginevra con i camorristi) e può inoltre creare molte belle e delicate immagini liriche.

Di notte, al fiume. “Ma d’acqua non ce n’era che un filo, un filo stento e così sottile da parer spiccato dal gomitolo bianco della luna”.

 

 

 

 

 

 



 

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