Il proverbio antico “Magna
civitas, magna solitudo” si può applicare a tutta la vita civilizzata del mondo
contemporaneo. La società odierna, quanto più costringe gli uomini a vivere gli uni addosso agli altri, tanto più
impone una crudele solitudine. Mai come oggi l’uomo corre il rischio di venir schiacciato dalla massa informe
della folla senza personalità. Anche prima della massificazione del mondo
l’artista era solo nella sua opera, nel suo destino, ma nella sorgente stessa
della sua creazione non era separato da ciò di cui si nutrivano spiritualmente
tutti coloro che lo circondavano e che lo sostenevano con la loro sola presenza. La solitudine profonda dell’artista di oggi
si riflette nella arbitrarietà o nella timidezza dell’immaginazione, nella
abbondanza delle invenzioni artificiose e nella ossessione per il ‘particolare
ben osservato’, nella carenza della capacità narrativa, nella decadenza dello
stile. A partire dal romanticismo, gli scrittori confessano nelle loro opere una inguaribile solitudine. Si
sentono soli, diversi dagli altri, ne vanno fieri ma ne soffrono. L’epopea
antica e il romanzo tradizionale presuppongono un narratore immerso nello
stesso elemento vitale a cui appartengono le anime dei lettori. L’autore di
oggi, al contrario, non smette mai di ripetere: io sono diverso da voi, il mio
mondo non è il vostro. I personaggi dei romanzi di Balzac, Dickens, Tolstoj
vivevano in un mondo creato dall’autore, ma che a noi appariva come il
mondo di tutti, il mondo tout court. Da allora tutto è cambiato. Ora il
romanziere non cerca più di creare un mondo secondo l’immagine di quella che
egli crede sia la realtà, ma ci mostra gli esseri e le cose solo come sono
percepiti dalla sua coscienza. Nell’opera grande e geniale di Proust, per
esempio, non vi è nulla che esista nemmeno per un momento al di fuori
dell’autore, non una pagina dove il mondo appartenga agli uomini. Nella
‘Recherche’ il personaggio più sbiadito, meno vivo, è lui stesso, Marcel. E’
una regola generale: più ci osserviamo e più indistinta diventa la nostra
immagine. La personalità non si rivela e non si esprime nella contemplazione
del proprio intimo nucleo, ma in atti diretti verso l’esterno.
Il significato dell’opera
d’arte non va cercato nelle linee o nei colori, né in una particolare
combinazione di suoni o di parole. Non c’è arte, se non c’è incarnazione, e che
cosa si potrà incarnare, allora, se non l’immagine dell’uomo e quella del
mondo, quale si rivela all’uomo? Tutta l’arte è realista, nel senso che mira
alla realtà. E la realtà dell’arte è la realtà concreta dell’esistenza umana,
della vita vissuta, irriducibile al pensiero astratto. L’artista cerca la
verità, non la verosimiglianza; ciò che egli imita non è la vita, ma le forze
che creano la vita.
Ogni creazione artistica è
basata sulla fede nell’esistenza e nella verità di ciò che si crea. Senza tale
fede, l’arte sarebbe impossibile. Balzac o Tolstoj vedevano l’uomo in tutta la
pienezza del suo essere, come, per così dire, deve vederlo il Creatore. Il
romanziere contemporaneo, invece, vede dell’uomo solamente un lato; perciò i
suoi personaggi sono meno vitali. Ciò si può constatare nell’opera di Proust,
dove egli non ci mostra mai l’uomo com’è, ma solo come gli si presenta. Una scrittrice dello stesso genere è Virginia Wolf, una specie di sismografo psichico che registra i fuochi
fatui del sentimento, i brevi lampi della coscienza registrati con precisione
straordinaria.
Moltissimi scrittori e
artisti hanno creduto che le teorie psicanalitiche fornissero loro l’accesso a
un mondo meraviglioso e sconosciuto, socchiudendo le porte dell’inconscio. In
realtà non è avvenuto niente del genere, per la buona ragione che quel mondo
nascosto era sempre stato aperto all’arte, e che gli artisti vi avevano sempre
attinto per alimentare le loro opere a fonti inesauribili. Ciò che in realtà è avvenuto
è stato piuttosto l’inverso: invece di spalancare le porte dell’inconscio, la
psicanalisi le ha in un certo modo chiuse, perché ha sottomesso l’inconscio al
controllo della ragione, all’azione dissolutrice dell’analisi razionale. Freud
ha inteso estendere il principio deterministico all’intero ambito della vita
psichica. La psicanalisi non persegue che un fine: la meccanizzazione
dell’inconscio.
Gli scrittori e i pittori
surrealisti si sono dati al culto dell’inconscio per sfruttarlo a vantaggio
della loro attività. Per il surrealista la creazione artistica non è un atto di volontà. Per creare bisogna anzi astenersi da qualsiasi sforzo, evitare di mettere nell’opera
qualcosa di proprio. Basta che l'opera sia l’attenta trascrizione di ciò che
avviene nell’inconscio. Chi ha annotato il più passivamente possibile un sogno
oppure un frammento di quel flusso continuo di immagini e di parole che scorre
dentro di noi, e che anche la più elementare introspezione è in grado di
cogliere, ha fatto tutto quello che ci si aspetta da un artista. Questa è la
scrittura (o pittura) automatica, parente prossimo della confessione
involontaria richiesta da Freud ai propri pazienti. L’opera poetica è in noi,
preparata in anticipo; non si tratta che di facilitarne la fuoriuscita. Il
maggior errore del surrealismo è di attribuire all’inconscio una verginità, che invece è
illusoria, di crederlo puro, intatto, estraneo ad ogni ‘letteratura’, mentre in
realtà questo flusso di immagini e di parole che sale ad ogni istante dalle sue
profondità è composto, nell’artista surrealista, per lo più di prestiti e di
reminiscenze letterarie. La scrittura automatica è passiva e non consente
nessuna scelta; non è possibile respingere le suggestioni che, pur provenendo
dall’inconscio, appartengono ad altri. Dando forma letteraria alle immagini che
provengono dall’inconscio, lo scrittore crea un protagonista che è il suo alter
ego e che vive, nella finzione, ciò che l’autore è impossibilitato a vivere nella
realtà. E’ così che si costruiscono i romanzi d’appendice e i film di successo.
Ma nelle vere opere letterarie la realtà è trasformata qualitativamente,
trasportata in un’altra dimensione, e non soltanto abbellita o costretta a
rappresentare un dato piacere di cui si gode per procura, attraverso il
protagonista-alter ego dell’autore. L’arte appartiene al mondo della coscienza
morale e religiosa ben più che a quello della coscienza intellettuale, ma la
psicanalisi trova abitabile solo quest’ultimo. Essa non conosce che la caccia
agli istinti, non fa che cercare a tentoni nella notte interiore l’interruttore
che la rischiari con una luce artificiale. La letteratura contemporanea si
avvicina poco a poco alle esigenze della psicanalisi. Ma lo spirito di questa
disciplina, come di ogni scienza determinista, è mortale per l’arte. L’uomo non
è più rappresentato come una persona una e indivisibile, ma come un aggregato
di elementi fortuiti, privo di unità sostanziale. Il personaggio letterario è
costruito con un calcolo razionale, facendo la media aritmetica delle
osservazioni dell’autore; diventa così un pupazzo di cartapesta che scimmiotta
i gesti della vita. Ma se l’uomo completo, dotato di anima, con un suo proprio
destino, non tornerà a trionfare sull’eroe meccanico mosso da congegni, si
chiuderà presto davanti ai nostri occhi l’ultimo capitolo della storia dell’arte,
se non della storia del mondo.
(continua al post successivo)
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