giovedì 23 maggio 2024

William Bruce Lincoln (1938-2000). I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa. Mondadori, 2018


 Per fortuna non è vero che dall’America ci vengono solo la gomma da masticare, la Coca Cola, gli immangiabili panini di McDonald’s e valanghe di film spazzatura. Dall’America vengono anche degli ottimi libri, che però trovano la loro qualità nel fatto di essere estranei, critici o ostili alla politica e allo stile di vita di quel paese. Ricordo “La cultura delle città” di Lewis Mumford, “I colletti bianchi” di Charles Wright Mills, “I persuasori occulti” di Vance Packard, “La lobby israeliana” di John Mearsheimer e Stephen Walt, “Olocausto americano” di David Stannard... Non è un caso che anche il grande pittore Edward Hopper dia nei suoi quadri una rappresentazione critica e amara della vita americana.

E’ in questo filone culturale che io iscrivo il libro  di W. Bruce Lincoln, anche se tratta solo di storia russa. Lo considero un’opera classica: ampia, equilibrata, documentata, ben costruita e scritta con la serietà e l’impegno di un narratore appassionato. Nel libro non ci sono stereotipi né faziosità né enfatico sentimentalismo, atteggiamenti così americani. E’ una storia tutta di fatti. Anche quando l’autore parla di ideali e di sentimenti, questi sono descritti in modo concreto, legati, cioè, a circostanze reali e materiali. I personaggi che si muovono sulla scena sono tanti; di molti di essi Bruce Lincoln descrive la personalità in modo sempre acuto, sensibile e obiettivo. I giudizi sui personaggi maggiori (Trockij, Stalin, Lenin, ecc.) ricalcano naturalmente quelli già espressi dai maggiori storici e memorialisti del XX secolo e ormai comprovati dai fatti; non potrebbe, però, essere diversamente, in assenza di nuove improbabili scoperte. Quei giudizi, tuttavia, non sono passivamente copiati dalle opere di studiosi precedenti, ma sono qui rivissuti in un racconto incalzante e drammatico.

Ancora una volta mi sono confermato in questa convinzione: che il comunismo bolscevico, dopo essere andato al potere sull’onda di immense speranze popolari di terra, pace, libertà, lavoro, ha tradito tutte quelle speranze, ben prima dell’avvento di Stalin, quando era ancora guidato da Lenin, non per opportunismo (come ha fatto recentemente, nel suo piccolo, il Movimento 5 Stelle in Italia), ma perché voleva affermare in modo esclusivo e intollerante il proprio potere e realizzare fanaticamente un programma rigido e astratto. Opprimere il popolo per il bene del popolo è un programma che, benché disumano, è stato realmente praticato (e all’inizio persino con sincerità). Nel 1923 Lenin, già gravemente malato, lamentava nel suo ultimo articolo la crescita smisurata della burocrazia, delle lungaggini e della corruzione, e muoveva critiche a Stalin per la sua incapacità a porvi rimedio. Quello di Lenin, mi sembra, fu più un estremo tentativo del tutto velleitario, che non un atto di vera comprensione, che avrebbe comportato, invece, un severo esame di coscienza. E’ chiaro, infatti, che un gigantesco programma di ricostruzione di un immenso paese come la Russia, tutto astratto, rigido e elaborato dall’alto senza spirito democratico e capacità di adattamento, aveva inevitabilmente bisogno, per essere attuato, di una burocrazia che regolamentasse anche le minuzie più insignificanti della vita economica e sociale. Una burocrazia così labirintica e soffocante non poteva non logorare le buone qualità dei suoi membri più onesti e diventare subito un accogliente paradiso per opportunisti e avventurieri senza pietà.

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