Nella società moderna
autori e lettori si allontanano sempre più dal verso della poesia classica, che
sembra noioso, banale, inutile e artificioso. I poeti ne sono consapevoli, e
fuggono in modo esasperato dal banale, dal déjà vu, rifugiandosi, nell’età del
simbolismo, in una grande raffinatezza della tecnica. Questo processo ha
accelerato la decomposizione del verso assottigliandone la materia fino all’estremo
limite, separandolo dalla vita, dal linguaggio parlato, dall’uomo vivo. Dopo il
‘secolo dei lumi’, ha inizio un mondo disgregato dall’analisi razionale,
dissolto in un polverìo di atomi umani estranei gli uni agli altri, uniti solo
da interessi pratici e idee astratte, un mondo penetrato fino alle radici da un
pensiero disperatamente privo di profondità e di mistero, un mondo di cifre e
di segni algebrici, di fenomeni privi della ‘cosa in sé’, il mondo delle
statistiche, del giornalismo e delle banche. In un mondo di tal fatta, alcuni
poeti hanno voluto difendere le ragioni della poesia con la teoria dell’ ‘art
pour l’art’. Ma queste idee estetiche sono molto anguste e isolano la poesia
all’interno di un muro invalicabile. Lo sbocco finale è la sterilità. Gli
aspiranti alla poesia pura dimenticano che l’artista non crea la propria opera
partendo dall’arte, ma dalla vita e dal mondo che lo circonda, e che l’arte
deve avere un oggetto che non sia se stessa. La lingua letteraria alta si
separa sempre più dall’uso comune, si rinchiude in se stessa, ed è minacciata
dall’inaridimento interiore e nello stesso tempo dal linguaggio popolare standardizzato,
meccanizzato, corrotto dai giornali, dalla pubblicità, dai romanzi d’appendice.
Il poeta è indotto, anzi obbligato, a cercare espressioni rare e
raffinatissime, e dunque artificiali, rendendosi spesso incomprensibile. Ma
anche gli artisti che vogliono subordinare la loro attività a uno scopo
qualsiasi (politico, sociale, religioso) non potranno che nuocere all’arte. L’arte,
è vero, ha bisogno di un clima politico-sociale propizio, ma dentro questo
clima deve poter vivere e prosperare in piena libertà.
L’arte affonda con tutte le
sue radici all’interno della vita religiosa, ma se viene a mancare un mondo
penetrato dalla religione, o almeno vivificato da una morale, da una
spiritualità di origine religiosa, l’arte muore. In un’atmosfera razionalista,
ostile alla fede, l’arte non può vivere. Nelle varie arti lo stile non è venuto
a mancare di colpo. Il primo a cadere è stato lo stile dell'architettura, che ha smesso di
esistere come arte all’inizio dell’Ottocento. Lo stile non è solo una categoria
formale; esso sostiene, nello stesso tempo, non solo la forma, ma anche il
contenuto spirituale dell’opera d’arte; ciò significa che è solo lo stile che assicura la
fusione intima tra forma e contenuto, la loro profonda indissolubilità. Quando
lo stile viene a mancare, la forma si svuota, tende a divenire una mera
formula, uno schema, e il contenuto stesso si impoverisce. A partire dall’Ottocento, mancando lo stile, il cattivo gusto è dilagato. E’ pur vero che questo stesso cattivo gusto, una
volta che sia stato relegato nel passato, può sembrarci pieno di charme. Siamo
commossi dalla ingenua bruttezza delle cose di una volta. Ma è solo il nostro
ricordo che unifica oggetti svariati nel segno di uno ‘stile’ degli anni Sessanta o
degli anni Novanta; in realtà essi non possiedono affatto l’unità reale delle
grandi epoche del passato. Invece, quando esisteva quella unità, anche un
mobile, un abito, una tazza o una stoffa riflettevano la luce della cultura
artistica dell’epoca. Nelle epoche di unità stilistica, ogni artista aveva
coscienza di essere prima di tutto un artigiano. Il suo mestiere si nutriva di
stile, nasceva dallo stile e si riuniva allo stile in ogni atto creativo. Nelle
epoche di unità stilistica, c’era una unità di sforzi che non era una costrizione
imposta dall’esterno, giacché essa non nasceva dall’obbedienza a un comando
arbitrario, bensì da una ispirazione che era del tutto personale nel suo aspetto
soggettivo, ma che nondimeno risultava condivisa da tutti. Nel momento in cui
questa unità profonda dello stile che comprendeva tutti i mestieri (il
falegname, il calzolaio, il fabbro, ecc.) è crollata, sono mutate le condizioni
stesse di esistenza e di realizzazione di tutte le cose. Solo lo stile
difendeva l’artista dai pericoli di una dissoluzione che lo ha messo in crisi già alla fine del Settecento.
Al giorno d’oggi, dietro la
coscienza e la maestria personale dell'artista non c’è più una corrente stilistica che sostenga
e giustifichi gli ardimenti e gli sforzi. Perciò nel momento in cui l’intensità
della creazione personale si indebolisce, l’arte, non più sostenuta da una
ispirazione comune, arriva al banale e all’arbitrario.
L’opera d’arte può essere
considerata come pura forma, ma l’opera d’arte non può essere creata come
forma. Senza la sete di comunicare se stessi, senza il desiderio di esprimere o di
rappresentare il proprio io e il mondo, l’arte non esisterebbe. I pittori e gli
scultori di oggi (soprattutto i migliori) hanno smesso di fare proprio questo:
rappresentare il proprio io e il mondo. La pittura e la scultura, svuotate dell’elemento
umano, si riducono all’arabesco, all’ornamento, a un gioco di forme lineari o
spaziali.
L’assenza di vita, di
calore umano, la disumanizzazione dell’arte non sono altro che il risultato
della vittoria del calcolo e della logica sulle potenze propriamente creatrici
dell’anima. Le origini di questo lento processo di dissoluzione risalgono ben
al di là del razionalismo militante del ‘secolo dei lumi’.
Purtroppo la produzione a
fini utilitari, anche se abbellita con elementi estetici, che si tenta di sostituire all’arte
ha dalla sua mezzi sufficienti a soddisfare lo spirito delle masse, e non è
facile lottare contro ciò che il droghiere all’angolo approva con tutto il peso
del suo buon senso e di cui un articolo di giornale mostrerà in quaranta righe
l’evidente utilità.
Il destino dell’arte e
quello del mondo contemporaneo sono un solo destino. L’arte e la cultura
possono essere salvate solo da una forza capace di spiritualizzare le masse e di
riunire di nuovo le anime disperse dando un senso alla loro attività creatrice.
Una tale forza, comunque si manifesti, si è sempre chiamata religione.
L’arte non è oggi un malato
che attende il medico, ma un moribondo che spera nella resurrezione.
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