venerdì 17 marzo 2023

Wladimir Weidlé (1895-1979). Le api d'Aristeo. Saggio sul destino attuale delle lettere e delle arti. Firenze, Edifir, 2017. Prima parte


 Aristeo, pastore e allevatore di api, innamorato della ninfa  Euridice, la insegue provocandone involontariamente la morte. Per vendetta, i Mani della ninfa, sdegnati, distruggono i suoi preziosi alveari. Aristeo cerca di placare la loro ira sacrificando dei buoi. Tornando dopo nove giorni sul luogo dove giacciono le carcasse, trova che dai buoi morti è nato un nuovo sciame di api.

Weidlé, facendo riferimento con il titolo del libro a questo mito antico, volle esprimere (quasi cento anni fa) la speranza che dalla morte e putrefazione dell’arte moderna potesse nascere una nuova e vera arte. Non so se Weidlé abbia coltivato questa speranza fino ai suoi tardi anni (è morto nel 1979), ma, osservando come oggi va il mondo, orientato in una direzione antiumana da cui nessuna forza riesce a farlo deviare, penso che non sia necessario essere intenditori di arte per constatare che quella speranza non si è realizzata e che anzi si è rivelata, più che ottimistica, vana.

La prima guerra mondiale provocò uno sconvolgimento delle coscienze e delle idee. L’intera civiltà occidentale fu messa in crisi, tutta la tradizione umanistica era minacciata dai possibili effetti pericolosi del progresso scientifico e tecnologico e dall’avvento della società di massa.

La grande arte del passato, grazie all'atto creativo dei singoli artisti, ha fatto vivere mondi immaginari, favole, miti. Nel mondo contemporaneo questa capacità creativa è venuta progressivamente a mancare, e ciò che prima costituiva un insieme unitario si è frammentato. La prima condizione per creare un’opera d’arte, scrive Weidlé citando Baudelaire, è la ‘fede’ nell’unità integrale. Questa fede viene soffocata dalla ragione, nel momento in cui la ragione rivendica la propria autonomia. La forza dissolutrice dell’analisi razionale invade a poco a poco tutto il nostro modo di percepire e di conoscere il mondo. La disgregazione dello stile comincia alla fine del Settecento, come risultato di una riduzione intellettuale del mistero della creazione. Alla creazione si sostituisce la ‘costruzione’, un processo dominato dalla ragione. Non è un caso che Weidlé, come tutti coloro che nell’arte cercano l’essenza dell’uomo, si avvicini al pensiero di Leopardi, il quale nello ‘Zibaldone di pensieri’ affermava: “La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione: perché pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni”.

Weidlé, a differenza di Leopardi, ha fede nella trascendenza divina, ma credo che Leopardi troverebbe affine al suo pensiero l’affermazione di Weidlé, che l’arte che non scorge niente al di là e al di sopra dell’uomo, diventerà inevitabilmente inumana.

Molti tentano di opporsi alla disgregazione dell’unità dell’opera d’arte rivolgendosi all’arte pura, ai ricordi dell’infanzia, al mondo primitivo o dell’inconscio, ma questi tentativi sono palliativi destinati al fallimento. L’arte non si rifonda partendo dall’arte stessa, ma sorge dalla vita. Occorre una rinascita spirituale, occorre che l’arte recuperi il senso della trascendenza e quindi quel senso di umanità che nel mondo contemporaneo sembra ormai perduto. L’arte delle grandi epoche esprimeva l’uomo integrale, perché l’uomo di allora non si preoccupava solo di sé, non si limitava a contemplare il proprio io con la tetra fissità di oggi.

L’erede della tragedia e dell’epopea classiche è il romanzo moderno. Ma anche il romanzo è in crisi; dopo la prima guerra mondiale, esso non ha più avuto in Europa un ruolo di primo piano. Sono mancate quelle forze creatrici in grado di immaginare un intero mondo e gli esseri che lo abitano.

Ci sono tanti tipi di romanzo, ma la sua essenza è unica e consisteva in quella ‘vita’, in quella seconda vita che il romanziere sapeva creare e che non è riducibile a una somma di procedimenti e di tecniche narrative. Questo tipo di romanzo non esiste più. Possiamo rendercene conto leggendo le opere di quegli scrittori che più hanno contribuito alla sua trasformazione, a cominciare da Proust e Joyce. Per vie differenti, se non opposte, questi due grandi scrittori sono giunti allo stesso risultato: la negazione del romanzo come espressione spontanea della vita divenuta arte, della realtà trasfigurata in poesia. Sopravvivono scrittori mediocri che si limitano a imitare i metodi del romanzo classico, raggiungendo così un’abilità grazie alla quale presto tutti saranno in grado di scrivere libri disinvolti di trecento pagine o anche grossi volumi pieni di eleganti sentimenti. Vi sono scrittori di talento che si mantengono estranei alla corporazione dei romanzieri meccanici, ma anche nelle loro opere non è l’immaginazione creatrice che domina, bensì l’esperienza o il ragionamento, la capacità di osservare o di costruire: per es. Aldous Huxley, Thomas Mann de ‘La montagna incantata, Robert Musil de ‘L’uomo senza qualità’. Queste due opere sono vere enciclopedie dedicate alla dissoluzione del pensiero e della vita tedeschi alla vigilia della guerra e della rivoluzione. Altri scrittori sono più sociologi che romanzieri (R. Martin du Gard, Jules Romains). Le loro opere sono studi di una famiglia, di un gruppo sociale o dell’intera società; studi che sembrano romanzati in un secondo momento, certo con spirito e charme, ma tramite tecniche precostituite, già note in precedenza. Fra un romanzo vero e un saggio romanzato corre un abisso. Un abisso altrettanto profondo corre fra un romanzo vero che sappia creare un intero mondo immaginario e un romanzo-testimonianza o un romanzo-confessione, che raccontano solo l’esperienza personale dell’autore. Tutti questi autori che, deviando dalla letteratura, cercano una patente di nobiltà nell’ostentazione delle più basse turpitudini (Céline), dimenticano che la verità artistica si esprime solo attraverso l’immagine, il mito, la finzione. Pensano solo a strappar via le maschere e i veli, senza rendersi conto che sotto potrebbe non esserci niente. Sia l’assenza che l’eccesso di forma, sia il semplice documento che il solo stile sono nemici dell’opera d’arte. L’arte senza l’uomo non è arte. Ma anche l’uomo divenuto estraneo all’espressione artistica non è più un vero uomo.

(continua al post successivo)

 

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