venerdì 25 aprile 2025

Gustave Flaubert (1821-1880). Madame Bovary. Fabbri editori, 1985

Sia Balzac che Flaubert hanno descritto una società non molto diversa da quella in cui viviamo oggi; il mondo attuale, infatti, è la continuazione e lo sviluppo, senza salti, del mondo descritto da loro. Il romanzo di Flaubert, però, mi sembra che offra qualcosa di più di una rappresentazione efficace della società di quel tempo, perché la descrive dall’interno e ci rivela, oltre alle sue dinamiche di lunga durata, anche i suoi stati d’animo. Il farmacista Homais è un figlio della Rivoluzione, proprio come noi oggi ci vantiamo ancora di essere; Homais è un sostenitore meschino e retorico della libertà, del progresso e della salute pubblica, ed ha le stesse caratteristiche e, credo, la stessa personalità di quella schiera di medici e scienziati che, durante la recente pandemia di Covid, hanno sostenuto in modo fanatico, contro ogni evidenza, la bontà delle vaccinazioni e la necessità di limitare la libertà. Homais ha una cultura che non va molto oltre la lettura del giornale, che è la sua bibbia, come è la bibbia, nel nostro tempo, dei cosiddetti ceti medi riflessivi. Homais la sera sa il giornale quasi a memoria e racconta le notizie che ha letto a tutte le persone che incontra. Sotto un aspetto di bonaria socievolezza, il farmacista è estremamente vanitoso, vile, disonesto e crudele. Propone all’incompetente Bovary di operare il piede equino di Hippolyte, provocando – seppur indirettamente – l’amputazione della gamba, non perché abbia affetto per il ragazzo e interesse per la sua salute, ma solo per fare pubblicità a se stesso e al proprio paese. Homais non compie mai un atto sincero, spontaneo, naturale. In questo assomiglia a Emma Bovary, ed è un co-protagonista del romanzo. Flaubert non lo perde mai di vista e ogni volta che accenna a lui, fa risaltare la sua insopportabile e vuota presunzione. Ciononostante, questo personaggio servile e protetto dalle autorità è, nel mondo di menzogne descritto da Flaubert, l’eroe che trionfa, e il romanzo si chiude con la notizia che lui, ormai, dopo essere riuscito a far fallire tutti i successori di Bovary,  esercita (abusivamente) l’attività di medico per una vastissima clientela, e che “gli è stata appena conferita la Legion d’Onore”. Anche Emma Bovary non ha mai un pensiero o un gesto che siano espressione spontanea della sua natura. In lei gesti e pensieri sono sempre imitazioni dei modelli suggeriti dalla letteratura. In questo senso tutto esteriore, Madame Bovary potrebbe essere paragonata a don Chisciotte. Però all’hidalgo della Mancia i romanzi cavallereschi hanno ispirato sentimenti elevati e lo hanno fatto sentire, come lui dice di sé,  “valoroso, cortese, liberale, gentile, generoso, splendido, audace”, ecc. Don Chisciotte, magnanimo qual è, afferma che bisogna essere assertori della verità anche a prezzo della vita. E’ inspiegabile, perciò, che Erich Auerbach, nei suoi saggi sul realismo,  minimizzi la sua follia privandola di ogni significato simbolico, e attribuisca al cavaliere dalla triste figura una “saggezza normale e per così dire media… di un uomo prudente ed equilibrato”. Dare la vita per difendere la verità è un gesto folle (ma è una fortuna che a volte ci siano persone dotate del coraggio di farlo), che va ben oltre la portata di un uomo prudente ed equilibrato. Su Emma Bovary, invece, i romanzi hanno una influenza molto diversa: alla stessa stregua dell’odierna pubblicità martellante e onnipervasiva e di tutto il vasto insieme di miti fantastici creati da cinema e televisione, i romanzi offrono ad Emma Bovary  modelli di comportamento, pensieri preconfezionati, aspirazioni stereotipate, che lei assorbe avidamente e che, costituendo tutta la sua vita spirituale, finiscono per allontanarla dalla realtà. Al giovane Léon, appena conosciuto, confida: “Detesto i personaggi comuni e i sentimenti moderati, come quelli che si incontrano nella realtà”. Quando le nasce una bambina, sviene per la delusione. Desiderava un figlio maschio, che sarebbe stato “quasi una rivincita potenziale di tutti i suoi fallimenti”. Qualche lettore vede in questa aspettativa di Emma una iniziale consapevolezza femminista, ma a me sembra che anche qui lei dimostri la sua personalità artificiosa, vagheggiando, in un figlio maschio, una figura di uomo libero e avventuroso, che possa diventare un protagonista nel mondo immaginario in cui lei vive. Anche per la scelta del nome da dare alla bambina, Emma si comporta nel modo più banale: sceglie il nome ‘Berthe’ non perché le piaccia, ma solo per averlo sentito pronunciare dalla marchesa al castello della Vaubyessard (invitata occasionalmente al castello, anche lo zucchero le era sembrato più fine e più bianco di come era abituata a vederlo). Alla figlia non si affezionerà mai, la trascura e anzi, guardandola, pensa: “E’ strano come sia brutta questa bambina”. Fallisce come madre, dopo aver fallito come moglie: prova ripugnanza e odio per il marito, troppo mediocre, goffo e modesto per le sue aspirazioni; lei sogna di ascoltare il suono delle arpe sui laghi, il canto dei cigni, il cadere delle foglie al chiar di luna, e nello stesso tempo aspira a una vita tumultuosa, piena di balli mascherati e di piaceri sfacciati. La sua vita banale, con i vicini noiosi e stupidi, non le sembra la vita vera ma un’eccezione, una situazione anormale in cui lei si trova presa per puro caso, mentre, oltre i confini della sua piccola esistenza, si stende a perdita d’occhio lo sterminato paese della felicità e delle passioni. Le giornate di Emma scorrono uguali come le onde del mare, e non accade mai niente di nuovo; lei si annoia e soffre orribilmente. “Come i marinai in pericolo, volgeva sguardi disperati sulla solitudine della sua vita, cercando di scorgere una vela bianca lontana fra le brume dell’orizzonte”. Emma smette di disegnare e di suonare il piano. Vorrebbe imparare l’italiano, prova a leggere libri di storia e di filosofia, ma si arrende subito. Non ha vere passioni né risorse intellettuali. Il suo primo contatto col mondo arcano dell’aristocrazia avviene in un modo volgare al quale il sarcasmo di Flaubert attribuisce il valore di un battesimo. “All’età di tredici anni, suo padre la condusse con sé in città per metterla in collegio. Scesero in un albergo e mangiarono in piatti dipinti che illustravano la storia di madamigella La Vallière. Le leggende esplicative, tagliate qua e là dai graffi dei coltelli, glorificavano tutte la religione, le gioie dello spirito, e i fasti della corte”. Ad Emma non rimane, dunque, che l’adulterio per illudersi di realizzare i suoi sogni romantici. Dopo aver ceduto a Rodolphe, “andava ripetendosi: ‘Ho un amante! Ho un amante!’ e questa idea la deliziava come se le avessero promesso una seconda adolescenza. Finalmente avrebbe posseduto quelle famose gioie che dà l’amore, quella febbre di felicità che non sperava più di provare. Stava per entrare in quel mondo meraviglioso ove tutto è passione, estasi, delizia; un roseo universo   la circondava, i più alti sentimenti splendevano sfiorati dal suo pensiero, l’esistenza di ogni giorno era confinata lontano, laggiù in fondo, nell’ombra”. Negli amori extra-coniugali Emma è generosa, purché, però, questi amori corrispondano ai suoi sogni e si mantengano al loro stesso livello; ma i suoi sogni sono artificiosi e, di conseguenza, vuoti e irrealizzabili, e si concludono sempre con una delusione amarissima. Il primo sogno che viene infranto (Rodolphe scappa dopo averle promesso di fuggire insieme) provoca un dolore autentico e profondo che, però, invece di guarire Emma dal suo romanticismo malato, la mantiene nelle stesse illusioni della giovinezza. A teatro, a Rouen, per ascoltare, assieme al marito, l’opera ‘Lucia di Lammermoor’, sogna addirittura di diventare l’amante del tenore. “Si sentì presa da una follia: Lagardy la guardava ne era sicura! Sentì il desiderio di buttarglisi fra le braccia, per rifugiarsi nella sua forza come nell’incarnazione stessa dell’amore, e di dirgli in un grido: ‘Rapiscimi! Portami con te! Fuggiamo! A te, a te tutti i miei ardori, tutti i miei sogni!”. Dopo la fuga di Rodolphe, Emma ha un nuovo amore con Léon, ritrovato per caso a Rouen; poi c’è la catastrofe economica e infine il suicidio. Negli ultimi giorni di vita, Emma, crollati tutti i sogni e le speranze, acquista una autenticità che prima non aveva: il suo sdegno e il suo disprezzo sono veri, sentiti, ispirati da una nuova fierezza. Al notaio Guillaumin che con il suo sorriso dolciastro e ambiguo  le chiede amore in cambio del pagamento del suo debito, risponde: “Mi si può compiangere, ma non sono in vendita!”. La signora Bovary ha tanti difetti, ma non è vile e non lo è mai stata. Questo spiega perché Homais trionfa e lei, invece, soccombe. Flaubert segue Emma passo passo, come un medico il suo paziente, e descrive i suoi stati d’animo con la precisione di una cartella clinica. Il romanzo, nel complesso, ha la perfezione di un manuale che illustri in modo sarcastico le ‘delizie’ della vita moderna. Charles Bovary, dopo il suicidio della moglie amatissima, prova un immenso dolore che lo rende degno di rispetto. Oltre a lui, ci sono soltanto due altri personaggi, due fuggevoli comparse, la vecchia contadina Leroux e il dottor Larivière, che Flaubert descriva, con commozione la prima, e con ammirazione il secondo. Catherine Leroux viene premiata alle Assemblee Agricole per i suoi cinquantaquattro anni di servizio nella stessa fattoria. Flaubert ne fa questo sublime ritratto, di cui dovette certo ricordarsi raccontando, venti anni dopo, la storia di Félicité in “Un coeur simple”. “Si vide avanzare sulla pedana  una vecchietta dall’aria spaurita che sembrava cercare di rimpicciolirsi nelle povere vesti. Calzava grossi scarponi dalla suola di legno, e metà della sua figura era nascosta da un grembiulone di legno. Il viso magro, circondato dalla cuffia priva di ala, era più segnato dalle rughe di una mela renetta avvizzita, e dalle maniche della camicetta rossa uscivano le mani lunghe con articolazioni nodose. La polvere dei granai, la soda dei bucati, il grasso della lana le avevano talmente incrostate, logorate, indurite, da farle sembrare sporche anche dopo essere state lavate e rilavate; rimanevano abbandonate, quelle mani, quasi in un gesto di rassegnazione, come se, dopo aver sempre servito gli altri, volessero essere esse stesse l’umile testimonianza di tutte le sofferenze sopportate”, ecc. Il dottor Larivière è un celebre medico chiamato al capezzale di Emma morente. “Questi apparteneva alla grande scuola chirurgica uscita di sotto il camice di Bichat, a quella generazione ormai scomparsa di professionisti filosofi che, venerando la propria arte con un amore fanatico, l’esercitavano con passione e sagacia… Il dottore era tanto stimato dagli allievi, che essi si sforzavano di imitarlo il più possibile… Larivière disdegnava croci, titoli e accademie, era ospitale, liberale e paterno con i poveri, praticava la virtù senza credervi… Lo sguardo di lui, più tagliente del suo bisturi, scendeva in fondo all’anima e scardinava ogni menzogna”, ecc. Con l’incondizionata simpatia espressa per due persone così diverse, e soltanto per queste due, Flaubert dà ragione a Pasolini, che diceva di amare solo le persone semplici che avevano frequentato al massimo la terza elementare e le persone di grande levatura per intelletto e preparazione, e dà ragione alla discreta schiera di moralisti che aborriscono la mezza cultura, confusa e pretensiosa, come quella dello speziale Homais. Flaubert ha capito fra i primi che il dominio della borghesia (oggi diremmo delle banche e delle multinazionali) crea negli uomini una falsa coscienza, indotta e artificiosa, che è causa di infelicità. Quanto questo fenomeno sia oggi diventato universale, è un tema vasto a cui posso solo alludere. Per dare un’idea della carica polemica e profetica di Flaubert, cito da una sua lettera: “L’istruzione gratuita e obbligatoria non farà altro che aumentare il numero degli imbecilli”. La profezia sta in questo: oggi che le università sono forse raddoppiate di numero rispetto a 50 anni fa, l’incultura e il conformismo dilagano. Benché le idee di Flaubert  possano sembrare paradossali, in fondo ad esse brilla una luce di verità. Del resto, come scrisse in una lettera, “l’arte non è altro che una giustizia superiore”.

 

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