Continuo a leggere Dostoevskij
perché ho degli scrupoli. Mi dispiace definire insopportabile uno scrittore che
ammiro (Memorie da una casa di morti) e per il quale ho simpatia (Il sogno
dello zio, Umiliati e offesi). Sono più che sicuro di essermi terribilmente
annoiato a leggere ‘L’idiota‘, ma voglio tentare di dare un giudizio più ampio
sulla sua opera.
‘Il villaggio di Stepàncikovo e i
suoi abitanti‘ fu pubblicato nel 1859. É un breve romanzo della prima maniera,
anteriore ai romanzi più complessi e significativi. La sua prosa asciutta e
leggera non sembra essere uscita dalla penna tormentata del Dostoevskij maturo.
E‘ un bel romanzo tradizionale, in linea con la grande narrativa russa
dell’Ottocento. Le descrizioni fisiche e psicologiche dei personaggi sono dei ritratti
magistrali, ci sono descrizioni di paesaggio, situazioni comiche, dialoghi
freschi e spontanei. Anche gli sproloqui ipocriti e retorici del protagonista,
Fomà Fomič, sono naturali e nascono in modo spontaneo. Mancano del tutto, per
fortuna, quegli improvvisi e incomprensibili scoppi di risa così
numerosi ne L’idiota (semmai qui, nel Villaggio di Stepàncikovo, da un certo
momento in poi, quando ci si avvia alla conclusione, si piange un po‘ troppo,
con entusiasmo e commozione).
Il
colonnello Jegòr Il'ìč, proprietario di Stepančikovo, subisce la tirannia
di Fomà Fomìč Opiskin, che vive in casa sua da parassita. Costui era un servo
del generale Krachòtkin, patrigno del colonnello. Morto il generale, Fomà Fomič
diventa il pupillo della vedova. I due si trasferiscono, assieme a una corte di
donne, a Stepàncikovo, in casa di Jegòr
Il’ič, figlio della generalessa. Fomà, che si spaccia per una sorta di mistico
erudito, soggioga completamente non solo il padrone di casa e la sua anziana
madre, ma anche le dame di compagnia della generalessa e l'intera servitù. Dopo varie vicissitudini piene di tensione e di scontri anche umoristici,
si instaura una armonia perfetta fra Fomà, che sarà servito e riverito nella
casa padronale fino alla morte, e tutti gli altri personaggi. Il despota Fomà
continua a vivere da parassita onorato e venerato da tutti, mentre il padrone
di casa può finalmente sposare, con l’indispensabile consenso di Fomà, la bella
e povera ragazza di cui è innamorato.
“Io
vi unisco e vi benedico, proferisce il santone con la voce più solenne, e se la
benedizione di un martire accasciato dal dolore può esservi utile, siate felici”.
E’
chiaro, però, che il lieto fine è solo apparente, perché Fomà continua a vivere
da parassita, nell’agiatezza e circondato dal rispetto e dalla venerazione di
tutta la casa, per altri sette anni. Alla sua morte, riposerà in una tomba
accanto alla generalessa; sopra di lui sorgerà un prezioso monumento di marmo
bianco, tutto screziato da motti funebri e da epigrafi apologetiche. Che il
lieto fine sia fondato su degli equivoci e su convinzioni false, lo testimoniano
le osservazioni del narratore della storia, nipote del colonnello padrone di
casa, il quale guarda tutta la vicenda
dall’esterno con lucidità e disincanto, senza condividere la venerazione
generale per Fomà Fomič, che considera anzi un imbroglione e un mascalzone.
Qualche
lettore ha trovato che il protagonista del romanzo abbia delle somiglianze con
Grigorij Rasputin (1869-1916), il fosco personaggio che fu l’eminenza grigia
dell’ultima zarina. Io penso invece che Fomà Fomič abbia piuttosto i tratti
caratteriali di Stalin e che nell’intera vicenda, pur nelle dimensioni minime
di un villaggio, ci siano gli elementi fondamentali della tragedia che si
abbatterà sulla Russia nel corso del Novecento.
Dostoevskij
presenta così il suo personaggio: “Immaginatevi il più insignificante, il più
pusillo degli uomini, un rifiuto della società, non necessario ad alcuno, del
tutto inutile, del tutto ripugnante, ma di un amor proprio smisurato e, per
giunta, senza la minima dote con cui possa giustificare il suo amor proprio
morbosamente irritabile [...] un amor proprio speciale, e precisamente quello
che si accompagna alla più completa nullità [...] un amor proprio offeso,
schiacciato dai duri insuccessi precedenti, venuto a suppurazione da un pezzo,
e da allora schizzante invidia e veleno ad ogni nuovo incontro, ad ogni
riuscita altrui [...] tutto questo condito dalla più mostruosa permalosità,
dalla più pazzesca diffidenza”. Chi ha letto le pagine che Lev Trockij dedicò
alla descrizione della personalità di Stalin, troverà delle straordinarie
somiglianze con il protagonista di questo romanzo. Le frasi che seguono sono di
Dostoevskij, ma potrebbero essere di Trockij: “Fomà Fomič era stato amareggiato
fin dal primo passo letterario e si era già allora definitivamente unito a
quell’enorme falange di delusi da cui escono poi tutti gli stravaganti, tutti i
vagabondi e i randagi. Dallo stesso tempo si sviluppò in lui quella mostruosa
vanità, quella sete di elogi e di distinzioni, d’inchini e di ammirazione.
Anche quando non era nessuno, egli s’era formato un gruppetto di idioti che lo
veneravano”. Egli si presenta alla comunità della casa e del villaggio come un
uomo che ha a cuore esclusivamente i grandi valori della moralità e della
nobiltà d’animo, che disprezza i beni materiali e il denaro e che, se impone
agli altri la propria volontà e i propri capricci, lo fa per il loro bene. Come
un profeta, proclama: “Io sono stato mandato da Dio in persona, per smascherare
il mondo in tutte le sue turpitudini”. Lui, inetto e senza mestiere, falso uomo
di lettere che sa scrivere solo “insigne robaccia”, pretende che il colonnello,
nella cui casa vive da parassita, lo chiami “Vostra Eccellenza”, come un
generale. “Sapete voi che mi avete oltraggiato, che mi avete disonorato col
vostro rifiuto di dirmi ‘Vostra Eccellenza’? mi avete disonorato in quanto, non
avendo compreso i miei motivi, mi avete fatto fare la figura di un imbecille
capriccioso [...] io che disprezzo tutti questi gradi e onori terreni, nulli
per se stessi, se non ricevono luce dalla virtù. Per un milione non accetterei
il grado di generale senza la virtù [...] Unicamente per illuminare il vostro
spirito, sviluppare la vostra moralità e spandere su di voi i raggi delle nuove
idee, mi son deciso a pretendere da voi il titolo di generale. Volevo
precisamente che per l’avvenire non consideraste più i generali come gli astri
più alti che ci siano sul globo terrestre”.
Ma il carattere di Fomà Fomič e il culto della propria personalità che egli promuove non sono gli unici elementi che fanno pensare alla Russia di Stalin. Dostoevskij, scavando nel cuore del popolo russo, trova un altro grande carattere, quello del colonnello, che è un elemento di forza e di debolezza della società. Jegòr Iljič infatti è un idealista pieno di bontà ma fragile, che accetta tutte le accuse rivoltegli e si pente di peccati mai commessi. Fino alla fine, il colonnello penserà di Fomà che, certo, “è bisbetico, capriccioso, ma quando è in gioco la suprema nobiltà morale, allora sì, che risplende come una perla”. Fomà, presentandosi alla comunità come l’unico uomo preoccupato del sommo bene, l’unico capace di “colmare di nobiltà d’animo” gli abitanti della casa e del villaggio, riesce a farli sentire tutti colpevoli, tutti indegni, a cominciare dal colonnello proprietario. Costui, sentendosi sinceramente colpevole e indegno, rimane sempre grato a Fomà per i suoi rimproveri, che accetta con umiltà allo scopo di migliorarsi. E pensare che il colonnello era, invece, un uomo buono all’eccesso, di raffinata delicatezza, di altissima nobiltà, di sperimentato coraggio; uno di quegli uomini che vivono in un mondo ideale, sempre pronti a sacrificarsi per gli altri e, negli insuccessi, ad accusare prima di tutto se stessi.
Fomà, nel suo delirio di onnipotenza, rimprovera il colonnello per colpe inesistenti con un tono da inquisitore degno del famoso procuratore di Stalin, Andrej Vyšinskij, che riuscì a far confessare a Kamenev e Zinoviev delitti inesistenti. “Già da lungo tempo, dice Fomà, io vi osservavo, vi osservavo con l’angoscia nel cuore, e vedevo tutto, quando voi non sospettavate nemmeno che io vi osservassi. Colonnello! Io forse m’ingannavo, ma io conoscevo il vostro egoismo, il vostro sconfinato amor proprio, la vostra fenomenale sensualità, e chi mi accuserà, se involontariamente ho trepidato per l’onore della più innocente fra le persone?” (Nàsten’ka, la ragazza amata dal colonnello, che Fomà poco prima aveva insultata, definendola corrotta e perduta)
La
conclusione è di una drammatica comicità. Fomà finge di voler abbandonare la
casa del colonnello per farsi pellegrino. “Figli miei, figli del mio cuore.
Vivete, prosperate e ricordatevi qualche volta del povero esule [...] Forse,
attraverso le mie sventure, diverrò ancora più virtuoso!”. Tutti i presenti lo
scongiurano di restare, e Fomà, dopo un altro torrente di retorica, esclama:
“Figli miei, abbracciatemi, io rimango!”.
Gli
abitanti del villaggio non sono tutti abbagliati da questo santone opportunista. Quando il
colonnello vuole donare a Fomà un podere con sessanta anime, i contadini vanno
a supplicarlo di non farlo, perché essi vogliono solo lui, il colonnello, come
padrone. Nemmeno i santoni ispirati da Dio e dal supremo bene riescono a ingannare il popolo intero. E infine, per noi lettori, c’è l’occhio critico
del narratore, che, guardando dall’esterno, ci fa capire che tutta la vicenda ha il carattere di una farsa, però reale e drammatica.
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