sabato 18 marzo 2023

Wladimir Weidlé (1895-1979). Le api d'Aristeo. Saggio sul destino attuale delle lettere e delle arti. Firenze, Edifir, 2017. Terza Parte

Nella società moderna autori e lettori si allontanano sempre più dal verso della poesia classica, che sembra noioso, banale, inutile e artificioso. I poeti ne sono consapevoli, e fuggono in modo esasperato dal banale, dal déjà vu, rifugiandosi, nell’età del simbolismo, in una grande raffinatezza della tecnica. Questo processo ha accelerato la decomposizione del verso assottigliandone la materia fino all’estremo limite, separandolo dalla vita, dal linguaggio parlato, dall’uomo vivo. Dopo il ‘secolo dei lumi’, ha inizio un mondo disgregato dall’analisi razionale, dissolto in un polverìo di atomi umani estranei gli uni agli altri, uniti solo da interessi pratici e idee astratte, un mondo penetrato fino alle radici da un pensiero disperatamente privo di profondità e di mistero, un mondo di cifre e di segni algebrici, di fenomeni privi della ‘cosa in sé’, il mondo delle statistiche, del giornalismo e delle banche. In un mondo di tal fatta, alcuni poeti hanno voluto difendere le ragioni della poesia con la teoria dell’ ‘art pour l’art’. Ma queste idee estetiche sono molto anguste e isolano la poesia all’interno di un muro invalicabile. Lo sbocco finale è la sterilità. Gli aspiranti alla poesia pura dimenticano che l’artista non crea la propria opera partendo dall’arte, ma dalla vita e dal mondo che lo circonda, e che l’arte deve avere un oggetto che non sia se stessa. La lingua letteraria alta si separa sempre più dall’uso comune, si rinchiude in se stessa, ed è minacciata dall’inaridimento interiore e nello stesso tempo dal linguaggio popolare standardizzato, meccanizzato, corrotto dai giornali, dalla pubblicità, dai romanzi d’appendice. Il poeta è indotto, anzi obbligato, a cercare espressioni rare e raffinatissime, e dunque artificiali, rendendosi spesso incomprensibile. Ma anche gli artisti che vogliono subordinare la loro attività a uno scopo qualsiasi (politico, sociale, religioso) non potranno che nuocere all’arte. L’arte, è vero, ha bisogno di un clima politico-sociale propizio, ma dentro questo clima deve poter vivere e prosperare in piena libertà.

L’arte affonda con tutte le sue radici all’interno della vita religiosa, ma se viene a mancare un mondo penetrato dalla religione, o almeno vivificato da una morale, da una spiritualità di origine religiosa, l’arte muore. In un’atmosfera razionalista, ostile alla fede, l’arte non può vivere. Nelle varie arti lo stile non è venuto a mancare di colpo. Il primo a cadere è stato lo stile dell'architettura, che ha smesso di esistere come arte all’inizio dell’Ottocento. Lo stile non è solo una categoria formale; esso sostiene, nello stesso tempo, non solo la forma, ma anche il contenuto spirituale dell’opera d’arte; ciò significa che è solo lo stile che assicura la fusione intima tra forma e contenuto, la loro profonda indissolubilità. Quando lo stile viene a mancare, la forma si svuota, tende a divenire una mera formula, uno schema, e il contenuto stesso si impoverisce. A partire dall’Ottocento, mancando lo stile, il cattivo gusto è dilagato. E’ pur vero che questo stesso cattivo gusto, una volta che sia stato relegato nel passato, può sembrarci pieno di charme. Siamo commossi dalla ingenua bruttezza delle cose di una volta. Ma è solo il nostro ricordo che unifica oggetti svariati nel segno di uno ‘stile’ degli anni Sessanta o degli anni Novanta; in realtà essi non possiedono affatto l’unità reale delle grandi epoche del passato. Invece, quando esisteva quella unità, anche un mobile, un abito, una tazza o una stoffa riflettevano la luce della cultura artistica dell’epoca. Nelle epoche di unità stilistica, ogni artista aveva coscienza di essere prima di tutto un artigiano. Il suo mestiere si nutriva di stile, nasceva dallo stile e si riuniva allo stile in ogni atto creativo. Nelle epoche di unità stilistica, c’era una unità di sforzi che non era una costrizione imposta dall’esterno, giacché essa non nasceva dall’obbedienza a un comando arbitrario, bensì da una ispirazione che era del tutto personale nel suo aspetto soggettivo, ma che nondimeno risultava condivisa da tutti. Nel momento in cui questa unità profonda dello stile che comprendeva tutti i mestieri (il falegname, il calzolaio, il fabbro, ecc.) è crollata, sono mutate le condizioni stesse di esistenza e di realizzazione di tutte le cose. Solo lo stile difendeva l’artista dai pericoli di una dissoluzione che lo ha messo in crisi già alla fine del Settecento.

Al giorno d’oggi, dietro la coscienza e la maestria personale dell'artista non c’è più una corrente stilistica che sostenga e giustifichi gli ardimenti e gli sforzi. Perciò nel momento in cui l’intensità della creazione personale si indebolisce, l’arte, non più sostenuta da una ispirazione comune, arriva al banale e all’arbitrario.

L’opera d’arte può essere considerata come pura forma, ma l’opera d’arte non può essere creata come forma. Senza la sete di comunicare se stessi, senza il desiderio di esprimere o di rappresentare il proprio io e il mondo, l’arte non esisterebbe. I pittori e gli scultori di oggi (soprattutto i migliori) hanno smesso di fare proprio questo: rappresentare il proprio io e il mondo. La pittura e la scultura, svuotate dell’elemento umano, si riducono all’arabesco, all’ornamento, a un gioco di forme lineari o spaziali.

L’assenza di vita, di calore umano, la disumanizzazione dell’arte non sono altro che il risultato della vittoria del calcolo e della logica sulle potenze propriamente creatrici dell’anima. Le origini di questo lento processo di dissoluzione risalgono ben al di là del razionalismo militante del ‘secolo dei lumi’.

Purtroppo la produzione a fini utilitari, anche se abbellita con elementi estetici, che si tenta di sostituire all’arte ha dalla sua mezzi sufficienti a soddisfare lo spirito delle masse, e non è facile lottare contro ciò che il droghiere all’angolo approva con tutto il peso del suo buon senso e di cui un articolo di giornale mostrerà in quaranta righe l’evidente utilità.

Il destino dell’arte e quello del mondo contemporaneo sono un solo destino. L’arte e la cultura possono essere salvate solo da una forza capace di spiritualizzare le masse e di riunire di nuovo le anime disperse dando un senso alla loro attività creatrice. Una tale forza, comunque si manifesti, si è sempre chiamata religione.

L’arte non è oggi un malato che attende il medico, ma un moribondo che spera nella resurrezione.

 

 

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