Molti anni fa portai ad un esame il libro di Benedetto Croce ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’. Al professore che mi esaminava, Roberto Vivarelli, dissi che l'opera non mi era piaciuta perché era troppo retorica. Lui fu solo leggermente sorpreso e mi lasciò parlare liberamente. E’ da quella lettura che ho concepito per Croce una antipatia che dura tuttora e che il bel libro di Mimmo Franzinelli, che pure è tutto a favore di Croce, ha confermata. Certo il filosofo abruzzese durante il ventennio fascista ha dimostrato di essere un oppositore dotato di coraggio e di una grande capacità di resistenza. Però bisogna considerare che lui era un uomo, in tutti i sensi, molto moderato, che erano moderate non solo le sue idee politiche, ma anche il suo temperamento e il suo carattere. Tanta naturale e spontanea pacatezza poteva realizzarsi, suppongo, con relativa facilità anche in condizioni discretamente avverse. Coraggio, dunque, sì, ne ha avuto, ma poca cosa in confronto, per esempio, al principio espresso da Piero Gobetti in una lettera a Tommaso Fiore: “Dobbiamo rimanere fedeli alla nostra disperata intransigenza”. Da un punto di vista interiore, cioè dal punto di vista delle sue convinzioni politiche e morali, credo che la coerenza di Croce sia assoluta; ma è da un punto di vista esteriore, cioè dal punto di vista di una opposizione rigorosa e consapevole delle radici storiche del fascismo, che la sua attività sembra, a volte, incoerente e fiacca, sostenuta da convinzioni inadeguate e manchevoli. “Del fascismo, ha scritto Sebastiano Timpanaro, non riconobbe mai la natura antiproletaria, i legami con la grande borghesia agraria e industriale, né volle mai rintracciare nella storia dell’Italia prefascista i germi del fascismo, il quale fu perciò, secondo lui, una ‘parentesi’ nella vita del popolo italiano, una ‘malattia’ senza antecedenti e senza conseguenze”. Ma l’incomprensione di Croce fu ancora più grave: negli anni dell’ascesa, fino al 1925, egli credette nel fascismo, considerandolo un benefico contravveleno del socialismo, e scrisse che “il cuore del fascismo è l’amore della patria italiana, è il sentimento della sua salvezza, della salvezza dello Stato”. In questa dichiarazione e in molte altre espressioni dello stesso tenore, a me pare di cogliere una stortura teorica che forse è il peccato originale di Croce, la convinzione, cioè, che sia compito e dovere dello Stato tenere unito, in basso, anche con la forza, il popolo. Non è, quindi, il popolo unito a dover creare uno Stato democratico, ma è lo Stato che deve formare il popolo. Questa concezione spiega il suo idoleggiamento del Risorgimento e l’imperdonabile definizione dei contadini meridionali insorti contro la conquista piemontese come “truci e osceni briganti”. Per Croce, il popolo, in quanto costituito da persone reali in carne e ossa, è un elemento secondario e trascurabile. E' stata una grave mancanza di sensibilità. Dopo la definitiva rottura col fascismo e con Giovanni Gentile, il compito che Croce si attribuisce è la difesa della libertà e della cultura. E' soprattutto la libertà della cultura che gli sta a cuore. “Ogni giorno il regime, con le violenze, coi fattacci, con le parolacce [...] con l’esaltare le prodezze ciclistiche e automobilistiche e aeroplanistiche sopra le opera del cuore, della fantasia e dell’intelletto, e con l’indurre nei giovani il disprezzo per queste, contrasta la formazione dell’ambiente a loro favorevole”. In una lettera scritta a Giovanni Amendola pochi mesi prima della sua morte, per invitarlo a tornare in Parlamento e chiudere la secessione dell’Aventino, scrive: “C’è ora la questione elementare della libertà. E questa dovrebbe unire in un sol blocco tutti i partiti costituzionali, dai moderati ai democratici e riformisti”. Nel giugno 1925, conclude così un suo discorso ai liberali: “A noi, come a tutti coloro che lottano per un ideale, spetta ripetere le parole di Lutero innanzi alla Dieta di Worms: ‘Qui sto io’ ”. In questo momento non si può non ammirare la combattività di Benedetto Croce, e sembra naturale che Piero Gobetti lo definisca “il più perfetto tipo europeo espresso dalla nostra cultura”, e che nel giro di pochi anni venga considerato capo spirituale della resistenza al fascismo. Il culto che Croce ha per i patrioti del Risorgimento non è retorico, anche se egli lo esprime in forme retoriche, ma è sincero e drammatico. “Non si venera tutta la vita uno Spaventa o un De Sanctis per morire con la visione della loro riprovazione e del loro disprezzo [...] Io mi affido alla Provvidenza e ripiglio i miei studi con serenità, avvenga quel che vuole avvenire”. Croce è simpatico e degno di ammirazione anche quando, sotto i bombardamenti di Napoli nel 1943, preferisce restarsene a letto o a leggere nel suo studio, invece che scendere nel rifugio antiaereo. Nel 1931 la legge obbliga i professori universitari a giurare fedeltà al Regime; solo pochissimi rifiutano, circa una dozzina su 1200. Luigi Einaudi e alcuni altri chiedono consiglio a Croce, quasi fosse un papa laico, e lui consiglia di giurare. Questo consiglio sarà molto criticato da Gaetano Salvemini. Lui e Croce si trovarono in un salotto a Parigi, e Salvemini lo apostrofò bruscamente: ‘Avete fatto malissimo a consigliare a Einaudi di giurare’. Nel 1946 Salvemini scrisse di nuovo su questo consiglio sbagliato con ancora maggiore severità. Quello che stupisce di più è la spiegazione che ne dette Croce ad Alberto Cianca, in esilio a Parigi: “... Io ero convinto che, se alcuni non avessero giurato, si sarebbero pentiti dopo poco, e si sarebbero domandati: ‘Ma perché non abbiamo giurato? Perché non giurammo?’ Ho voluto che essi evitassero a se stessi il travaglio, la disperazione del prossimo domani”. Oltre che banale, questa spiegazione mostra scarsa stima dei professori antifascisti amici suoi. Non è il coraggio che mancò a Croce, ma la chiarezza delle idee. Dopo le sanzioni all’Italia a causa della guerra d’Abissinia, accetta l’invito a donare alla patria la sua medaglia di senatore. Gli antifascisti in carcere ne sono addolorati. Riccardo Bauer, “il più crociano di tutti i crociani”, dice che non avrà più alcuna stima di Croce come uomo politico. Anche la spiegazione che Croce dà di questo gesto è poco convincente. In un colloquio con Bianca Ceva, nel marzo 1936, tra altre cose dice: “Io, come storico, ho sempre visto che i mali d’Italia sono nati dalle sconfitte militari... non mi sentivo di augurare questo alla patria”. All'inizio del capitolo successivo a questo resoconto Mimmo Franzinelli pone come epigrafe un passo di Vittorio Alfieri, che sembra una tirata d’orecchi al nostro filosofo: “Non si può dir patria dove non c’è libertà e sicurezza; e non vi è nulla di onorevole nel difendere anche contro i nemici esterni un così fatto paese...”. Per dare una interpretazione dell’ascesa di Hitler al potere, Croce pubblica nel 1934 un saggio su La Critica: “...la decadenza è un momento eterno del progresso stesso, bisogna liberarsi della illusione del progresso senza decadenza (del fantastico progresso in linea retta, al quale giustamente il savio Goethe contrapponeva quello a spirale). Quanto più intensa è stata l’opera della civiltà, tanto più è da aspettare che le terrà dietro un rilassamento o un oscuro dibattersi travaglioso...”. Anche in questo concetto mi pare di vedere una stortura teorica che inficia le interpretazioni storiche di Croce. Lui vede le epoche come una successione di periodi di progresso e periodi di decadenza, prima la luce del Risorgimento, poi l’ombra del Fascismo, ecc., senza legami fra loro. Ma noi oggi sappiamo, perché lo possiamo constatare persino nella nostra esperienza quotidiana, che il progresso contiene già in sé il regresso, che la decadenza è l’altra faccia del progresso, che ogni innovazione ci fa progredire per un aspetto ma ci imbarbarisce per un altro aspetto, che è purtroppo sempre l’aspetto più importante. Al tempo di Croce, per non risalire più indietro, questo intreccio era già molto visibile, e non mancavano scrittori che ne fossero pienamente consapevoli (per es. Johan Huizinga, ma c'era già stato Leopardi). Anche sotto questo aspetto, le idee di Croce sembrano vecchissime, come sembra antiquata e irrealistica la sua religione della libertà come l’essenza stessa della storia umana. Ha scritto Sebastiano Timpanaro che questo concetto tutto interiore della libertà ha portato Croce a svalutare l’esigenza di una liberazione effettiva degli uomini da concrete situazioni di oppressione e di sfruttamento e a sopravvalutare il valore delle pure finzioni parlamentari. Mi ha sorpreso non trovare fra le tante citazioni di Croce che Franzinelli raccoglie nel suo libro nessuna che si riferisse alla guerra civile spagnola. Non posso pensare che Croce non vi avesse prestato attenzione. Forse Franzinelli ha volute celare qualche giudizio troppo impopolare del nostro filosofo? Non lo so. Qual è oggi l’eredità politica di Croce? Premesso che io sono soltanto un uomo della strada, credo che non rimanga niente, se non l’esempio di una personalità notevole per intelletto e cultura e per l’assoluta dedizione a un compito elevato.
martedì 11 marzo 2025
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