giovedì 20 marzo 2025

Angelo d'Orsi. Intellettuali nel Novecento italiano. Einaudi, 2001


Ho ascoltato parecchi interventi politici del professor Angelo d’Orsi e li ho sempre trovati acuti, chiari e appassionati. Però questo libro, che raccoglie saggi scritti in tempi diversi, mi ha deluso. I personaggi di cui d’Orsi disegna il ritratto non sono sempre, almeno per me, di grande interesse. Ma il vero difetto del libro è che esso scoppia di documentazione. D’Orsi segue la vita e l’attività dei suoi personaggi con una precisione minuziosa che a me sembra eccessiva. Questa documentazione capillare poteva forse essere necessaria e digeribile all’interno di un quadro più ampio e animato da una prosa un po’ più aerea. Invece l’intero tessuto di ogni saggio sembra poco più di un documentatissimo curriculum vitae. Il caso più lampante è rappresentato dallo studio su Edoardo Persico (1900-1936), che è il più lungo dei cinque saggi dedicati a personaggi della cultura. D’Orsi descrive la sua vita e il suo attivismo, ma non spiega in che cosa consistesse la sua originalità, e, alla fine, dopo più di 100 pagine, conclude in coda di pesce, dichiarando che, nel campo delle lettere e delle arti, Persico fu “il grande suscitatore, l’infaticabile ammonitore: la coscienza socratica. Un Socrate in buona misura immaginario, il cui passaggio ha lasciato tracce innumerevoli, ma brevi e lievi, del suo passaggio [sic] in terra, tanto che a noi oggi è dato con difficoltà di ricostruirne il tragitto, di valutarne il peso e il senso”. - Nel primo saggio del volume d’Orsi traccia il profilo di Giovanni Gentile e di Marino Parenti per delineare i caratteri di due opposte figure di intellettuale. Parenti (1900-1963), appassionato di libri e di letteratura, fu collaboratore di Gentile in varie iniziative culturali. Nel filosofo siciliano d’Orsi vede, al di là della sua fede politica, il tipo dell’intellettuale militante; invece Marino Parenti incarna la figura dell’intellettuale funzionario. Il fascismo di Gentile  era idealistico e realizzatore, mentre il fascismo di Parenti si esauriva in un quieto opportunismo. Il regime fascista, scrive d’Orsi, inglobò e ingabbiò il ceto intellettuale italiano con un atteggiamento mecenatesco, attraverso una rete diffusa di istituzioni (premi letterari, mostre d’arte e gallerie, case editrici, l’Eiar, l’Istituto Luce, la Biennale di Venezia, l’Istituto per il medio ed estremo oriente, ecc.) che attirarono e assorbirono la maggioranza degli intellettuali rendendoli innocui e fedeli funzionari. Il vero uomo di cultura, però, ci ricorda d’Orsi, non può essere un funzionario al servizio di un partito o di una ideologia, deve essere un uomo libero  al servizio solo della verità, guidato dal senso di responsabilità.  Se l’uomo di cultura non è ispirato da questo principio, diventa un semplice venditore di fumo, divo del circo mediatico, instancabile copywriter, cioè scrittore di accattivanti e falsi messaggi pubblicitari. D’Orsi manifesta una certa simpatia, mi pare, per la coraggiosa e tragica coerenza che Gentile ebbe nell’ultimo anno di vita. Ed è paradossale che il filosofo fascista, che fu un intellettuale militante, seppur per la causa sbagliata, sia stato il principale artefice di una organizzazione culturale che ha appiattito il ruolo degli intellettuali ad una condizione servile. Luigi Russo scriverà, in una lettera ad Adolfo Omodeo, che Gentile è il realizzatore di un proprio “programma di domatore e di addomesticatore di uomini”. - Nel secondo saggio d’Orsi racconta la vita e l’attività di Aldo Capitini (1899-1968), intellettuale militante di un genere particolare, non impegnato direttamente nella politica, ma animato da un fervore religioso che gli ha ispirato fino agli ultimi giorni di vita una attività intensissima in campo etico, civile e pedagogico. Capitini non piaceva né ai fascisti né agli antifascisti; eppure la sua operetta degli anni Trenta (Elementi di un’esperienza religiosa), scrive d’Orsi, è un breviario dell’oppositore, un manuale dell’antifascista, nella misura in cui insegna la non accettazione e la non collaborazione. Nel dopoguerra, i principi sostenuti da Capitini furono, accanto alla nonviolenza, la laicizzazione dello Stato, l’obiezione di coscienza, l’uscita dai blocchi militari. Ma il suo rifiuto dei partiti burocratizzati e l’idea che morale e politica debbano essere legate lo resero inattuale ed estraneo alla sinistra ufficiale. Capitini fu tra i pochi che, dopo Hiroshima e Nagasaki, compresero la gravità della minaccia nucleare e avvertirono la drammatica novità della storia umana, posta dinanzi al bivio pace o distruzione. La rivoluzione permanente a cui Capitini ha dato una voce inconfondibile è fondata sulla mitezza, sulla gentilezza; essa vuole suscitare cambiamenti anche piccoli ma costanti, il cui esito finale sia una trasformazione  antropologica, la nascita dell’uomo nuovo. Non so se queste ultime espressioni d’Orsi le abbia prese dai testi di Capitini o se siano sue conclusioni. Personalmente, quando sento parlare di ‘uomo nuovo’, io non posso fare a meno di provare diffidenza. Non si dovrebbero coltivare queste pericolose chimere, quando anche il semplice sforzo di migliorare gli uomini si rivela una fatica di Sisifo, necessaria ma sostanzialmente vana. Sembra che lo pensasse anche la vedova di Piero Gobetti, Ada, che nell’aprile 1947, in una lettera di pieno consenso, scriveva a Capitini: “Possibile che si possa richiamare questa povera umanità cieca e pazza a quel fondamentale senso religioso che solo potrà darci la salvezza? Sono d’accordo con Lei [...] ma mi chiedo se veramente si riuscirà a concludere qualcosa; comunque vale la pena di tentare”. - Nemmeno il saggio su Carlo Levi sfugge ai limiti stretti di una ricostruzione quasi cronologica; però qui c’è qualcosa di più. Nelle descrizioni capillari che d’Orsi fa dei  giovani che si muovevano attorno a Piero Gobetti o che, arrivati troppo tardi, respiravano nella sua aura, c’è in d’Orsi una candida ammirazione, un rimpianto, una nostalgia accorata persino per i luoghi che quei giovani frequentavano, identificati tutti con precisione. Carlo Levi, temperamento ottimista, aveva una capacità di analisi storico-politica modesta e anche il suo rigore concettuale era fragile, però la coerenza e la limpidezza delle sue idee politiche e la sua dirittura morale erano fuori discussione. La sua passione politica faceva tutt’uno con la sua gioia di vivere, con una vitalità effervescente che lo avvicinava agli uomini e ai libri, alla pittura e alle bellezze della natura. Giuliana Segre Giorgi, cugina di Levi, lo ha definito una creatura solare, una specie di re Mida che quando vedeva una cosa se ne interessava con tanta passione da farla diventare meravigliosa. La sua scoperta del Sud, scrive d’Orsi, ci regala un capolavoro della letteratura, una pietra miliare della cultura civile del nostro paese. - L’ultimo saggio, su Leone Ginzburg (1909-1944), è forse il migliore e il più commosso. Uomo geniale per doti intellettuali e qualità carismatiche di capo, Ginzburg rinunciò a una brillante carriera universitaria, rifiutando di giurare fedeltà al fascismo, “per salvare la possibilità di tenere alta la testa e fermo lo sguardo”, e per difendere, assieme alla libertà della cultura, la dignità di un intero popolo, in ginocchio davanti al tiranno. “A distanza di oltre mezzo secolo dalla sua morte [violenta], anche noi guardiamo al russo di Torino come ad una luce”. Leone Ginzburg, conclude d’Orsi, “ci offre, dall’alto dei suoi brevi e giganteschi trentacinque anni non compiuti di esistenza, un esempio eccelso di soldato della battaglia ideale, quella del bene contro il male a qualunque costo”.

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