giovedì 10 luglio 2025

Anton Čechov (1860-1904). Una storia noiosa. (Tutti i racconti, VII). Biblioteca universale Rizzoli, 1975

  Il volume contiene undici racconti, fra cui spiccano per intensità e lunghezza ‘Una storia noiosa’ e ‘Mia moglie’. Non voglio ripetere osservazioni generali già fatte commentando altre novelle di Čechov; però non posso fare a meno di esprimere ancora una volta il senso di piacere che dà questa prosa  fresca e chiara come acqua di sorgente, e il sentimento di meraviglia per la naturalezza con cui Čechov riesce a mostrare l’animo dei suoi personaggi. C’è un’altra grande qualità che rende i suoi racconti cari al cuore del lettore: la descrizione dettagliata ma mai noiosa della vita quotidiana di ricchi e poveri, studenti e principesse, proprietari e contadini. La nostra conoscenza e, direi, il nostro nostalgico amore per la Russia ottocentesca devono molto ai paesaggi e ai villaggi, alle case e alle ville, alle strade e alle osterie, agli arredamenti e agli abiti, ai riti domestici e ai pranzi descritti da Čechov. In questa raccolta, a parte la qualità artistica delle novelle, mi ha colpito, per giustezza e attualità, il giudizio che, nella sua introduzione, Alfredo Polledro, il traduttore, dà su un personaggio del racconto intitolato ‘Fra i deportati’: il vecchio Semiòn, sulla sessantina, scarno e sdentato, largo di spalle e all’aspetto ancora sano. Con lui c’è un ragazzo tartaro di venticinque anni. Il vecchio Semiòn, sempre ubriaco, è tranquillo e sereno; il giovane tartaro è pallido e triste e soffre di nostalgia per la sua casa, dove ha lasciato la moglie diciassettenne, bella, timida e intelligente. Semiòn conforta il ragazzo tartaro: “Io, fratellino, non sono un semplice muzìk, non sono di condizione servile, ma figlio di un sagrestano e, quando vivevo libero a Kursk, me ne andavo in giubba, ma ora mi son ridotto al punto che posso dormire nudo e mangiare l’erba. E che Dio conceda a tutti una simile vita. Non ho bisogno di nulla e non temo nessuno, e così la penso sul mio conto, che non c’è uomo più ricco e più libero di me. Come mi mandarono qui dalla Russia, io fin dal primo giorno m’impuntai: ‘Non voglio nulla!’. Il diavolo mi tentava riguardo alla moglie e ai parenti e alla libertà, e io a lui: ‘Non ho bisogno di nulla!’. M’impuntai, ed ecco, come vedi, vivo bene e non mi lamento. Che se uno è indulgente col diavolo e gli dà retta anche solo una volta, quello è perduto, e per lui non c’è salvezza: affonderà nel pantano fino al cocuzzolo e non ne verrà più fuori...”. Ma il giovane tartaro non si rassegna: soffre e continua a sognare la moglie. Si accontenterebbe di averla con sé per  un mese e perfino per un solo giorno. Alla fine, esasperato dalla solitudine e dalla nostalgia, affronta il vecchio Semiòn: “....tu sei morto... Dio creò l’uomo perché fosse vivo, perché ci fosse anche la gioia, e ci fosse l’angoscia, e ci fosse il dolore e tu non vuoi nulla, dunque tu non sei vivo, ma sei una pietra, sei solo argilla! Alla pietra nulla occorre, e anche a te nulla... Tu sei una pietra e Dio non ti ama...”. Ma il vecchio Semiòn non si turba per queste parole. Si addormenta nell’isba, sulla paglia, con la porta aperta mentre fuori nevica. “E io sto bene!” dice Semiòn addormentandosi, “Che Dio conceda a tutti una simile vita”. Si sente il pianto del giovane tartaro. “Si abituerà!”, dice Semiòn, e subito si addormenta. Alfredo Polledro, pur riconoscendo la superiore umanità e spiritualità del tartaro di fronte al rozzo Semiòn, temprato a ogni più dura privazione e indifferente a tutto, riconosce tuttavia che la capacità di sopportazione del vecchio galeotto “ha pure una sua grandezza morale che ci impressiona e che ci fa meditare sulle enormi possibilità latenti dell’anima russa”.
Sì, è grazie alla sua immensa capacità di soffrire che il popolo russo ha vinto a Stalingrado e ha sbaragliato la Germania nazista. Il popolo statunitense, nelle condizioni dei russi, si sarebbe disgregato come una costruzione artificiale. Vedremo ora come si concluderà la guerra che gli Stati Uniti stanno facendo contro la Russia per interposta nazione.                                                          
 

mercoledì 21 maggio 2025

Albert Soboul (1914-1982). La Rivoluzione francese. Laterza, 1964



 

Il libro di Soboul, benché mi abbia richiesto un mese di applicazione, si può liquidare brevemente: è un manuale noiosissimo che sarebbe stato più utile se avesse avuto solo la metà o un terzo delle sue 654 pagine. Soboul ha un punto di vista giacobino e sanculotto che io ora non intendo discutere. L’ho fatto, da dilettante, commentando in passato altri libri sullo stesso argomento, e lo farò ancora. Ora mi preme dare un giudizio sulla scrittura di questo storico, che è essenzialmente amministrativa e notarile come una gazzetta ufficiale, ed è sorprendentemente astratta. Pur parlando di fatti e di persone straordinarie e sommamente teatrali, Soboul quasi sempre si limita a enunciazioni di nomi, di luoghi e di date. La sua non è una storia di persone vere (sulla Vandea, per esempio, scrive sì e no una paginetta), ma di ceti, di classi e di concetti. Ed è solo così, parlando genericamente di concetti, di classi e di ceti, e ignorando la concretezza e il sangue della realtà, che egli può affermare più facilmente il valore del suo punto di vista.

 


venerdì 16 maggio 2025

LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI LIBRI

Non è difficile parlare di libri: tutti possono farlo, ma per interpretare un'opera letteraria occorre una cultura che sia anche vita morale. Altrimenti si dà ragione a Vauvenargues, che in un suo pensiero dice: "Quelli che si fan beffe della serietà d'animo amano poi seriamente le quisquilie".
 

Vincenzo Cuoco (1770-1823). Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799


Le acute osservazioni di Vincenzo Cuoco sul fallimento della rivoluzione napoletana del 1799, ispirata e sorretta dai francesi contro la volontà popolare, hanno un valore così universale e, se possibile, eterno, che dovrebbero essere esposte nelle sedi dei governi e imparate a memoria da tutti i professionisti della politica.

“…Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto essere popolari ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da’ sensi; e quel che è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutti i capricci e talora tutti i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, dai nostri capricci, dagli usi nostri… La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute dei patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse… Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà… Non può mai esser libero quel popolo, in cui la parte che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia con l’autorità, sia con gli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera…”.

Purtroppo questi ammonimenti, basati su concetti così chiari ed elementari,  sono rimasti parole al vento. Per metterli in pratica bisognerebbe avere coraggio, modestia e generoso disinteresse personale. Qualità, queste, che molto di rado si sono viste unite insieme sia fra gli intellettuali che fra i politici, e che oggi sembrano quasi scomparse.



venerdì 25 aprile 2025

Gustave Flaubert (1821-1880). Madame Bovary. Fabbri editori, 1985

Sia Balzac che Flaubert hanno descritto una società non molto diversa da quella in cui viviamo oggi; il mondo attuale, infatti, è la continuazione e lo sviluppo, senza salti, del mondo descritto da loro. Il romanzo di Flaubert, però, mi sembra che offra qualcosa di più di una rappresentazione efficace della società di quel tempo, perché la descrive dall’interno e ci rivela, oltre alle sue dinamiche di lunga durata, anche i suoi stati d’animo. Il farmacista Homais è un figlio della Rivoluzione, proprio come noi oggi ci vantiamo ancora di essere; Homais è un sostenitore meschino e retorico della libertà, del progresso e della salute pubblica, ed ha le stesse caratteristiche e, credo, la stessa personalità di quella schiera di medici e scienziati che, durante la recente pandemia di Covid, hanno sostenuto in modo fanatico, contro ogni evidenza, la bontà delle vaccinazioni e la necessità di limitare la libertà. Homais ha una cultura che non va molto oltre la lettura del giornale, che è la sua bibbia, come è la bibbia, nel nostro tempo, dei cosiddetti ceti medi riflessivi. Homais la sera sa il giornale quasi a memoria e racconta le notizie che ha letto a tutte le persone che incontra. Sotto un aspetto di bonaria socievolezza, il farmacista è estremamente vanitoso, vile, disonesto e crudele. Propone all’incompetente Bovary di operare il piede equino di Hippolyte, provocando – seppur indirettamente – l’amputazione della gamba, non perché abbia affetto per il ragazzo e interesse per la sua salute, ma solo per fare pubblicità a se stesso e al proprio paese. Homais non compie mai un atto sincero, spontaneo, naturale. In questo assomiglia a Emma Bovary, ed è un co-protagonista del romanzo. Flaubert non lo perde mai di vista e ogni volta che accenna a lui, fa risaltare la sua insopportabile e vuota presunzione. Ciononostante, questo personaggio servile e protetto dalle autorità è, nel mondo di menzogne descritto da Flaubert, l’eroe che trionfa, e il romanzo si chiude con la notizia che lui, ormai, dopo essere riuscito a far fallire tutti i successori di Bovary,  esercita (abusivamente) l’attività di medico per una vastissima clientela, e che “gli è stata appena conferita la Legion d’Onore”. Anche Emma Bovary non ha mai un pensiero o un gesto che siano espressione spontanea della sua natura. In lei gesti e pensieri sono sempre imitazioni dei modelli suggeriti dalla letteratura. In questo senso tutto esteriore, Madame Bovary potrebbe essere paragonata a don Chisciotte. Però all’hidalgo della Mancia i romanzi cavallereschi hanno ispirato sentimenti elevati e lo hanno fatto sentire, come lui dice di sé,  “valoroso, cortese, liberale, gentile, generoso, splendido, audace”, ecc. Don Chisciotte, magnanimo qual è, afferma che bisogna essere assertori della verità anche a prezzo della vita. E’ inspiegabile, perciò, che Erich Auerbach, nei suoi saggi sul realismo,  minimizzi la sua follia privandola di ogni significato simbolico, e attribuisca al cavaliere dalla triste figura una “saggezza normale e per così dire media… di un uomo prudente ed equilibrato”. Dare la vita per difendere la verità è un gesto folle (ma è una fortuna che a volte ci siano persone dotate del coraggio di farlo), che va ben oltre la portata di un uomo prudente ed equilibrato. Su Emma Bovary, invece, i romanzi hanno una influenza molto diversa: alla stessa stregua dell’odierna pubblicità martellante e onnipervasiva e di tutto il vasto insieme di miti fantastici creati da cinema e televisione, i romanzi offrono ad Emma Bovary  modelli di comportamento, pensieri preconfezionati, aspirazioni stereotipate, che lei assorbe avidamente e che, costituendo tutta la sua vita spirituale, finiscono per allontanarla dalla realtà. Al giovane Léon, appena conosciuto, confida: “Detesto i personaggi comuni e i sentimenti moderati, come quelli che si incontrano nella realtà”. Quando le nasce una bambina, sviene per la delusione. Desiderava un figlio maschio, che sarebbe stato “quasi una rivincita potenziale di tutti i suoi fallimenti”. Qualche lettore vede in questa aspettativa di Emma una iniziale consapevolezza femminista, ma a me sembra che anche qui lei dimostri la sua personalità artificiosa, vagheggiando, in un figlio maschio, una figura di uomo libero e avventuroso, che possa diventare un protagonista nel mondo immaginario in cui lei vive. Anche per la scelta del nome da dare alla bambina, Emma si comporta nel modo più banale: sceglie il nome ‘Berthe’ non perché le piaccia, ma solo per averlo sentito pronunciare dalla marchesa al castello della Vaubyessard (invitata occasionalmente al castello, anche lo zucchero le era sembrato più fine e più bianco di come era abituata a vederlo). Alla figlia non si affezionerà mai, la trascura e anzi, guardandola, pensa: “E’ strano come sia brutta questa bambina”. Fallisce come madre, dopo aver fallito come moglie: prova ripugnanza e odio per il marito, troppo mediocre, goffo e modesto per le sue aspirazioni; lei sogna di ascoltare il suono delle arpe sui laghi, il canto dei cigni, il cadere delle foglie al chiar di luna, e nello stesso tempo aspira a una vita tumultuosa, piena di balli mascherati e di piaceri sfacciati. La sua vita banale, con i vicini noiosi e stupidi, non le sembra la vita vera ma un’eccezione, una situazione anormale in cui lei si trova presa per puro caso, mentre, oltre i confini della sua piccola esistenza, si stende a perdita d’occhio lo sterminato paese della felicità e delle passioni. Le giornate di Emma scorrono uguali come le onde del mare, e non accade mai niente di nuovo; lei si annoia e soffre orribilmente. “Come i marinai in pericolo, volgeva sguardi disperati sulla solitudine della sua vita, cercando di scorgere una vela bianca lontana fra le brume dell’orizzonte”. Emma smette di disegnare e di suonare il piano. Vorrebbe imparare l’italiano, prova a leggere libri di storia e di filosofia, ma si arrende subito. Non ha vere passioni né risorse intellettuali. Il suo primo contatto col mondo arcano dell’aristocrazia avviene in un modo volgare al quale il sarcasmo di Flaubert attribuisce il valore di un battesimo. “All’età di tredici anni, suo padre la condusse con sé in città per metterla in collegio. Scesero in un albergo e mangiarono in piatti dipinti che illustravano la storia di madamigella La Vallière. Le leggende esplicative, tagliate qua e là dai graffi dei coltelli, glorificavano tutte la religione, le gioie dello spirito, e i fasti della corte”. Ad Emma non rimane, dunque, che l’adulterio per illudersi di realizzare i suoi sogni romantici. Dopo aver ceduto a Rodolphe, “andava ripetendosi: ‘Ho un amante! Ho un amante!’ e questa idea la deliziava come se le avessero promesso una seconda adolescenza. Finalmente avrebbe posseduto quelle famose gioie che dà l’amore, quella febbre di felicità che non sperava più di provare. Stava per entrare in quel mondo meraviglioso ove tutto è passione, estasi, delizia; un roseo universo   la circondava, i più alti sentimenti splendevano sfiorati dal suo pensiero, l’esistenza di ogni giorno era confinata lontano, laggiù in fondo, nell’ombra”. Negli amori extra-coniugali Emma è generosa, purché, però, questi amori corrispondano ai suoi sogni e si mantengano al loro stesso livello; ma i suoi sogni sono artificiosi e, di conseguenza, vuoti e irrealizzabili, e si concludono sempre con una delusione amarissima. Il primo sogno che viene infranto (Rodolphe scappa dopo averle promesso di fuggire insieme) provoca un dolore autentico e profondo che, però, invece di guarire Emma dal suo romanticismo malato, la mantiene nelle stesse illusioni della giovinezza. A teatro, a Rouen, per ascoltare, assieme al marito, l’opera ‘Lucia di Lammermoor’, sogna addirittura di diventare l’amante del tenore. “Si sentì presa da una follia: Lagardy la guardava ne era sicura! Sentì il desiderio di buttarglisi fra le braccia, per rifugiarsi nella sua forza come nell’incarnazione stessa dell’amore, e di dirgli in un grido: ‘Rapiscimi! Portami con te! Fuggiamo! A te, a te tutti i miei ardori, tutti i miei sogni!”. Dopo la fuga di Rodolphe, Emma ha un nuovo amore con Léon, ritrovato per caso a Rouen; poi c’è la catastrofe economica e infine il suicidio. Negli ultimi giorni di vita, Emma, crollati tutti i sogni e le speranze, acquista una autenticità che prima non aveva: il suo sdegno e il suo disprezzo sono veri, sentiti, ispirati da una nuova fierezza. Al notaio Guillaumin che con il suo sorriso dolciastro e ambiguo  le chiede amore in cambio del pagamento del suo debito, risponde: “Mi si può compiangere, ma non sono in vendita!”. La signora Bovary ha tanti difetti, ma non è vile e non lo è mai stata. Questo spiega perché Homais trionfa e lei, invece, soccombe. Flaubert segue Emma passo passo, come un medico il suo paziente, e descrive i suoi stati d’animo con la precisione di una cartella clinica. Il romanzo, nel complesso, ha la perfezione di un manuale che illustri in modo sarcastico le ‘delizie’ della vita moderna. Charles Bovary, dopo il suicidio della moglie amatissima, prova un immenso dolore che lo rende degno di rispetto. Oltre a lui, ci sono soltanto due altri personaggi, due fuggevoli comparse, la vecchia contadina Leroux e il dottor Larivière, che Flaubert descriva, con commozione la prima, e con ammirazione il secondo. Catherine Leroux viene premiata alle Assemblee Agricole per i suoi cinquantaquattro anni di servizio nella stessa fattoria. Flaubert ne fa questo sublime ritratto, di cui dovette certo ricordarsi raccontando, venti anni dopo, la storia di Félicité in “Un coeur simple”. “Si vide avanzare sulla pedana  una vecchietta dall’aria spaurita che sembrava cercare di rimpicciolirsi nelle povere vesti. Calzava grossi scarponi dalla suola di legno, e metà della sua figura era nascosta da un grembiulone di legno. Il viso magro, circondato dalla cuffia priva di ala, era più segnato dalle rughe di una mela renetta avvizzita, e dalle maniche della camicetta rossa uscivano le mani lunghe con articolazioni nodose. La polvere dei granai, la soda dei bucati, il grasso della lana le avevano talmente incrostate, logorate, indurite, da farle sembrare sporche anche dopo essere state lavate e rilavate; rimanevano abbandonate, quelle mani, quasi in un gesto di rassegnazione, come se, dopo aver sempre servito gli altri, volessero essere esse stesse l’umile testimonianza di tutte le sofferenze sopportate”, ecc. Il dottor Larivière è un celebre medico chiamato al capezzale di Emma morente. “Questi apparteneva alla grande scuola chirurgica uscita di sotto il camice di Bichat, a quella generazione ormai scomparsa di professionisti filosofi che, venerando la propria arte con un amore fanatico, l’esercitavano con passione e sagacia… Il dottore era tanto stimato dagli allievi, che essi si sforzavano di imitarlo il più possibile… Larivière disdegnava croci, titoli e accademie, era ospitale, liberale e paterno con i poveri, praticava la virtù senza credervi… Lo sguardo di lui, più tagliente del suo bisturi, scendeva in fondo all’anima e scardinava ogni menzogna”, ecc. Con l’incondizionata simpatia espressa per due persone così diverse, e soltanto per queste due, Flaubert dà ragione a Pasolini, che diceva di amare solo le persone semplici che avevano frequentato al massimo la terza elementare e le persone di grande levatura per intelletto e preparazione, e dà ragione alla discreta schiera di moralisti che aborriscono la mezza cultura, confusa e pretensiosa, come quella dello speziale Homais. Flaubert ha capito fra i primi che il dominio della borghesia (oggi diremmo delle banche e delle multinazionali) crea negli uomini una falsa coscienza, indotta e artificiosa, che è causa di infelicità. Quanto questo fenomeno sia oggi diventato universale, è un tema vasto a cui posso solo alludere. Per dare un’idea della carica polemica e profetica di Flaubert, cito da una sua lettera: “L’istruzione gratuita e obbligatoria non farà altro che aumentare il numero degli imbecilli”. La profezia sta in questo: oggi che le università sono forse raddoppiate di numero rispetto a 50 anni fa, l’incultura e il conformismo dilagano. Benché le idee di Flaubert  possano sembrare paradossali, in fondo ad esse brilla una luce di verità. Del resto, come scrisse in una lettera, “l’arte non è altro che una giustizia superiore”.

 

domenica 13 aprile 2025

Denis Mack Smith (1920 - 2017). Vittorio Emanuele II. Laterza, 1975

Sulle vicende del Risorgimento la macchina della propaganda aveva cominciato ad alterare la verità e a costruire un’aura di eroismo attorno ai suoi protagonisti quando gli avvenimenti erano ancora in corso. Ma dopo l’occupazione di Roma, nel 1870, e soprattutto dopo la morte di Vittorio Emanuele II, nel 1878, in un parossismo di retorica, si arrivò a descrivere il Risorgimento addirittura come “il fatto politico europeo più importante del XIX secolo”, e il re defunto come la sua guida suprema e infallibile, il più grande e glorioso sovrano dell’Europa cristiana. Gli storici ufficiali hanno voluto far credere che fossero autentiche la capacità militare e la finezza politica che il re millantava, ma coloro che lo conobbero bene, specialmente taluni stranieri che potevano parlare senza timore, lo definirono un carattere debole e pigro, un egoista preoccupato solo di sé, grossolano, mediocre e sleale. Il marchese toscano Pompeo Provenzali (1812-1900), che frequentò la corte di Torino, lo descrisse in modo lapidario: “uomo mediocrissimo, sovrano nullo”. Denis Mack Smith, senza sarcasmo e con pacata obiettività, documenta con fatti ed episodi concreti queste gravi colpe del re, facendo l’esatto contrario di quello che aveva fatto Benedetto Croce nella sua famosa ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’. Il filosofo abruzzese, non contento di aver descritto la personalità del re con tanta compiacenza da farlo assomigliare a Tartarino di Tarascona, aggiunse con stupefacente disinvoltura il ricordo di un episodio dalle implicazioni gravissime. Nel 1873 Vittorio Emanuele fece un viaggio a Berlino, “dove, appena giunto, non lasciò di dichiarare all’imperatore Guglielmo che egli, nel ’70, era stato sul punto di sfoderare la spada contro di lui, se non glielo avessero impedito i suoi ministri: dichiarazione di un cavalleresco sovrano a un altro che aveva animo pari”. Le cose non si erano svolte esattamente come disse Vittorio Emanuele, però è vero che il re d’Italia si era cullato per molti mesi nel proposito di combattere contro la Prussia di Bismarck a fianco di Napoleone III. Se quel proposito velleitario e irresponsabile si fosse realizzato, non è difficile immaginare la brutta fine che avrebbero fatto i Savoia e l’Italia. Croce invece parla di spirito cavalleresco! Aveva ragione Salvemini di considerare il libro di Croce non un libro di storia ma un libro di favole. Lo studio dell’azione di Vittorio Emanuele e del suo tempo non è fine a se stesso, ma serve a capire gli sviluppi successivi della nostra storia. Al tempo del re piemontese, nella società italiana esistevano già le condizioni fondamentali per la nascita dell’Italietta umbertina, giolittiana, fascista, democristiana, di sinistra, pentastellata e di centro-destra. Molte situazioni di quel tempo sembrano preannunciare episodi analoghi che si verificheranno nei decenni successivi e che avranno un esito spesso catastrofico e un impatto profondo sempre negativo. La guerra del 1866, per esempio, fu voluta a tutti i costi, anche se l’Austria, in guerra con la Prussia, era disposta a cedere il Veneto pacificamente, in cambio della nostra neutralità. Ma “ci si pasceva di illusioni invece che di fatti”. Si sosteneva che “l’esercito era formidabile, che la marina aveva una superiorità inconfutabile e che avevamo tre generali che l’Europa ci poteva invidiare”. Con entusiasmo bellicoso, sicuri della vittoria, si proclamava che “non valeva la pena di prendere Venezia senza combattere”. Come si sa, andò molto male (anche se si ebbe il Veneto in regalo da Napoleone III) perché in realtà “l’esercito era irrimediabilmente debole, impreparato e male equipaggiato”. I non molti generali che conoscevano questa situazione, invece di renderla pubblica e di dissuadere il re dall’entrare in guerra, non parlarono per non rovinare la propria carriera. Il comando supremo era poco esperto e poco competente, male addestrato e dilaniato da gelosie e contrasti intestini. L’ammiraglio Persano, sconfitto ignominiosamente nella battaglia di Lissa, nel 1862 fu ministro della marina per otto mesi. Nel dicembre dovette lasciare la carica per la caduta del governo, ma nelle poche ore che gli restavano prima che le sue dimissioni fossero accolte, promosse se stesso da vice-ammiraglio ad ammiraglio. Sono azioni come questa che hanno formato la lunga tradizione militare e amministrativa a cui noi oggi siamo ormai assuefatti, anche se non tutti rassegnati. La voglia di guerreggiare e lo spirito assolutistico di Casa Savoia non vennero mai meno per tutto il regno di Vittorio Emanuele. Questi trasmise al figlio e al nipote un residuo di potere che permise loro d’intervenire con autorità nei momenti cruciali, e che essi esercitarono, non sempre utilmente, a sostegno di Crispi, Salandra, Mussolini e Badoglio. Sono giudizi pacati, questi, del fin troppo pacato Denis Mack Smith, che, comunque, molto lucidamente così conclude: “La sua [di Vittorio Emanuele] passione per la guerra, la sua incompetenza come comandante militare, la sua segreta e irresponsabile ostilità verso i suoi presidenti del consiglio, per non parlare di quella che Sir James Hudson chiamava la sua ‘predilezione per i furfanti’, furono tutti aspetti negativi del suo regno”.