domenica 2 aprile 2023

Fjodor Dostoevskij. Il giocatore. Arnoldo Mondadori editore, 1951


Nonostante l'unanime coro di lodi che lo circonda,  continuo a pensare che Dostoevskij sia uno scrittore noioso e che la sua decantata profondità sia in buona parte artificiosa. Su Facebook è attiva una comunità di lettori innamorati dell’autore dei Fratelli Karamazov ("Dostoevskij: nessuno come lui"), i quali non fanno altro che incoraggiarsi e infiammarsi l’un l’altro citando pensieri, anche comuni o peregrini, dello scrittore russo, come se fossero formule magiche. I loro interventi, lungi dall‘essere giudizi ponderati, sono solo entusiastici atti di fede.

Divagando un po‘ dall’argomento principale, osservo che negli  atteggiamenti fanatici di questi lettori si può trovare una discreta conferma dell'opinione che la letteratura può essere non solo una illuminazione di verità, ma anche, molto più spesso, un alimento con effetti tossici, che favorisce nei lettori una condizione di morbosità e di confusione. La letteratura (ma a maggior ragione la cultura) è come l’acqua per le piante: in sé è buona, ma essa ha solo la funzione di sviluppare le qualità del seme. Se cade su una pianta di ortica, non farà sbocciare una rosa. Se un uomo mediocre arriva ai livelli alti della cultura, non diventerà per questo un intellettuale eminente, ma solo un burocrate ottuso. "Uno sciocco sapiente è più sciocco di uno sciocco ignorante", ha scritto Molière (Un sot savant est plus sot qu'un sot ignorant). Una gran massa di lettori qualificati può trarre, dunque, una lezione morbosa e falsa dai grandi scrittori, i quali, senza averne alcuna colpa, vengono coinvolti, come testimoni o padrini, nella vita culturalmente incerta e torbida dei loro lettori.

I giudizi che il filosofo Remo Cantoni (1914-1978) dà nella sua introduzione a ‘Il giocatore‘ sono per me incomprensibili: “ariosissimo e frizzante racconto“, “magnifico romanzo d’intrigo“, “breve e splendido romanzo“. Sul fatto che qualche lettore possa trovarlo magnifico e splendido, c’è poco da dire (de gustibus…). Sulla sua frizzantezza, ho delle riserve. Che sia, poi, anche un racconto arioso, lo nego assolutamente: trovo invece l’atmosfera del romanzo, come di solito in Dostoevskij, piuttosto chiusa, cerebrale e spesso soffocante. La frizzantezza è assicurata al racconto dall’arrivo inaspettato della ricca nonna, la babúlinka, di cui tutti aspettavano con ansia la morte e l’eredità. Questa nonna è vivace, autoritaria e senza riguardi per nessuno, brusca e sincera fino a sembrare quasi caricaturale. Parla e agisce in modo che fa pensare alla grande caratterista napoletana Tina Pica (1884-1968); e anche questo dimostra, mi sembra, che è un personaggio vivo e vero. Poi, però, quando la nonna, senza alcun motivo, si mette a giocare con accanimento al tavolo della roulette del Casinò cittadino, perde, a mio parere, la sua verità e diventa un personaggio artificioso.

Le situazioni umoristiche e leggere del romanzo a me sembrano quasi tutte piuttosto meccaniche, ispirate come sono, con tutta evidenza, a Gogol.

Alekséj Ivànovic, il protagonista, non è antipatico; mi pare che abbia consistenza, che il suo amore per Polina sia credibile e vero. É un personaggio autentico anche quando dice alla ragazza: “Ebbene, sì, sì, per me esservi schiavo è una voluttà. C’è una voluttà nell’estremo grado dell’umiliazione e dell‘avvilimento!“. E le confessa le sue segrete pulsioni: “Sapete che un giorno o l’altro vi ucciderò? Non vi ucciderò perché cesserò di amarvi o per gelosia, ma così, vi ucciderò semplicemente perché a volte provo la tentazione irresistibile di divorarvi“. E ancora: “Molte volte mi sono sentito tirato irresistibilmente a battervi, a sfregiarvi, a strozzarvi“. Ma più tardi Alekséj pensa: “Voglio penetrare nei suoi segreti; vorrei che venisse da me e dicesse: ‘ti amo‘… Vorrei soltanto essere in presenza sua, nella sua aureola, nel suo alone di luce, in eterno, sempre, per tutta la vita“. Alekséj Ivànovic è l’uomo del ‘sottosuolo‘ in versione leggera. Parla con disprezzo dei tedeschi (“Tutti i tedeschi lavorano come bovi, e tutti ammucchiano denaro come giudei“) e dei francesi (“É solo nei francesi che la forma si è così ben definita che essi possono guardarvi con una dignità straordinaria ed essere personalmente uomini indegni“).

Il romanzo non è privo di arguzia e di spirito satirico nel descrivere alcuni personaggi. La baronessa Wurmerhelm, piccola di statura e straordinariamente grassa, con occhi piccini, maligni e insolenti, cammina come se facesse un onore a tutti quanti. Il barone suo marito ha le gambe che cominciano quasi fin dal petto e nell’espressione del viso ha qualcosa del montone, che tiene luogo della profondità di pensiero. Mister Astley ha uno sguardo fisso, color dello stagno. Queste ed altre osservazioni sono acute e divertenti; però sono immerse in scene prolisse e surreali che aggravano di noia questo romanzo dettato troppo in fretta.

Post Scriptum.  Non posso ignorare i tanti giudizi positivi su Dostoevskij espressi da Lev Trockij nei saggi raccolti in "Letteratura e rivoluzione". La sua definizione più bella mi sembra la seguente: "Questo genio dall'anima irrimediabilmente ferita, questo poeta voluttuoso della crudeltà e della pietà". 


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