Sulle vicende del Risorgimento la macchina della propaganda aveva cominciato ad alterare la verità e a costruire un’aura di eroismo attorno ai suoi protagonisti quando gli avvenimenti erano ancora in corso. Ma dopo l’occupazione di Roma, nel 1870, e soprattutto dopo la morte di Vittorio Emanuele II, nel 1878, in un parossismo di retorica, si arrivò a descrivere il Risorgimento addirittura come “il fatto politico europeo più importante del XIX secolo”, e il re defunto come la sua guida suprema e infallibile, il più grande e glorioso sovrano dell’Europa cristiana. Gli storici ufficiali hanno voluto far credere che fossero autentiche la capacità militare e la finezza politica che il re millantava, ma coloro che lo conobbero bene, specialmente taluni stranieri che potevano parlare senza timore, lo definirono un carattere debole e pigro, un egoista preoccupato solo di sé, grossolano, mediocre e sleale. Il marchese toscano Pompeo Provenzali (1812-1900), che frequentò la corte di Torino, lo descrisse in modo lapidario: “uomo mediocrissimo, sovrano nullo”. Denis Mack Smith, senza sarcasmo e con pacata obiettività, documenta con fatti ed episodi concreti queste gravi colpe del re, facendo l’esatto contrario di quello che aveva fatto Benedetto Croce nella sua famosa ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’. Il filosofo abruzzese, non contento di aver descritto la personalità del re con tanta compiacenza da farlo assomigliare a Tartarino di Tarascona, aggiunse con stupefacente disinvoltura il ricordo di un episodio dalle implicazioni gravissime. Nel 1873 Vittorio Emanuele fece un viaggio a Berlino, “dove, appena giunto, non lasciò di dichiarare all’imperatore Guglielmo che egli, nel ’70, era stato sul punto di sfoderare la spada contro di lui, se non glielo avessero impedito i suoi ministri: dichiarazione di un cavalleresco sovrano a un altro che aveva animo pari”. Le cose non si erano svolte esattamente come disse Vittorio Emanuele, però è vero che il re d’Italia si era cullato per molti mesi nel proposito di combattere contro la Prussia di Bismarck a fianco di Napoleone III. Se quel proposito velleitario e irresponsabile si fosse realizzato, non è difficile immaginare la brutta fine che avrebbero fatto i Savoia e l’Italia. Croce invece parla di spirito cavalleresco! Aveva ragione Salvemini di considerare il libro di Croce non un libro di storia ma un libro di favole. Lo studio dell’azione di Vittorio Emanuele e del suo tempo non è fine a se stesso, ma serve a capire gli sviluppi successivi della nostra storia. Al tempo del re piemontese, nella società italiana esistevano già le condizioni fondamentali per la nascita dell’Italietta umbertina, giolittiana, fascista, democristiana, di sinistra, pentastellata e di centro-destra. Molte situazioni di quel tempo sembrano preannunciare episodi analoghi che si verificheranno nei decenni successivi e che avranno un esito spesso catastrofico e un impatto profondo sempre negativo. La guerra del 1866, per esempio, fu voluta a tutti i costi, anche se l’Austria, in guerra con la Prussia, era disposta a cedere il Veneto pacificamente, in cambio della nostra neutralità. Ma “ci si pasceva di illusioni invece che di fatti”. Si sosteneva che “l’esercito era formidabile, che la marina aveva una superiorità inconfutabile e che avevamo tre generali che l’Europa ci poteva invidiare”. Con entusiasmo bellicoso, sicuri della vittoria, si proclamava che “non valeva la pena di prendere Venezia senza combattere”. Come si sa, andò molto male (anche se si ebbe il Veneto in regalo da Napoleone III) perché in realtà “l’esercito era irrimediabilmente debole, impreparato e male equipaggiato”. I non molti generali che conoscevano questa situazione, invece di renderla pubblica e di dissuadere il re dall’entrare in guerra, non parlarono per non rovinare la propria carriera. Il comando supremo era poco esperto e poco competente, male addestrato e dilaniato da gelosie e contrasti intestini. L’ammiraglio Persano, sconfitto ignominiosamente nella battaglia di Lissa, nel 1862 fu ministro della marina per otto mesi. Nel dicembre dovette lasciare la carica per la caduta del governo, ma nelle poche ore che gli restavano prima che le sue dimissioni fossero accolte, promosse se stesso da vice-ammiraglio ad ammiraglio. Sono azioni come questa che hanno formato la lunga tradizione militare e amministrativa a cui noi oggi siamo ormai assuefatti, anche se non tutti rassegnati. La voglia di guerreggiare e lo spirito assolutistico di Casa Savoia non vennero mai meno per tutto il regno di Vittorio Emanuele. Questi trasmise al figlio e al nipote un residuo di potere che permise loro d’intervenire con autorità nei momenti cruciali, e che essi esercitarono, non sempre utilmente, a sostegno di Crispi, Salandra, Mussolini e Badoglio. Sono giudizi pacati, questi, del fin troppo pacato Denis Mack Smith, che, comunque, molto lucidamente così conclude: “La sua [di Vittorio Emanuele] passione per la guerra, la sua incompetenza come comandante militare, la sua segreta e irresponsabile ostilità verso i suoi presidenti del consiglio, per non parlare di quella che Sir James Hudson chiamava la sua ‘predilezione per i furfanti’, furono tutti aspetti negativi del suo regno”.
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