giovedì 27 giugno 2024

Giovanni Verga (1840-1922). Mastro-don Gesualdo. Mondadori, 1963



 

Nella letteratura italiana non conosco un altro romanzo simile a ‘Mastro-don Gesualdo’, amaro e sarcastico fino al limite del caricaturale, aspro e asciutto, eppure pieno di pathos e di delicatezza. Sembra impossibile che dal ‘paese del pressappoco’, che non ha avuto inizio né col fascismo né, nel secondo dopoguerra, con la Democrazia cristiana e il Partito comunista, ma ha origini lontane, ben anteriori all’Unità nazionale, sia uscita un’opera così pessimista nel rappresentare la condizione umana, così acuta e profetica nel descrivere il cuore del nostro paese, così polemica ed estranea a tutte le istituzioni. Viene spontaneo accostare la sua cupa intensità all’atmosfera di qualche romanzo russo del XIX secolo. Verga, è stato scritto, anche all’apice della sua gloria è rimasto un isolato: ammirato senza slancio, celebrato senza seguaci. L’Italia, la vasta e trionfante Italia della retorica, è stata così avversa a una visione disincantata del mondo, che ha dimenticato anche Federico De Roberto, l’altro grande scrittore idealmente congiunto a Verga. Lo stesso Luigi Russo, che pure è stato l’interprete più empatico della poesia verghiana, tanto che le sue parafrasi critiche hanno di per sé valore artistico, non ha capito la forza antagonistica e la critica dissolvente dei romanzi del Verga e si è arrampicato sugli specchi per scoprire in lui e negli altri scrittori veristi una adesione convinta al mito risorgimentale e progressista. Infatti ha scritto nel suo saggio su Verga: “Gli scrittori provinciali scoprivano la loro più vera patria nella provincia [...] non già per reazione all’unitarismo politico trionfante, ma per la collaborazione più intima a quel movimento unitario, che non poteva e non doveva appagarsi di un livellamento giacobino delle varie regioni, ma che meglio si attuava là dove l’individualità delle regioni fosse più scoperta e consapevole”. Parole vacue e concetti stiracchiati, di cui Natalino Sapegno ha fatto giustizia: “In Italia il verismo doveva proporsi come il frutto più maturo, in letteratura, del ripiegamento riflessivo che tenne dietro al moto del Risorgimento, nell’ora in cui si rendevano chiare agli occhi di molti le insufficienze della rivoluzione testé compiuta, il parziale fallimento delle speranze vagheggiate, l’instabile equilibrio dell’unità raggiunta con mezzi in gran parte esterni, provvisori, effimeri; la sopravvivenza, sotto la vernice della democrazia e della libertà, di una struttura politica essenzialmente burocratica e poliziesca… ” (Ritratto di Manzoni ed altri saggi). Russo, che prima aveva arruolato Verga fra i sostenitori del movimento risorgimentale, lo definisce poi, nell'edizione commentata di ‘Mastro-don Gesualdo’, come un agnostico perfetto, “indifferente al colore politico e storico di cotesti avvenimenti” (le rivoluzioni del 1821 e del 1848). E ogni volta che Verga descrive la diffidenza del suo eroe verso i medici e li rappresenta in modo caricaturale (“Arrivavano, guardavano, tastavano”; “Essi gli badavano appena. Volgevano solo qualche occhiata distratta sull’ammalato”; “Parlavan sottovoce fra di loro, voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una parola di vita o di morte”), Russo interviene per definire ‘contadinesca’ questa diffidenza, e nemica della scienza. Russo è attento soprattutto ai valori estetici, e per lui anche lo scetticismo e l’ignoranza di Gesualdo diventano, in qualche momento, ‘una forma di ingenua poesia’. Ma è troppo facile parlare della poesia dei ‘primitivi’, ignorando il fatto che a volte essi sono molto più lungimiranti dei dotti civilizzati. Un ex generale dell'esercito di Mussolini ricorda nelle sue memorie la frase di un contadino abruzzese: "Sta guerra s'ha da fa' e  s'ha da perde". Da sempre i medici (e i loro compari avvocati) sono oggetto di critica e di sarcasmo. Ma oggi che tutte le tendenze politiche e sociali lentamente maturate nel corso di decenni e di secoli (il liberalismo, la democrazia parlamentare, il comunismo) sono arrivate, per così dire, a scoppiare, rivelando in modo inequivocabile il veleno che nascondevano, e tutte le caste che una volta erano in germe hanno conquistato un potere inaudito, la classe medica, specialmente dopo la pandemia del Covid 19, ha perso tutta la sua credibilità, che ai dotti sembrava indiscutibile, ed è più compromessa che mai, e la satira del primitivo Verga appare, semmai, incompleta e fin troppo mite. Ma l'atteggiamento politico di Verga non è del tutto negativo e rinunciatario. Egli non ha fiducia nella lotta delle masse, che non agiscono in modo concorde ed efficace e sono infiltrate da profittatori e da signorotti che si fingono rivoluzionari per salvare il patrimonio. All'inizio della rivoluzione, descrive con ironia le dimostrazioni che i villani fanno nella piazza del paese aspettando che cada la manna dal campanile imbandierato. I più facinorosi, dopo qualche giorno, partono per la città in cerca di fortuna "con bandiere e trombette". Verga, però, ha fiducia nel singolo villano, e quando si parla di distribuire le terre comunali ai contadini poveri, fa dire a un nobilotto locale che, se la terra verrà data ai contadini, poi non gliela potranno più togliere, perché il contadino nella terra ci mette il sangue e ci lascia le ossa.

 


Nessun commento: