venerdì 16 maggio 2025

Vincenzo Cuoco (1770-1823). Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799


Le acute osservazioni di Vincenzo Cuoco sul fallimento della rivoluzione napoletana del 1799, ispirata e sorretta dai francesi contro la volontà popolare, hanno un valore così universale e, se possibile, eterno, che dovrebbero essere esposte nelle sedi dei governi e imparate a memoria da tutti i professionisti della politica.

“…Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto essere popolari ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da’ sensi; e quel che è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutti i capricci e talora tutti i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, dai nostri capricci, dagli usi nostri… La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute dei patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse… Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà… Non può mai esser libero quel popolo, in cui la parte che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia con l’autorità, sia con gli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera…”.

Purtroppo questi ammonimenti, basati su concetti così chiari ed elementari,  sono rimasti parole al vento. Per metterli in pratica bisognerebbe avere coraggio, modestia e generoso disinteresse personale. Qualità, queste, che molto di rado si sono viste unite insieme sia fra gli intellettuali che fra i politici, e che oggi sembrano quasi scomparse.



venerdì 25 aprile 2025

Gustave Flaubert (1821-1880). Madame Bovary. Fabbri editori, 1985

Sia Balzac che Flaubert hanno descritto una società non molto diversa da quella in cui viviamo oggi; il mondo attuale, infatti, è la continuazione e lo sviluppo, senza salti, del mondo descritto da loro. Il romanzo di Flaubert, però, mi sembra che offra qualcosa di più di una rappresentazione efficace della società di quel tempo, perché la descrive dall’interno e ci rivela, oltre alle sue dinamiche di lunga durata, anche i suoi stati d’animo. Il farmacista Homais è un figlio della Rivoluzione, proprio come noi oggi ci vantiamo ancora di essere; Homais è un sostenitore meschino e retorico della libertà, del progresso e della salute pubblica, ed ha le stesse caratteristiche e, credo, la stessa personalità di quella schiera di medici e scienziati che, durante la recente pandemia di Covid, hanno sostenuto in modo fanatico, contro ogni evidenza, la bontà delle vaccinazioni e la necessità di limitare la libertà. Homais ha una cultura che non va molto oltre la lettura del giornale, che è la sua bibbia, come è la bibbia, nel nostro tempo, dei cosiddetti ceti medi riflessivi. Homais la sera sa il giornale quasi a memoria e racconta le notizie che ha letto a tutte le persone che incontra. Sotto un aspetto di bonaria socievolezza, il farmacista è estremamente vanitoso, vile, disonesto e crudele. Propone all’incompetente Bovary di operare il piede equino di Hippolyte, provocando – seppur indirettamente – l’amputazione della gamba, non perché abbia affetto per il ragazzo e interesse per la sua salute, ma solo per fare pubblicità a se stesso e al proprio paese. Homais non compie mai un atto sincero, spontaneo, naturale. In questo assomiglia a Emma Bovary, ed è un co-protagonista del romanzo. Flaubert non lo perde mai di vista e ogni volta che accenna a lui, fa risaltare la sua insopportabile e vuota presunzione. Ciononostante, questo personaggio servile e protetto dalle autorità è, nel mondo di menzogne descritto da Flaubert, l’eroe che trionfa, e il romanzo si chiude con la notizia che lui, ormai, dopo essere riuscito a far fallire tutti i successori di Bovary,  esercita (abusivamente) l’attività di medico per una vastissima clientela, e che “gli è stata appena conferita la Legion d’Onore”. Anche Emma Bovary non ha mai un pensiero o un gesto che siano espressione spontanea della sua natura. In lei gesti e pensieri sono sempre imitazioni dei modelli suggeriti dalla letteratura. In questo senso tutto esteriore, Madame Bovary potrebbe essere paragonata a don Chisciotte. Però all’hidalgo della Mancia i romanzi cavallereschi hanno ispirato sentimenti elevati e lo hanno fatto sentire, come lui dice di sé,  “valoroso, cortese, liberale, gentile, generoso, splendido, audace”, ecc. Don Chisciotte, magnanimo qual è, afferma che bisogna essere assertori della verità anche a prezzo della vita. E’ inspiegabile, perciò, che Erich Auerbach, nei suoi saggi sul realismo,  minimizzi la sua follia privandola di ogni significato simbolico, e attribuisca al cavaliere dalla triste figura una “saggezza normale e per così dire media… di un uomo prudente ed equilibrato”. Dare la vita per difendere la verità è un gesto folle (ma è una fortuna che a volte ci siano persone dotate del coraggio di farlo), che va ben oltre la portata di un uomo prudente ed equilibrato. Su Emma Bovary, invece, i romanzi hanno una influenza molto diversa: alla stessa stregua dell’odierna pubblicità martellante e onnipervasiva e di tutto il vasto insieme di miti fantastici creati da cinema e televisione, i romanzi offrono ad Emma Bovary  modelli di comportamento, pensieri preconfezionati, aspirazioni stereotipate, che lei assorbe avidamente e che, costituendo tutta la sua vita spirituale, finiscono per allontanarla dalla realtà. Al giovane Léon, appena conosciuto, confida: “Detesto i personaggi comuni e i sentimenti moderati, come quelli che si incontrano nella realtà”. Quando le nasce una bambina, sviene per la delusione. Desiderava un figlio maschio, che sarebbe stato “quasi una rivincita potenziale di tutti i suoi fallimenti”. Qualche lettore vede in questa aspettativa di Emma una iniziale consapevolezza femminista, ma a me sembra che anche qui lei dimostri la sua personalità artificiosa, vagheggiando, in un figlio maschio, una figura di uomo libero e avventuroso, che possa diventare un protagonista nel mondo immaginario in cui lei vive. Anche per la scelta del nome da dare alla bambina, Emma si comporta nel modo più banale: sceglie il nome ‘Berthe’ non perché le piaccia, ma solo per averlo sentito pronunciare dalla marchesa al castello della Vaubyessard (invitata occasionalmente al castello, anche lo zucchero le era sembrato più fine e più bianco di come era abituata a vederlo). Alla figlia non si affezionerà mai, la trascura e anzi, guardandola, pensa: “E’ strano come sia brutta questa bambina”. Fallisce come madre, dopo aver fallito come moglie: prova ripugnanza e odio per il marito, troppo mediocre, goffo e modesto per le sue aspirazioni; lei sogna di ascoltare il suono delle arpe sui laghi, il canto dei cigni, il cadere delle foglie al chiar di luna, e nello stesso tempo aspira a una vita tumultuosa, piena di balli mascherati e di piaceri sfacciati. La sua vita banale, con i vicini noiosi e stupidi, non le sembra la vita vera ma un’eccezione, una situazione anormale in cui lei si trova presa per puro caso, mentre, oltre i confini della sua piccola esistenza, si stende a perdita d’occhio lo sterminato paese della felicità e delle passioni. Le giornate di Emma scorrono uguali come le onde del mare, e non accade mai niente di nuovo; lei si annoia e soffre orribilmente. “Come i marinai in pericolo, volgeva sguardi disperati sulla solitudine della sua vita, cercando di scorgere una vela bianca lontana fra le brume dell’orizzonte”. Emma smette di disegnare e di suonare il piano. Vorrebbe imparare l’italiano, prova a leggere libri di storia e di filosofia, ma si arrende subito. Non ha vere passioni né risorse intellettuali. Il suo primo contatto col mondo arcano dell’aristocrazia avviene in un modo volgare al quale il sarcasmo di Flaubert attribuisce il valore di un battesimo. “All’età di tredici anni, suo padre la condusse con sé in città per metterla in collegio. Scesero in un albergo e mangiarono in piatti dipinti che illustravano la storia di madamigella La Vallière. Le leggende esplicative, tagliate qua e là dai graffi dei coltelli, glorificavano tutte la religione, le gioie dello spirito, e i fasti della corte”. Ad Emma non rimane, dunque, che l’adulterio per illudersi di realizzare i suoi sogni romantici. Dopo aver ceduto a Rodolphe, “andava ripetendosi: ‘Ho un amante! Ho un amante!’ e questa idea la deliziava come se le avessero promesso una seconda adolescenza. Finalmente avrebbe posseduto quelle famose gioie che dà l’amore, quella febbre di felicità che non sperava più di provare. Stava per entrare in quel mondo meraviglioso ove tutto è passione, estasi, delizia; un roseo universo   la circondava, i più alti sentimenti splendevano sfiorati dal suo pensiero, l’esistenza di ogni giorno era confinata lontano, laggiù in fondo, nell’ombra”. Negli amori extra-coniugali Emma è generosa, purché, però, questi amori corrispondano ai suoi sogni e si mantengano al loro stesso livello; ma i suoi sogni sono artificiosi e, di conseguenza, vuoti e irrealizzabili, e si concludono sempre con una delusione amarissima. Il primo sogno che viene infranto (Rodolphe scappa dopo averle promesso di fuggire insieme) provoca un dolore autentico e profondo che, però, invece di guarire Emma dal suo romanticismo malato, la mantiene nelle stesse illusioni della giovinezza. A teatro, a Rouen, per ascoltare, assieme al marito, l’opera ‘Lucia di Lammermoor’, sogna addirittura di diventare l’amante del tenore. “Si sentì presa da una follia: Lagardy la guardava ne era sicura! Sentì il desiderio di buttarglisi fra le braccia, per rifugiarsi nella sua forza come nell’incarnazione stessa dell’amore, e di dirgli in un grido: ‘Rapiscimi! Portami con te! Fuggiamo! A te, a te tutti i miei ardori, tutti i miei sogni!”. Dopo la fuga di Rodolphe, Emma ha un nuovo amore con Léon, ritrovato per caso a Rouen; poi c’è la catastrofe economica e infine il suicidio. Negli ultimi giorni di vita, Emma, crollati tutti i sogni e le speranze, acquista una autenticità che prima non aveva: il suo sdegno e il suo disprezzo sono veri, sentiti, ispirati da una nuova fierezza. Al notaio Guillaumin che con il suo sorriso dolciastro e ambiguo  le chiede amore in cambio del pagamento del suo debito, risponde: “Mi si può compiangere, ma non sono in vendita!”. La signora Bovary ha tanti difetti, ma non è vile e non lo è mai stata. Questo spiega perché Homais trionfa e lei, invece, soccombe. Flaubert segue Emma passo passo, come un medico il suo paziente, e descrive i suoi stati d’animo con la precisione di una cartella clinica. Il romanzo, nel complesso, ha la perfezione di un manuale che illustri in modo sarcastico le ‘delizie’ della vita moderna. Charles Bovary, dopo il suicidio della moglie amatissima, prova un immenso dolore che lo rende degno di rispetto. Oltre a lui, ci sono soltanto due altri personaggi, due fuggevoli comparse, la vecchia contadina Leroux e il dottor Larivière, che Flaubert descriva, con commozione la prima, e con ammirazione il secondo. Catherine Leroux viene premiata alle Assemblee Agricole per i suoi cinquantaquattro anni di servizio nella stessa fattoria. Flaubert ne fa questo sublime ritratto, di cui dovette certo ricordarsi raccontando, venti anni dopo, la storia di Félicité in “Un coeur simple”. “Si vide avanzare sulla pedana  una vecchietta dall’aria spaurita che sembrava cercare di rimpicciolirsi nelle povere vesti. Calzava grossi scarponi dalla suola di legno, e metà della sua figura era nascosta da un grembiulone di legno. Il viso magro, circondato dalla cuffia priva di ala, era più segnato dalle rughe di una mela renetta avvizzita, e dalle maniche della camicetta rossa uscivano le mani lunghe con articolazioni nodose. La polvere dei granai, la soda dei bucati, il grasso della lana le avevano talmente incrostate, logorate, indurite, da farle sembrare sporche anche dopo essere state lavate e rilavate; rimanevano abbandonate, quelle mani, quasi in un gesto di rassegnazione, come se, dopo aver sempre servito gli altri, volessero essere esse stesse l’umile testimonianza di tutte le sofferenze sopportate”, ecc. Il dottor Larivière è un celebre medico chiamato al capezzale di Emma morente. “Questi apparteneva alla grande scuola chirurgica uscita di sotto il camice di Bichat, a quella generazione ormai scomparsa di professionisti filosofi che, venerando la propria arte con un amore fanatico, l’esercitavano con passione e sagacia… Il dottore era tanto stimato dagli allievi, che essi si sforzavano di imitarlo il più possibile… Larivière disdegnava croci, titoli e accademie, era ospitale, liberale e paterno con i poveri, praticava la virtù senza credervi… Lo sguardo di lui, più tagliente del suo bisturi, scendeva in fondo all’anima e scardinava ogni menzogna”, ecc. Con l’incondizionata simpatia espressa per due persone così diverse, e soltanto per queste due, Flaubert dà ragione a Pasolini, che diceva di amare solo le persone semplici che avevano frequentato al massimo la terza elementare e le persone di grande levatura per intelletto e preparazione, e dà ragione alla discreta schiera di moralisti che aborriscono la mezza cultura, confusa e pretensiosa, come quella dello speziale Homais. Flaubert ha capito fra i primi che il dominio della borghesia (oggi diremmo delle banche e delle multinazionali) crea negli uomini una falsa coscienza, indotta e artificiosa, che è causa di infelicità. Quanto questo fenomeno sia oggi diventato universale, è un tema vasto a cui posso solo alludere. Per dare un’idea della carica polemica e profetica di Flaubert, cito da una sua lettera: “L’istruzione gratuita e obbligatoria non farà altro che aumentare il numero degli imbecilli”. La profezia sta in questo: oggi che le università sono forse raddoppiate di numero rispetto a 50 anni fa, l’incultura e il conformismo dilagano. Benché le idee di Flaubert  possano sembrare paradossali, in fondo ad esse brilla una luce di verità. Del resto, come scrisse in una lettera, “l’arte non è altro che una giustizia superiore”.

 

domenica 13 aprile 2025

Denis Mack Smith (1920 - 2017). Vittorio Emanuele II. Laterza, 1975

Sulle vicende del Risorgimento la macchina della propaganda aveva cominciato ad alterare la verità e a costruire un’aura di eroismo attorno ai suoi protagonisti quando gli avvenimenti erano ancora in corso. Ma dopo l’occupazione di Roma, nel 1870, e soprattutto dopo la morte di Vittorio Emanuele II, nel 1878, in un parossismo di retorica, si arrivò a descrivere il Risorgimento addirittura come “il fatto politico europeo più importante del XIX secolo”, e il re defunto come la sua guida suprema e infallibile, il più grande e glorioso sovrano dell’Europa cristiana. Gli storici ufficiali hanno voluto far credere che fossero autentiche la capacità militare e la finezza politica che il re millantava, ma coloro che lo conobbero bene, specialmente taluni stranieri che potevano parlare senza timore, lo definirono un carattere debole e pigro, un egoista preoccupato solo di sé, grossolano, mediocre e sleale. Il marchese toscano Pompeo Provenzali (1812-1900), che frequentò la corte di Torino, lo descrisse in modo lapidario: “uomo mediocrissimo, sovrano nullo”. Denis Mack Smith, senza sarcasmo e con pacata obiettività, documenta con fatti ed episodi concreti queste gravi colpe del re, facendo l’esatto contrario di quello che aveva fatto Benedetto Croce nella sua famosa ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’. Il filosofo abruzzese, non contento di aver descritto la personalità del re con tanta compiacenza da farlo assomigliare a Tartarino di Tarascona, aggiunse con stupefacente disinvoltura il ricordo di un episodio dalle implicazioni gravissime. Nel 1873 Vittorio Emanuele fece un viaggio a Berlino, “dove, appena giunto, non lasciò di dichiarare all’imperatore Guglielmo che egli, nel ’70, era stato sul punto di sfoderare la spada contro di lui, se non glielo avessero impedito i suoi ministri: dichiarazione di un cavalleresco sovrano a un altro che aveva animo pari”. Le cose non si erano svolte esattamente come disse Vittorio Emanuele, però è vero che il re d’Italia si era cullato per molti mesi nel proposito di combattere contro la Prussia di Bismarck a fianco di Napoleone III. Se quel proposito velleitario e irresponsabile si fosse realizzato, non è difficile immaginare la brutta fine che avrebbero fatto i Savoia e l’Italia. Croce invece parla di spirito cavalleresco! Aveva ragione Salvemini di considerare il libro di Croce non un libro di storia ma un libro di favole. Lo studio dell’azione di Vittorio Emanuele e del suo tempo non è fine a se stesso, ma serve a capire gli sviluppi successivi della nostra storia. Al tempo del re piemontese, nella società italiana esistevano già le condizioni fondamentali per la nascita dell’Italietta umbertina, giolittiana, fascista, democristiana, di sinistra, pentastellata e di centro-destra. Molte situazioni di quel tempo sembrano preannunciare episodi analoghi che si verificheranno nei decenni successivi e che avranno un esito spesso catastrofico e un impatto profondo sempre negativo. La guerra del 1866, per esempio, fu voluta a tutti i costi, anche se l’Austria, in guerra con la Prussia, era disposta a cedere il Veneto pacificamente, in cambio della nostra neutralità. Ma “ci si pasceva di illusioni invece che di fatti”. Si sosteneva che “l’esercito era formidabile, che la marina aveva una superiorità inconfutabile e che avevamo tre generali che l’Europa ci poteva invidiare”. Con entusiasmo bellicoso, sicuri della vittoria, si proclamava che “non valeva la pena di prendere Venezia senza combattere”. Come si sa, andò molto male (anche se si ebbe il Veneto in regalo da Napoleone III) perché in realtà “l’esercito era irrimediabilmente debole, impreparato e male equipaggiato”. I non molti generali che conoscevano questa situazione, invece di renderla pubblica e di dissuadere il re dall’entrare in guerra, non parlarono per non rovinare la propria carriera. Il comando supremo era poco esperto e poco competente, male addestrato e dilaniato da gelosie e contrasti intestini. L’ammiraglio Persano, sconfitto ignominiosamente nella battaglia di Lissa, nel 1862 fu ministro della marina per otto mesi. Nel dicembre dovette lasciare la carica per la caduta del governo, ma nelle poche ore che gli restavano prima che le sue dimissioni fossero accolte, promosse se stesso da vice-ammiraglio ad ammiraglio. Sono azioni come questa che hanno formato la lunga tradizione militare e amministrativa a cui noi oggi siamo ormai assuefatti, anche se non tutti rassegnati. La voglia di guerreggiare e lo spirito assolutistico di Casa Savoia non vennero mai meno per tutto il regno di Vittorio Emanuele. Questi trasmise al figlio e al nipote un residuo di potere che permise loro d’intervenire con autorità nei momenti cruciali, e che essi esercitarono, non sempre utilmente, a sostegno di Crispi, Salandra, Mussolini e Badoglio. Sono giudizi pacati, questi, del fin troppo pacato Denis Mack Smith, che, comunque, molto lucidamente così conclude: “La sua [di Vittorio Emanuele] passione per la guerra, la sua incompetenza come comandante militare, la sua segreta e irresponsabile ostilità verso i suoi presidenti del consiglio, per non parlare di quella che Sir James Hudson chiamava la sua ‘predilezione per i furfanti’, furono tutti aspetti negativi del suo regno”.

 

sabato 29 marzo 2025

Dedicato a Ursula von der Leyen

"LI SORDATI BONI" di G. G. Belli

Subbito ch'un zovrano de la terra
crede ch'un antro j'abbi tocco un fico,
dice ar popolo suo: "Tu sei nimmico
der tale o der tar re; faje la guerra".

E er popolo, pe sfugge la galerra
o quarch'antra grazietta che nun dico,
pija lo schioppo, e viaggia com'un prico
che spedischino in Francia o in Inghilterra.

Cusì, pe li crapicci d'una corte
ste pecore aritorneno a la stalla
co mezza testa e co le gamme storte.

E co le vite ce se giuca a palla,
come quela puttana de la morte
nun vienissi da lei senza cercalla.

 

giovedì 20 marzo 2025

Angelo d'Orsi. Intellettuali nel Novecento italiano. Einaudi, 2001


Ho ascoltato parecchi interventi politici del professor Angelo d’Orsi e li ho sempre trovati acuti, chiari e appassionati. Però questo libro, che raccoglie saggi scritti in tempi diversi, mi ha deluso. I personaggi di cui d’Orsi disegna il ritratto non sono sempre, almeno per me, di grande interesse. Ma il vero difetto del libro è che esso scoppia di documentazione. D’Orsi segue la vita e l’attività dei suoi personaggi con una precisione minuziosa che a me sembra eccessiva. Questa documentazione capillare poteva forse essere necessaria e digeribile all’interno di un quadro più ampio e animato da una prosa un po’ più aerea. Invece l’intero tessuto di ogni saggio sembra poco più di un documentatissimo curriculum vitae. Il caso più lampante è rappresentato dallo studio su Edoardo Persico (1900-1936), che è il più lungo dei cinque saggi dedicati a personaggi della cultura. D’Orsi descrive la sua vita e il suo attivismo, ma non spiega in che cosa consistesse la sua originalità, e, alla fine, dopo più di 100 pagine, conclude in coda di pesce, dichiarando che, nel campo delle lettere e delle arti, Persico fu “il grande suscitatore, l’infaticabile ammonitore: la coscienza socratica. Un Socrate in buona misura immaginario, il cui passaggio ha lasciato tracce innumerevoli, ma brevi e lievi, del suo passaggio [sic] in terra, tanto che a noi oggi è dato con difficoltà di ricostruirne il tragitto, di valutarne il peso e il senso”. - Nel primo saggio del volume d’Orsi traccia il profilo di Giovanni Gentile e di Marino Parenti per delineare i caratteri di due opposte figure di intellettuale. Parenti (1900-1963), appassionato di libri e di letteratura, fu collaboratore di Gentile in varie iniziative culturali. Nel filosofo siciliano d’Orsi vede, al di là della sua fede politica, il tipo dell’intellettuale militante; invece Marino Parenti incarna la figura dell’intellettuale funzionario. Il fascismo di Gentile  era idealistico e realizzatore, mentre il fascismo di Parenti si esauriva in un quieto opportunismo. Il regime fascista, scrive d’Orsi, inglobò e ingabbiò il ceto intellettuale italiano con un atteggiamento mecenatesco, attraverso una rete diffusa di istituzioni (premi letterari, mostre d’arte e gallerie, case editrici, l’Eiar, l’Istituto Luce, la Biennale di Venezia, l’Istituto per il medio ed estremo oriente, ecc.) che attirarono e assorbirono la maggioranza degli intellettuali rendendoli innocui e fedeli funzionari. Il vero uomo di cultura, però, ci ricorda d’Orsi, non può essere un funzionario al servizio di un partito o di una ideologia, deve essere un uomo libero  al servizio solo della verità, guidato dal senso di responsabilità.  Se l’uomo di cultura non è ispirato da questo principio, diventa un semplice venditore di fumo, divo del circo mediatico, instancabile copywriter, cioè scrittore di accattivanti e falsi messaggi pubblicitari. D’Orsi manifesta una certa simpatia, mi pare, per la coraggiosa e tragica coerenza che Gentile ebbe nell’ultimo anno di vita. Ed è paradossale che il filosofo fascista, che fu un intellettuale militante, seppur per la causa sbagliata, sia stato il principale artefice di una organizzazione culturale che ha appiattito il ruolo degli intellettuali ad una condizione servile. Luigi Russo scriverà, in una lettera ad Adolfo Omodeo, che Gentile è il realizzatore di un proprio “programma di domatore e di addomesticatore di uomini”. - Nel secondo saggio d’Orsi racconta la vita e l’attività di Aldo Capitini (1899-1968), intellettuale militante di un genere particolare, non impegnato direttamente nella politica, ma animato da un fervore religioso che gli ha ispirato fino agli ultimi giorni di vita una attività intensissima in campo etico, civile e pedagogico. Capitini non piaceva né ai fascisti né agli antifascisti; eppure la sua operetta degli anni Trenta (Elementi di un’esperienza religiosa), scrive d’Orsi, è un breviario dell’oppositore, un manuale dell’antifascista, nella misura in cui insegna la non accettazione e la non collaborazione. Nel dopoguerra, i principi sostenuti da Capitini furono, accanto alla nonviolenza, la laicizzazione dello Stato, l’obiezione di coscienza, l’uscita dai blocchi militari. Ma il suo rifiuto dei partiti burocratizzati e l’idea che morale e politica debbano essere legate lo resero inattuale ed estraneo alla sinistra ufficiale. Capitini fu tra i pochi che, dopo Hiroshima e Nagasaki, compresero la gravità della minaccia nucleare e avvertirono la drammatica novità della storia umana, posta dinanzi al bivio pace o distruzione. La rivoluzione permanente a cui Capitini ha dato una voce inconfondibile è fondata sulla mitezza, sulla gentilezza; essa vuole suscitare cambiamenti anche piccoli ma costanti, il cui esito finale sia una trasformazione  antropologica, la nascita dell’uomo nuovo. Non so se queste ultime espressioni d’Orsi le abbia prese dai testi di Capitini o se siano sue conclusioni. Personalmente, quando sento parlare di ‘uomo nuovo’, io non posso fare a meno di provare diffidenza. Non si dovrebbero coltivare queste pericolose chimere, quando anche il semplice sforzo di migliorare gli uomini si rivela una fatica di Sisifo, necessaria ma sostanzialmente vana. Sembra che lo pensasse anche la vedova di Piero Gobetti, Ada, che nell’aprile 1947, in una lettera di pieno consenso, scriveva a Capitini: “Possibile che si possa richiamare questa povera umanità cieca e pazza a quel fondamentale senso religioso che solo potrà darci la salvezza? Sono d’accordo con Lei [...] ma mi chiedo se veramente si riuscirà a concludere qualcosa; comunque vale la pena di tentare”. - Nemmeno il saggio su Carlo Levi sfugge ai limiti stretti di una ricostruzione quasi cronologica; però qui c’è qualcosa di più. Nelle descrizioni capillari che d’Orsi fa dei  giovani che si muovevano attorno a Piero Gobetti o che, arrivati troppo tardi, respiravano nella sua aura, c’è in d’Orsi una candida ammirazione, un rimpianto, una nostalgia accorata persino per i luoghi che quei giovani frequentavano, identificati tutti con precisione. Carlo Levi, temperamento ottimista, aveva una capacità di analisi storico-politica modesta e anche il suo rigore concettuale era fragile, però la coerenza e la limpidezza delle sue idee politiche e la sua dirittura morale erano fuori discussione. La sua passione politica faceva tutt’uno con la sua gioia di vivere, con una vitalità effervescente che lo avvicinava agli uomini e ai libri, alla pittura e alle bellezze della natura. Giuliana Segre Giorgi, cugina di Levi, lo ha definito una creatura solare, una specie di re Mida che quando vedeva una cosa se ne interessava con tanta passione da farla diventare meravigliosa. La sua scoperta del Sud, scrive d’Orsi, ci regala un capolavoro della letteratura, una pietra miliare della cultura civile del nostro paese. - L’ultimo saggio, su Leone Ginzburg (1909-1944), è forse il migliore e il più commosso. Uomo geniale per doti intellettuali e qualità carismatiche di capo, Ginzburg rinunciò a una brillante carriera universitaria, rifiutando di giurare fedeltà al fascismo, “per salvare la possibilità di tenere alta la testa e fermo lo sguardo”, e per difendere, assieme alla libertà della cultura, la dignità di un intero popolo, in ginocchio davanti al tiranno. “A distanza di oltre mezzo secolo dalla sua morte [violenta], anche noi guardiamo al russo di Torino come ad una luce”. Leone Ginzburg, conclude d’Orsi, “ci offre, dall’alto dei suoi brevi e giganteschi trentacinque anni non compiuti di esistenza, un esempio eccelso di soldato della battaglia ideale, quella del bene contro il male a qualunque costo”.

martedì 11 marzo 2025

Mimmo Franzinelli. Croce e il fascismo. Laterza, 2024

 

Molti anni fa portai ad un esame il libro di Benedetto Croce ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’. Al professore che mi esaminava, Roberto Vivarelli, dissi che l'opera non mi era piaciuta perché era troppo retorica. Lui fu solo leggermente sorpreso e mi lasciò parlare liberamente. E’ da quella lettura che ho concepito per Croce una antipatia che dura tuttora e che il bel libro di Mimmo Franzinelli, che pure è tutto a favore di Croce, ha confermata. Certo il filosofo abruzzese durante il ventennio fascista ha dimostrato di essere un oppositore dotato di coraggio e di una grande capacità di resistenza. Però bisogna considerare che lui era un uomo, in tutti i sensi, molto moderato, che erano moderate non solo le sue idee politiche, ma anche il suo temperamento e il suo carattere. Tanta naturale e spontanea pacatezza poteva realizzarsi, suppongo, con relativa facilità anche in condizioni discretamente avverse. Coraggio, dunque, sì, ne ha avuto, ma poca cosa in confronto, per esempio, al principio espresso da Piero Gobetti in una lettera a Tommaso Fiore: “Dobbiamo rimanere fedeli alla nostra disperata intransigenza”. Da un punto di vista interiore, cioè dal punto di vista delle sue convinzioni politiche e morali, credo che la coerenza di Croce sia assoluta; ma è da un punto di vista esteriore, cioè dal punto di vista di una opposizione rigorosa e consapevole delle radici storiche del fascismo, che la sua attività sembra, a volte, incoerente e fiacca, sostenuta da convinzioni inadeguate e manchevoli. “Del fascismo, ha scritto Sebastiano Timpanaro, non riconobbe mai la natura antiproletaria, i legami con la grande borghesia agraria e industriale, né volle mai rintracciare nella storia dell’Italia prefascista i germi del fascismo, il quale fu perciò, secondo lui, una ‘parentesi’ nella vita del popolo italiano, una ‘malattia’ senza antecedenti e senza conseguenze”. Ma l’incomprensione di Croce fu ancora più grave: negli anni dell’ascesa, fino al 1925, egli credette nel fascismo, considerandolo un benefico contravveleno del socialismo, e scrisse che “il cuore del fascismo è l’amore della patria italiana, è il sentimento della sua salvezza, della salvezza dello Stato”. In questa dichiarazione e in molte altre espressioni dello stesso tenore, a me pare di cogliere una stortura teorica che forse è il peccato originale di Croce, la convinzione, cioè, che sia compito e dovere dello Stato tenere unito, in basso, anche con la forza, il popolo. Non è, quindi, il popolo unito a dover creare uno Stato democratico, ma è lo Stato che deve formare il popolo. Questa concezione spiega il suo idoleggiamento del Risorgimento e l’imperdonabile definizione dei contadini meridionali insorti contro la conquista piemontese come “truci e osceni briganti”. Per Croce, il popolo, in quanto costituito da persone reali in carne e ossa, è un elemento secondario e trascurabile. E' stata una grave mancanza di sensibilità. Dopo la definitiva rottura col fascismo e con Giovanni Gentile, il compito che Croce si attribuisce è la difesa della libertà e della cultura. E' soprattutto la libertà della cultura che gli sta a cuore. “Ogni giorno il regime, con le violenze, coi fattacci, con le parolacce [...] con l’esaltare le prodezze ciclistiche e automobilistiche e aeroplanistiche sopra le opera del cuore, della fantasia e dell’intelletto, e con l’indurre nei giovani il disprezzo per queste, contrasta la formazione dell’ambiente a loro favorevole”. In una lettera scritta a Giovanni Amendola pochi mesi prima della sua morte, per invitarlo a tornare in Parlamento e chiudere la secessione dell’Aventino, scrive: “C’è ora la questione elementare della libertà. E questa dovrebbe unire in un sol blocco tutti i partiti costituzionali, dai moderati ai democratici e riformisti”. Nel giugno 1925, conclude così un suo discorso ai liberali: “A noi, come a tutti coloro che lottano per un ideale, spetta ripetere le parole di Lutero innanzi alla Dieta di Worms: ‘Qui sto io’ ”. In questo momento non si può non ammirare la combattività di Benedetto Croce, e sembra naturale che Piero Gobetti lo definisca “il più perfetto tipo europeo espresso dalla nostra cultura”, e che nel giro di pochi anni venga considerato capo spirituale della resistenza al fascismo. Il culto che Croce ha per i patrioti del Risorgimento non è retorico, anche se egli lo esprime in forme retoriche, ma è sincero e drammatico. “Non si venera tutta la vita uno Spaventa o un De Sanctis per morire con la visione della loro riprovazione e del loro disprezzo [...] Io mi affido alla Provvidenza e ripiglio i miei studi con serenità, avvenga quel che vuole avvenire”. Croce è simpatico e degno di ammirazione anche quando, sotto i bombardamenti di Napoli nel 1943, preferisce restarsene a letto o a leggere nel suo studio, invece che scendere nel rifugio antiaereo.  Nel 1931 la legge obbliga i professori universitari a giurare fedeltà al Regime; solo pochissimi rifiutano, circa una dozzina su 1200. Luigi Einaudi e alcuni altri chiedono consiglio a Croce,  quasi fosse un papa laico, e lui consiglia di giurare. Questo consiglio sarà molto criticato da Gaetano Salvemini. Lui e Croce si trovarono in un salotto a Parigi, e Salvemini lo apostrofò bruscamente: ‘Avete fatto malissimo a consigliare a Einaudi di giurare’. Nel 1946 Salvemini scrisse di nuovo su questo consiglio sbagliato con ancora maggiore severità. Quello che stupisce di più è la spiegazione che ne dette Croce ad Alberto Cianca, in esilio a Parigi: “... Io ero convinto che, se alcuni non avessero giurato, si sarebbero pentiti dopo poco, e si sarebbero domandati: ‘Ma perché non abbiamo giurato? Perché non giurammo?’ Ho voluto che essi evitassero a se stessi il travaglio, la disperazione del prossimo domani”. Oltre che banale, questa spiegazione mostra scarsa stima dei professori antifascisti amici suoi. Non è il coraggio che mancò a Croce, ma la chiarezza delle idee. Dopo le sanzioni all’Italia a causa della guerra d’Abissinia, accetta l’invito a donare alla patria la sua medaglia di senatore. Gli antifascisti in carcere ne sono addolorati. Riccardo Bauer, “il più crociano di tutti i crociani”, dice che non avrà più alcuna stima di Croce come uomo politico. Anche la spiegazione che Croce dà di questo gesto è poco convincente. In un colloquio con Bianca Ceva, nel marzo 1936, tra altre cose dice: “Io, come storico, ho sempre visto che i mali d’Italia sono nati dalle sconfitte militari... non mi sentivo di augurare questo alla patria”. All'inizio del capitolo successivo a questo resoconto Mimmo Franzinelli pone come epigrafe un passo di Vittorio Alfieri, che sembra una tirata d’orecchi al nostro filosofo: “Non si può dir patria dove non c’è libertà e sicurezza; e non vi è nulla di onorevole nel difendere anche contro i nemici esterni un così fatto paese...”. Per dare una interpretazione dell’ascesa di Hitler al potere, Croce pubblica nel 1934 un saggio su La Critica: “...la decadenza è un momento eterno del progresso stesso, bisogna liberarsi della illusione del progresso senza decadenza (del fantastico progresso in linea retta, al quale giustamente il savio Goethe contrapponeva quello a spirale). Quanto più intensa è stata l’opera della civiltà, tanto più è da aspettare che le terrà dietro un rilassamento o un oscuro dibattersi travaglioso...”. Anche in questo concetto mi pare di vedere una stortura teorica che inficia le interpretazioni storiche di Croce. Lui vede le epoche come una successione di periodi di progresso e periodi di decadenza, prima la luce del Risorgimento, poi l’ombra del Fascismo, ecc., senza legami fra loro. Ma noi oggi sappiamo, perché lo possiamo constatare persino nella nostra esperienza quotidiana, che il progresso contiene già in sé il regresso, che la decadenza è l’altra faccia del progresso, che ogni innovazione ci fa progredire per un aspetto ma ci imbarbarisce per un altro aspetto, che è purtroppo sempre l’aspetto più importante. Al tempo di Croce, per non risalire più indietro, questo intreccio era già molto visibile, e non mancavano scrittori che ne fossero pienamente consapevoli (per es. Johan Huizinga, ma c'era già stato Leopardi). Anche sotto questo aspetto, le idee di Croce sembrano vecchissime, come sembra antiquata e irrealistica la sua religione della libertà come l’essenza stessa della storia umana. Ha scritto Sebastiano Timpanaro che questo concetto tutto interiore della libertà ha portato Croce a svalutare l’esigenza di una liberazione effettiva degli uomini da concrete situazioni di oppressione e di sfruttamento e a sopravvalutare il valore delle pure finzioni parlamentari. Mi ha sorpreso non trovare fra le tante citazioni di Croce che Franzinelli raccoglie nel suo libro nessuna che si riferisse alla guerra civile spagnola. Non posso pensare che Croce non vi avesse prestato attenzione. Forse Franzinelli ha volute celare qualche giudizio troppo impopolare del nostro filosofo? Non lo so. Qual è oggi l’eredità politica di Croce? Premesso che io sono soltanto un uomo della strada, credo che non rimanga niente, se non l’esempio di una personalità notevole per intelletto e cultura e per l’assoluta dedizione a un compito elevato.

 

lunedì 3 marzo 2025

Gad Lerner e Adriano Sofri: sempre dalla stessa parte


GAD LERNER HA SCRITTO: "Scrive Adriano Sofri che l'immagine di resistenza del presidente Zelensky nei palazzi governativi di Kiev ricorda le ultime ore di Salvador Allende assediato nel Palazzo della Moneda a Santiago del Cile".

AD ADRIANO SOFRI, CHE E' UN DANNUNZIANO DI QUART'ORDINE, DEVE ESSERE SEMBRATO ESTETICAMENTE ECCITANTE PARAGONARE ZELENSKY A SALVADOR ALLENDE. MA E' SOLO UNA LURIDA BESTEMMIA.