La lettura di questo libro, osannato da quasi tutti i critici e dalla generalità dei lettori sofisticati, è stata per me faticosissima. E’ un romanzo discontinuo e frammentario, con passaggi narrativi spesso arbitrari e gratuiti. Del libro è stata apprezzata soprattutto l’originalità del linguaggio e la capacità di inventare parole ed espressioni. Ma a me rimane il dubbio che questa originalità solo a tratti sia artistica e spontanea, ma più spesso lambiccata e cervellotica. Sta di fatto che le scene più drammatiche, dove Gadda apre con sincerità il proprio cuore, sono descritte con prosa piana e classica, ben lontana dalle espressioni, deformate con amarezza sarcastica o con divertimento goliardico, che Gadda usa invece per descrivere scene e personaggi secondari.
Cesare Cases, che fu tra i primi, o
forse il primo, a criticare ‘La cognizione del dolore’, scrisse che Gadda aveva
fallito, perché egli “si ribellò all’ordine attraverso il linguaggio,
soprattutto attraverso l’eversione del linguaggio”, mentre lui, Cases, da
marxista, si aspettava “l’eversione da una eversione esistenziale,
politico-sociale”. Con tutta la comprensione e la simpatia per il punto di
vista realistico di Cases, mi sembra che lui avesse ragione solo a metà, o
meglio, che avesse ragione, sì, ma con un argomento sbagliato. Infatti non
sembra affatto che Gadda abbia voluto ribellarsi all' 'ordine’, come lo poteva
intendere un socialista militante. Nella breve appendice che accompagna il
romanzo, Gadda ripete più volte quale fosse la sua intenzione, e invita a
cercare nel libro “una lettura consapevole della scemenza del mondo o della
bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una
farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari”. Obiettivo che non ha nulla a
che fare con il sovvertimento dell’ordine borghese, come auspicato da Cases:
può, invece, essere molto di più, ma anche molto di meno. Gadda aggiunge che
l’ossessione di Gonzalo (il personaggio principale e alter ego dello
scrittore), non è una interpretazione delirante della realtà o un sogno
gratuito alla don Chisciotte: nasce e discende invece ‘dagli altri’. “Ha per
origine, ed elegge quindi a sua cible polemica [bersaglio], la follia e la
cretineria degli altri... Gonzalo è insofferente della imbecillaggine generale
del mondo, delle baggianate della ritualistica borghese; e aborre dai crimini
del mondo”. E’ chiaro che nessuna eversione politico-sociale, nessun
socialismo, reale o anche ideale, avrebbe mai riconciliato Gadda-Gonzalo con la
scemenza del mondo e con la sua storia, ‘farsa da commedianti nati cretini e
diplomati somari’.
A me la dichiarazione d’intenti di Gadda potrebbe star bene, e anzi dico francamente che mi piace, però trovo che il romanzo non sia all’altezza dell’intenzione dell’autore, nemmeno nelle scene più notevoli. La descrizione, fatta con un espressivo tono isterico, delle ville villone e villette di cui è cosparso il territorio dove si svolge l’azione del romanzo, fotografa alla perfezione anche la condizione attuale (quasi un secolo dopo) dei luoghi di villeggiatura italiani, devastati da una edilizia selvaggia animata da ricchi e riccastri. “Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchón – orto, frutteto, garage, portineria, tennis, acqua potabile... esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mezzogiorno, o mezzogiorno-ponente... di ville! di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, <digradano dolcemente>: alle miti bacinelle dei loro laghi... Tutto, tutto! era passato pel capo degli architetti pastrufaziani, salvo forse i connotati del Buon Gusto”. E l’atto d'accusa continua in modo abbastanza divertente. Altra feroce invettiva è contro la ‘sarabanda famelica’ che percorre tutta la vita sociale e economica del paese. “Masse d’uomini e di femmine! con distinguibile galleggiamento di parrucchieri di lusso, tenitrici di case pubbliche, fabbricanti di accessori per motociclette e coccarde... E poi ancora femmine, femmine... femmine! come barchi di cabotaggio rimessi a nuovo, stradipinte, col riso delle bassaridi aperto su trentadue denti fino agli orecchi... i salumai grassi, come baffuti topi, insaccatori di topi; torreggianti sul loro marmo alto... i macellai scimitarra... elettrotecnici miopi come carciofi... droghieri brachischelici [dalle gambe corte] dalle brache piene di saccarina contrabbandata; ingegneri cornuti, medici delle budella, e dei rognoni... ladri, gasisti, ruffiane asmatiche... Questo mare senza requie sciabordava contro l’approdo di demenza, si abbatteva alle dementi riviere offrendo la sua perenne schiuma, ribevendosi la sua turpe risacca”. Nonostante lo sdegno sincero e quest’ultima descrizione quasi dantesca, tutta l’invettiva sembra un po’ troppo facile e generica. C’è troppa carne al fuoco che brucia un po’ a casaccio. Non mi aspetto le distinzioni di un trattato di sociologia, ma una condanna così indistinta, a parte le asprezze sonore, lascia il tempo che trova. Non mi pare che sia migliore l’ironica descrizione del compiacimento con cui della gente seria, attavolata nei restaurant delle stazioni, ordinava con perfetta serietà ‘un ossobuco con risotto’. “Gli uni si compiacevano della presenza degli altri, desiderata platea. E a nessuno veniva fatto di pensare, sogguardando il vicino, ‘quanto è fesso!’ ". A parte il fatto che questa descrizione, anche con i particolari che l’arricchiscono, è poco icastica, non accade di frequente che nessuno guardi con ‘spirito critico’ i propri vicini di tavolo. L’esperienza quotidiana ci dice che si guarda agli altri cercando sempre, o quasi sempre, il punto debole di ciascuno. Ancora più banale è la lunga e dettagliata descrizione di come questi signori elegantoni estraggono una sigaretta dal portasigarette d’argento e l’accendono. “... aspiravano la prima boccata di quel fumo d’eccezione, di Xanthia, o di Turmac, in una voluttà da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco stitico”. Sembra il copione per un attore di cabaret, qual era, per esempio, Carlo Dapporto.
Sarebbe necessario discutere ogni periodo,
ogni frase e quasi ogni parola del romanzo per giudicare: qui è sincero, qui è
forzato, qui è banale, qui è poetico. Benché non mi sia piaciuto, benché abbia terminato la lettura
soprattutto perché stupito dell’entusiasmo generico di critici e lettori, penso
che il romanzo, al di là del suo cerebralismo linguistico, sia espressione di
un dolore autentico, sia quando l'autore evoca ricordi di scuola del protagonista o descrive accoratamente
la mamma, sia quando rappresenta, con una certa voluttà sadica, personaggi,
situazioni, animali e persino se stesso, nella figura di don
Gonzalo.
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