"Predoni di giorno, criminali di notte, assassini del mondo"
Questo importantissimo
libro sul genocidio dei popoli nativi compiuto da spagnoli, inglesi e coloni americani è apparso negli Stati Uniti trent’anni fa. L’autore cita un gran numero
di opere pubblicate nel suo paese sui vari aspetti di quello sterminio; e da questa
abbondanza di pubblicazioni si può forse dedurre che la vita e la morte degli
indiani d’America siano state (e immagino siano ancora) dei soggetti studiati e dibattuti. Ciò fa onore ai numerosi intellettuali statunitensi che tengono viva la
coscienza di un problema e di una colpa che tutti i settori della vita
pubblica e larghissima parte del popolo americano tendono invece a soffocare e
ignorare.
Lo sterminio degli indiani
delle Americhe, afferma ripetutamente l’Autore, è stato di gran lunga il più
grave genocidio della storia del mondo. I modi della distruzione furono le violenze dirette, le
malattie e i maltrattamenti. L’Autore critica quegli studiosi che si sono
concentrati quasi esclusivamente sulla malattia, attribuendo la responsabilità
di uno sterminio di massa solo a un esercito di microbi invasori. Questi
studiosi suggeriscono che l’eliminazione di quelle decine di milioni di persone
non sia stata intenzionale, ma piuttosto una triste, inevitabile e involontaria
conseguenza delle migrazioni e del progresso dell’uomo. In realtà la distruzione dei pacifici, leali e gentili popoli nativi e delle loro civiltà, spesso molto progredite, non fu né
involontaria né inevitabile. Un piccolissimo esempio, fra i tanti, della intenzionalità del massacro: nel 1876, per il centenario della
nazione americana, il principale intellettuale del paese, William Dean Howells, compose un saggio in cui espresse apertamente
il suo sussulto di orgoglio patriottico per invocare lo sterminio dei
pellerossa delle pianure. “Il pellerossa… è un orrendo demonio, i cui tratti
maligni difficilmente ispirano sentimenti più gentili della ripugnanza […]
Forse non teniamo sufficientemente conto di quanto sia avvilente guardare
quelle facce selvagge false e senza pietà; la farina ammuffita e il manzo
marcio devono sembrarci fin troppo buoni per loro”. E i governativi passavano
agli indiani coperte infette di vaiolo.
Una condizione indispensabile, per spagnoli e angloamericani, per uccidere con tranquillità d'animo i popoli nativi delle Americhe, fu di considerarli come esseri costituzionalmente inferiori. Per i conquistatori spagnoli, che avevano bisogno di mano d'opera per le miniere e i campi di cui si erano appropriati, gli indiani erano schiavi naturali, vere bestie da soma subumane. Ai coloni britannici, e successivamente agli
americani, la schiavitù indiana invece non serviva, ma volevano solo la loro
terra, perciò giustificarono il genocidio ricorrendo ad un razzismo che aveva
le sue radici nel cristianesimo: gli indiani erano assistenti di Satana, erano
selvaggi della foresta, lascivi e assassini, erano orsi, lupi, insetti dannosi.
Poiché gli indiani avevano mostrato di rifiutare la conversione al
cristianesimo o alla vita civile, ed erano poco utili come schiavi, sterminarli
era considerata l’unica soluzione possibile.
Il libro di Stannard è un’opera
ampia e complessa. Come libro di storia, arriva fino al tempo presente, perché il
genocidio, nelle Americhe così come in altri luoghi del mondo dove i popoli
indigeni sono sopravvissuti, non è mai cessato veramente. L'autore cita, fra gli altri, il caso del Guatemala, dove dal 1970 al 1985, quarantamila persone sono semplicemente scomparse; e altre centomila erano state assassinate in precedenza. Questa terribile strage nei confronti dei popoli maya fu compiuta dal
Governo guatemalteco con il consenso e il
sostegno finanziario del Governo degli Stati Uniti.
Ma il libro di Stannard è
anche un libro di filosofia, perché egli ricerca le radici sociali, culturali, religiose, psicologiche delle concezioni razziste
e della sfrenata volontà di potere e di arricchimento che hanno spinto i conquistatori del Nuovo Mondo e i coloni americani alla
distruzione degli indiani e a giustificare quella impresa infame come legittima e naturale davanti alla propria coscienza.
Stannard conclude il libro con amara ironia. Cristoforo Colombo, durante
il viaggio di ritorno dalla sua prima spedizione, scrisse una lettera ai
sovrani spagnoli per raccontare le sue imprese. Dopo aver cercato segni di ricchezze, prìncipi e grandi città
sulle coste delle isole incontrate, Colombo aveva deciso di inviare due uomini nell’entroterra.
“Viaggiarono per tre giorni, scrisse, e trovarono moltissimi piccoli villaggi e
innumerevoli persone, ma niente di importante”. Innumerevoli persone, ma niente di importante. Sarebbe diventato un
motto per i secoli a venire.
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