mercoledì 12 luglio 2023

Qualche volta anche Arthur Schopenhauer dice degli spropositi



Leggo con attenzione affettuosa le opere di Schopenhauer, anche se non in modo organico, ma aprendo i suoi libri piuttosto a caso, come capita con la Bibbia. Ammiro la chiarezza dello stile e la passione con cui esprime le sue idee. Arrivato al capitolo “Dell’etica” (nei Supplementi al quarto libro del “Mondo come volontà e rappresentazione”), ho trovato una pagina che mi  ha dato, però, una delusione dolorosa.

Schopenhauer scrive: “Il diritto di proprietà deriva, secondo la mia esposizione, esclusivamente dal lavoro applicato alle cose”.  E chiarisce subito il suo pensiero: "La proprietà è il frutto del lavoro, è per così dire solo lavoro incarnato [...] Il diritto di proprietà può fondarsi soltanto sul lavoro applicato alle cose, giacché è solo a questo titolo che esso trova un sincero riconoscimento e si fa valere moralmente". Sembra un ragionamento sensato, tuttavia Schopenhauer, per dare valore alla sua concezione, è andato a scovare una prova che, secondo me, proietta un’ombra nera sul suo pensiero.

“Questa verità trova una significativa conferma nell’essere stata difesa, perfino dal punto di vista pratico, in una dichiarazione dell’ex-presidente nordamericano Quincy Adams [Quarterly Review, 1840, n. 130]. Voglio presentarla qui in traduzione: 'Alcuni moralisti hanno messo in dubbio il diritto degli europei di stabilirsi nei territori abitati dalle popolazioni americane indigene. Ma hanno soppesato bene la questione? Per quanto riguarda la maggior parte del paese, il diritto di proprietà degli indiani stessi riposa su una base dubbia. Il diritto naturale, indubbiamente, garantirebbe loro i campi, da essi coltivati, le loro abitazioni, del terreno sufficiente per il loro sostentamento e tutto ciò che, in più, il lavoro personale avesse procurato a ciascuno di loro. Ma quale diritto ha il cacciatore sui vasti boschi, che ha attraversato per caso, correndo dietro alla preda?'.

Sembrerebbe, dunque, dalle parole di questo presidente, che solo la proprietà dei vasti boschi attraversati per caso [l'espressione 'per caso' è una perla d'ipocrisia] a caccia di selvaggina potesse essere contestata ai  nativi nordamericani. Ma i coloni americani non si sono fermati davanti a niente: si sono appropriati dei boschi attraversati per caso, di tutte le terre e anche delle vite dei nativi.

E’ utile riportare qui un breve elenco, tratto da Wikipedia, una fonte d'informazione impersonale e americanizzante, dei sistemi con cui i coloni hanno eliminato i nativi americani.

Metodi e cause dello sterminio.

Pulizia etnica e spostamento dalle loro terre.

Distruzione dell’habitat.

Caccia intensiva ai bisonti, fonte di sostentamento dei nativi del Nord America.

Riduzione in schiavitù e sterminio attraverso il lavoro.

Strage volontaria.

Provocare ad arte scontri fra tribù ed etnìe.

Malattie nuove diffuse accidentalmente (contro cui i nativi non avevano anticorpi).

Diffusione volontaria del vaiolo come arma biologica, regalando agli indiani coperte e cuscini infetti e offrendo loro banchetti con cibo contaminato. Sterilizzazione forzata o attuata con l'inganno.

Atti di provocazione, sacrilegio e oltraggio, anche violenti, contro membri della tribù, per suscitare una reazione degli indiani, da reprimere poi con violenza perché “barbari e selvaggi”.

Guerre aperte, con l’uso delle tecnologie più moderne, come le mitragliatrici.

Omicidi mirati di capi carismatici e uccisioni deliberate di bambini indiani catturati.

Diffusione deliberata dell’alcolismo e droghe tra i nativi.

Marce forzate di trasferimento attuate con la neve e il freddo.

All’avidità e alla viltà dei presidenti americani siamo ormai  abituati. Mi meraviglia, però, che Schopenhauer abbia potuto dar credito, per trovare una fragile conferma alla propria idea, all'ipocrita e abietto ragionamento del presidente Quincy Adams. Quando Schopenhauer scriveva, il genocidio degli indiani non si era ancora del tutto consumato, ma, dopo tre secoli e mezzo dal suo inizio, era in fase molto avanzata e, direi, terminale. Schopenhauer aveva letto Montaigne. Non era rimasto colpito dalla descrizione rispettosa e ammirativa che lo scrittore francese aveva fatto della vita dei ‘selvaggi’?  

Come ha potuto Schopenhauer considerare che i territori di caccia degli indiani, frequentati e abitati da secoli, non fossero di loro proprietà e che essi non vi avessero alcun diritto 'morale'? Il filosofo tedesco scrive: "Poiché la cacciagione non è suscettibile di lavoro e quindi nemmeno di proprietà moralmente valida, il diritto su di essa è, in tutto e per tutto, positivo e non gli viene riconosciuto un valore morale". Immagino che 'positivo' voglia dire pratico, effettuale, e quindi contestabile in via di principio. Ma per rimanere alla lettera di questo ragionamento, come può Schopenhauer escludere che su quelle terre libere e su quella selvaggina, gli indiani avessero esercitato una attività di controllo, di ‘manutenzione’ e di regolazione per assicurarsi che restassero il più a lungo possibile fonte di vita e di sostentamento? E il legame secolare degli indiani con il loro territorio e con gli animali di cui si servivano per poter sopravvivere non dà al pellerossa cacciatore un carattere ben diverso da quello del bracconiere europeo, che è la figura portata ad esempio da Schopenhauer per costruire il suo ragionamento sulla "cacciagione non suscettibile di lavoro"? Il legame del bracconiere con gli animali è sporadico e strettamente utilitaristico, quello del pellerossa, invece,  è vitale, rispettoso e religioso. Questo non dà all'indiano quel diritto morale che il filosofo, sulla scia di Quincy Adams, gli nega?

 Il concetto di Schopenhauer, che il diritto di proprietà deriva dal lavoro applicato alle cose, non può essere usato per risolvere il (falso) problema se i territori americani appartenessero moralmente ai nativi o agli invasori europei.  Aver applicato il suo principio a questo (falso) problema ha portato Schopenhauer a giustificare il furto delle  terre indiane e, in fin dei conti, l'eliminazione fisica dei nativi.

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Siccome nella lettura procedo come un gambero, scopro in ritardo che la riflessione di Schopenhauer sul diritto di proprietà era già cominciata venticinque anni prima (libro quarto del "Mondo", paragrafo 62). “Ogni diritto vero, ogni diritto morale di proprietà è fondato in origine unicamente sul lavoro”. E Schopenhauer critica Kant, che avrebbe commesso l’errore di considerare diritto di proprietà il diritto del primo occupante. Sembrerebbe logico dedurre, da queste affermazioni, che anche qui, nel "Mondo come volontà e rappresentazione", ai nativi americani, che erano formalmente i primi occupanti, non fosse sufficiente, secondo Schopenhauer, invocare questo titolo  per rivendicare il diritto di proprietà dei loro territori. Ma probabilmente qui Schopenhauer non pensava affatto ai nativi americani. Infatti si dilunga a spiegare in che cosa potrebbe consistere quel lavoro che, applicato alle cose, costituisce un titolo di proprietà; e nei lavori che descrive rientrano perfettamente le normali attività quotidiane dei pellerossa. “Quando una cosa viene, mediante una qualche fatica altrui, per piccola che questa sia, lavorata, migliorata, protetta contro ogni evenienza, conservata, e si riducesse anche, questa fatica, a cogliere da un ramo o a raccogliere dal suolo un frutto inselvatichito, allora chi tenta di impadronirsi di quella cosa, toglie evidentemente all’altro il frutto del suo lavoro”. Questa riflessione sembra riconoscere implicitamente il diritto di proprietà degli indiani, anche se non li nomina. Perciò mi sembra davvero strano che Schopenhauer abbia potuto, molti anni dopo, accettare come fondata la sporca dichiarazione del presidente Quincy Adams. Forse, a distanza di tanto tempo dalla prima edizione del suo libro, c'è stata una involuzione nel suo pensiero.

Voglio aggiungere qualche altra considerazione. La ‘prima occupazione’, da sola, senza aggiungere lavoro, non darebbe, dunque, diritto di proprietà, come afferma Schopenhauer. Ma ciò non può valere per i nativi americani, che non erano semplicemente i ‘primi occupanti’, ma gli abitanti da sempre di quelle terre. Il concetto del filosofo tedesco può valere solo per individui che stiano sullo stesso piano, abbiano la stessa origine e le stesse motivazioni morali e appartengano alla stessa, diciamo, categoria sociale. Per esempio: due tribù indiane rivali, oppure due gruppi di coloni in un territorio inesplorato e disabitato. Il gruppo che arriva per primo non può dichiararsene possessore solo per il fatto di essere arrivato prima. Infatti "non dà alcun diritto su una cosa il suo semplice uso, quando non la si lavori per migliorarla e per impedirne la distruzione; come non ne conferisce una semplice dichiarazione verbale di proprietà esclusiva". Lo Schopenhauer che pubblica il 'Mondo' a trent'anni sembra più favorevole ai nativi americani dello Schopenhauer quasi sessantenne dei Supplementi.

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Nel 1839, scrivendo il saggio "Sul fondamento della morale", Schopenhauer fa un accenno interessante agli indiani d'America (paragrafo 19). Scrive: "Dovremmo riconoscere che l'influsso di tutte le religioni sulla moralità è molto esiguo"; e poi, pur ammettendo che la morale del cristianesimo è molto più alta di quella delle altre religioni, fa un lungo elenco di crudeltà disumane che hanno accompagnato il cristianesimo. Tra queste, "lo sterminio di una gran parte della popolazione indigena americana".



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