Il volume contiene undici racconti, fra cui
spiccano per intensità e lunghezza ‘Una storia noiosa’ e ‘Mia moglie’. Non
voglio ripetere osservazioni generali già fatte commentando altre novelle di Čechov;
però non posso fare a meno di esprimere ancora una volta il senso di piacere che dà questa prosa fresca e chiara come acqua
di sorgente, e il sentimento di meraviglia per la naturalezza con cui Čechov riesce a
mostrare l’animo dei suoi personaggi. C’è un’altra grande qualità che rende i
suoi racconti cari al cuore del lettore: la descrizione dettagliata ma mai
noiosa della vita quotidiana di ricchi e poveri, studenti e principesse, proprietari
e contadini. La nostra conoscenza e, direi, il nostro nostalgico amore per la
Russia ottocentesca devono molto ai paesaggi e ai villaggi, alle case e alle ville,
alle strade e alle osterie, agli arredamenti e agli abiti, ai riti domestici e
ai pranzi descritti da Čechov. In questa raccolta, a parte la qualità artistica
delle novelle, mi ha colpito, per giustezza e attualità, il giudizio che, nella
sua introduzione, Alfredo Polledro, il traduttore, dà su un personaggio del
racconto intitolato ‘Fra i deportati’: il vecchio Semiòn, sulla sessantina, scarno e
sdentato, largo di spalle e all’aspetto ancora sano. Con lui c’è un ragazzo tartaro
di venticinque anni. Il vecchio Semiòn, sempre ubriaco, è tranquillo e sereno;
il giovane tartaro è pallido e triste e soffre di nostalgia per la sua casa,
dove ha lasciato la moglie diciassettenne, bella, timida e intelligente. Semiòn
conforta il ragazzo tartaro: “Io, fratellino, non sono un semplice muzìk, non
sono di condizione servile, ma figlio di un sagrestano e, quando vivevo libero
a Kursk, me ne andavo in giubba, ma ora mi son ridotto al punto che posso
dormire nudo e mangiare l’erba. E che Dio conceda a tutti una simile vita. Non
ho bisogno di nulla e non temo nessuno, e così la penso sul mio conto, che non
c’è uomo più ricco e più libero di me. Come mi mandarono qui dalla Russia, io
fin dal primo giorno m’impuntai: ‘Non voglio nulla!’. Il diavolo mi tentava
riguardo alla moglie e ai parenti e alla libertà, e io a lui: ‘Non ho bisogno
di nulla!’. M’impuntai, ed ecco, come vedi, vivo bene e non mi lamento. Che se
uno è indulgente col diavolo e gli dà retta anche solo una volta, quello è
perduto, e per lui non c’è salvezza: affonderà nel pantano fino al cocuzzolo e
non ne verrà più fuori...”. Ma il giovane tartaro non si rassegna: soffre e continua
a sognare la moglie. Si accontenterebbe di averla con sé per un mese e perfino per un solo giorno. Alla
fine, esasperato dalla solitudine e dalla nostalgia, affronta il vecchio
Semiòn: “....tu sei morto... Dio creò l’uomo perché fosse vivo, perché ci fosse
anche la gioia, e ci fosse l’angoscia, e ci fosse il dolore e tu non vuoi nulla,
dunque tu non sei vivo, ma sei una pietra, sei solo argilla! Alla pietra nulla
occorre, e anche a te nulla... Tu sei una pietra e Dio non ti ama...”. Ma il
vecchio Semiòn non si turba per queste parole. Si addormenta nell’isba, sulla
paglia, con la porta aperta mentre fuori nevica. “E io sto bene!” dice Semiòn
addormentandosi, “Che Dio conceda a tutti una simile vita”. Si sente il pianto
del giovane tartaro. “Si abituerà!”, dice Semiòn, e subito si addormenta.
Alfredo Polledro, pur riconoscendo la superiore umanità e spiritualità del
tartaro di fronte al rozzo Semiòn, temprato a ogni più dura privazione e
indifferente a tutto, riconosce tuttavia che la capacità di sopportazione del
vecchio galeotto “ha pure una sua grandezza morale che ci impressiona e che ci
fa meditare sulle enormi possibilità latenti dell’anima russa”.
Sì, è grazie alla sua immensa capacità di
soffrire che il popolo russo ha vinto a Stalingrado e ha sbaragliato la Germania nazista. Il popolo statunitense, nelle condizioni dei russi, si sarebbe disgregato come una costruzione artificiale. Vedremo ora come si concluderà la guerra che gli Stati Uniti stanno facendo contro la Russia per interposta nazione.
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