Aristeo, pastore e allevatore di api, innamorato della ninfa Euridice, la insegue provocandone involontariamente la morte. Per vendetta, i Mani della ninfa, sdegnati, distruggono i suoi preziosi alveari. Aristeo cerca di placare la loro ira sacrificando dei buoi. Tornando dopo nove giorni sul luogo dove giacciono le carcasse, trova che dai buoi morti è nato un nuovo sciame di api.
Weidlé, facendo riferimento con il titolo del libro a questo mito
antico, volle esprimere (quasi cento anni fa) la speranza che dalla morte e
putrefazione dell’arte moderna potesse nascere una nuova e vera arte. Non so se
Weidlé abbia coltivato questa speranza fino ai suoi tardi anni (è morto nel
1979), ma, osservando come oggi va il mondo, orientato in una direzione
antiumana da cui nessuna forza riesce a farlo deviare, penso che non sia necessario
essere intenditori di arte per constatare che quella speranza non si è
realizzata e che anzi si è rivelata, più che ottimistica, vana.
La prima guerra mondiale
provocò uno sconvolgimento delle coscienze e delle idee. L’intera
civiltà occidentale fu messa in crisi, tutta la tradizione umanistica era
minacciata dai possibili effetti pericolosi del progresso scientifico e
tecnologico e dall’avvento della società di massa.
La grande arte del passato,
grazie all'atto creativo dei singoli artisti, ha fatto vivere mondi
immaginari, favole, miti. Nel mondo contemporaneo questa capacità creativa è
venuta progressivamente a mancare, e ciò che prima costituiva un insieme
unitario si è frammentato. La prima condizione per creare un’opera d’arte,
scrive Weidlé citando Baudelaire, è la ‘fede’ nell’unità integrale. Questa fede
viene soffocata dalla ragione, nel momento in cui la ragione rivendica la propria
autonomia. La forza dissolutrice dell’analisi razionale invade a poco a poco
tutto il nostro modo di percepire e di conoscere il mondo. La disgregazione
dello stile comincia alla fine del Settecento, come risultato di una riduzione
intellettuale del mistero della creazione. Alla creazione si sostituisce la
‘costruzione’, un processo dominato dalla ragione. Non è un caso che Weidlé,
come tutti coloro che nell’arte cercano l’essenza dell’uomo, si avvicini al
pensiero di Leopardi, il quale nello ‘Zibaldone di pensieri’ affermava: “La
ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura
è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più
difficilmente sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione: perché pochi
possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono
dominati dalle illusioni”.
Weidlé, a differenza di
Leopardi, ha fede nella trascendenza divina, ma credo che Leopardi troverebbe
affine al suo pensiero l’affermazione di Weidlé, che l’arte che non scorge
niente al di là e al di sopra dell’uomo, diventerà
inevitabilmente inumana.
Molti tentano di opporsi
alla disgregazione dell’unità dell’opera d’arte rivolgendosi all’arte pura, ai
ricordi dell’infanzia, al mondo primitivo o dell’inconscio, ma questi tentativi
sono palliativi destinati al fallimento. L’arte non si rifonda partendo
dall’arte stessa, ma sorge dalla vita. Occorre una rinascita spirituale,
occorre che l’arte recuperi il senso della trascendenza e quindi quel senso di
umanità che nel mondo contemporaneo sembra ormai perduto. L’arte delle grandi
epoche esprimeva l’uomo integrale, perché l’uomo di allora non si preoccupava
solo di sé, non si limitava a contemplare il proprio io con la tetra fissità di
oggi.
L’erede della tragedia e
dell’epopea classiche è il romanzo moderno. Ma anche il romanzo è in crisi;
dopo la prima guerra mondiale, esso non ha più avuto in Europa un ruolo di
primo piano. Sono mancate quelle forze creatrici in grado di immaginare un
intero mondo e gli esseri che lo abitano.
Ci sono tanti tipi di
romanzo, ma la sua essenza è unica e consisteva in quella ‘vita’, in quella
seconda vita che il romanziere sapeva creare e che non è riducibile a una somma
di procedimenti e di tecniche narrative. Questo tipo di romanzo non esiste più.
Possiamo rendercene conto leggendo le opere di quegli scrittori che più hanno
contribuito alla sua trasformazione, a cominciare da Proust e Joyce. Per vie
differenti, se non opposte, questi due grandi scrittori sono giunti allo stesso
risultato: la negazione del romanzo come espressione spontanea della vita
divenuta arte, della realtà trasfigurata in poesia. Sopravvivono scrittori
mediocri che si limitano a imitare i metodi del romanzo classico, raggiungendo
così un’abilità grazie alla quale presto tutti saranno in grado di scrivere
libri disinvolti di trecento pagine o anche grossi volumi pieni di eleganti
sentimenti. Vi sono scrittori di talento che si mantengono estranei alla
corporazione dei romanzieri meccanici, ma anche nelle loro opere non è l’immaginazione
creatrice che domina, bensì l’esperienza o il ragionamento, la capacità di
osservare o di costruire: per es. Aldous Huxley, Thomas Mann de ‘La montagna
incantata, Robert Musil de ‘L’uomo senza qualità’. Queste due opere sono vere enciclopedie dedicate alla dissoluzione del pensiero e della vita
tedeschi alla vigilia della guerra e della rivoluzione. Altri scrittori sono
più sociologi che romanzieri (R. Martin du Gard, Jules Romains). Le loro opere
sono studi di una famiglia, di un gruppo sociale o dell’intera società; studi
che sembrano romanzati in un secondo momento, certo con spirito e charme, ma
tramite tecniche precostituite, già note in precedenza. Fra un romanzo vero e
un saggio romanzato corre un abisso. Un abisso altrettanto profondo corre fra
un romanzo vero che sappia creare un intero mondo immaginario e un
romanzo-testimonianza o un romanzo-confessione, che raccontano solo l’esperienza
personale dell’autore. Tutti questi autori che, deviando dalla letteratura,
cercano una patente di nobiltà nell’ostentazione delle più basse turpitudini
(Céline), dimenticano che la verità artistica si esprime solo attraverso l’immagine,
il mito, la finzione. Pensano solo a strappar via le maschere e i veli, senza
rendersi conto che sotto potrebbe non esserci niente. Sia l’assenza che l’eccesso
di forma, sia il semplice documento che il solo stile sono nemici dell’opera d’arte.
L’arte senza l’uomo non è arte. Ma anche l’uomo divenuto estraneo all’espressione
artistica non è più un vero uomo.
(continua al post successivo)
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