Silvana De Mari, nel suo sconcertante articolo sull'orsa che ha ucciso Andrea Papi, fa una lunga e 'poetica' introduzione per parlare del destino spezzato di questo giovane, "uomo sano che correva nei boschi, respirando l'aria piena di essenze, sentendo scricchiolii, cinguettii, ascoltando il vento tra gli alberi". Parla anche diffusamente del dolore dei genitori, che "forse stanno riordinando le pagelle delle elementari" e "stampando tutte le foto che sono sui cellulari per poterle toccare". Queste considerazioni potranno, forse, anche venire in mente quando si riflette sulla pietosa sorte del povero Andrea Papi, ma a me sembra che la De Mari le faccia, così sdolcinate e fredde, con lo stesso spirito calcolatore di un pubblico ministero che vuol far risaltare la feroce crudeltà dell'accusato. De Mari fa addirittura un cavilloso ragionamento sulla dinamica dell'uccisione, quasi come per dire che l'orsa non è colpevole di omicidio preterintenzionale ma premeditato. La De Mari ama i toni forti e le parole crude: "morto sbranato", "sventrato dallo sterno in giù mentre era ancora vivo". Lei si esprime sempre con questo tono fanatico ed eccessivo e, direi, impietoso (me ne accorsi leggendo un suo articolo sui palestinesi), con ragionamenti tagliati con l'accetta.
Tirare in ballo ora anche l'utero in affitto, per affermare che chi difende la vita dell'orsa perché mamma di tre cuccioli, approva poi tranquillamente la compravendita di neonati, è un basso e inqualificabile espediente retorico. Come se non si potesse, in modo del tutto naturale e spontaneo, difendere la vita dell'orsa, combattere l'utero in affitto e provare nello stesso tempo un sentimento di sincera pietà, senza sdolcinatezze retoriche, per il povero Andrea Papi.
"Tra i doveri di uno Stato c'è quello di garantire che le strade siano prive di bestie feroci", scrive De Mari, che evidentemente riduce la questione a un problema amministrativo, con un atteggiamento degno di un bottegaio. Ma il problema che si pone in questo caso è un po' più grande e riguarda il nostro rapporto con gli animali e in generale con la natura.
La De Mari scrive con esasperazione e quasi con rabbia: "La vita degli animali vale più di quella degli uomini perché gli uomini non valgono nulla". Eppure, nel suo articolo, lei parla con animo rapito del cinguettio degli uccelli. Ha forse una doppia personalità oppure parla a vanvera? E continua: "Sono stati i film della Disney che umanizzando gli animali hanno inevitabilmente disumanizzato l'uomo". Ma non è per niente vero. E le favole di Esopo e di Fedro? E i racconti di La Fontaine e degli altri scrittori di favole, fino alla Fattoria degli animali di Orwell? Quelle vicende di animali sono lo specchio della vita degli uomini. Nelle parole della De Mari c'è il disprezzo per gli animali che Schopenhauer trovava nella Bibbia e che rimproverava al cristianesimo.
La vita del nostro gatto non è importante quanto quella del nostro bambino, come crede la De Mari, che per scherno (rivelando una buona dose di cattivo gusto) aggiunge che allora dovremmo amare anche gli eventuali pidocchi sulla sua testolina. Ma gli animali sono degli esseri da rispettare, da cui potremmo almeno imparare la pazienza e il senso della misura; sono dei collaboratori da non sfruttare senza pietà, delle creature che dovrebbero esserci care perché, anche quando non possono essere amici dell'uomo, contribuiscono alla varietà e alla bellezza del mondo, che appartiene anche a loro.
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