martedì 11 ottobre 2022

Alberto Moravia (1907 - 1990). Gli indifferenti. La biblioteca di Repubblica, 2002.


 

Avevo letto “Gli indifferenti” trenta o quarant’anni fa e ne conservavo un buon ricordo. L’ho riletto adesso e l’ho trovato un romanzo insopportabile: noioso e insincero. Non sono meravigliato di questo mio ‘voltafaccia’. I miei gusti sono cambiati, ma non in modo radicale. Le mie convinzioni profonde sono rimaste identiche. Le uniche differenze mi sembra che siano queste: oggi, seguendo in modo critico le bassezze del dibattito politico, non mi lascio più abbagliare dalla retorica democraticista, che continua a vedere negli Indifferenti la rappresentazione artistica del decadimento morale della borghesia nel periodo fascista; personalmente, poi, ho raggiunto la pace dei sensi, e la tensione erotica che attraversa il romanzo di Moravia dalla prima all’ultima pagina, lungi dal sedurmi, mi sembra ora forzata e fastidiosa; infine, oggi leggo con più attenzione e sono diventato, credo, un lettore più libero perché mi affido, nel giudizio, esclusivamente al mio sentimento della realtà. Sono, invece, molto più meravigliato del fatto che un romanzo modesto come questo sia stato tanto sopravvalutato dal pubblico e dalla critica e che lo sia ancora oggi, mentre i giudizi negativi sono pochi e le stroncature pochissime.

Michele e Carla, fratello e sorella, sono due giovani senza storia, senza passato e senza sostanza. Carla suona il pianoforte e gioca a tennis. Ma non è appassionata né di sport né di musica. Verso l’inizio del romanzo la vediamo seduta a tavolino con un libro in mano, ma non si sa che libro sia. Se legge, legge senza interesse. Al posto del libro, potrebbe tenere in mano una spazzola. Moravia le ha messo in mano un libro qualunque, come segno di distinzione. La personalità del fratello Michele è ancora più indeterminata, nonostante che per pagine e pagine egli rumini su se stesso, sulla propria impotenza sentimentale e sulle proprie aspirazioni a un mondo di sincerità e di verità, che si riveleranno tutte vuote e velleitarie. Michele è uno studente universitario che deve laurearsi, ma non sappiamo in quale disciplina, né lui accenna mai a qualche interesse di studio. Solo una volta, a casa di Lisa, la matura signora che vuole sedurlo, esprime un giudizio di natura culturale. Egli guarda “i banali acquerelli” che pendono dalle pareti; è “irritato e eccitato”. “Ti piacciono?”, chiede Lisa. “Delle porcherie”, risponde Michele. Il giovin signore colto e sprezzante non dà spiegazioni. Ora, a parte il fatto che riesce difficile capire come si possa essere allo stesso tempo irritati ed eccitati sessualmente (e questa incongruenza è un piccolo indizio di quanto le scene erotiche del romanzo siano innaturali e cerebrali), non si può dimenticare che Michele, questo giovane che aspira a un mondo superiore di verità e di bellezza, si sdilinquisce per un complimento dell’odiato Leo, l’amante di sua madre, per il suo bel vestito.

“Colpito da questo diretto attacco alla sua vanità, Michele dimenticò in un solo istante tutti i suoi propositi di odio e di freddezza. ‘Ti pare?...’ domandò non nascondendo un mezzo sorriso di compiacimento”.

Ma questo è niente. A più riprese, immaginando una nuova vita, Michele sogna le stesse cose che potrebbe sognare un povero lustrascarpe di strada che tenta la fortuna al Superenalotto.

“E se fosse vero” pensò “se veramente Leo volesse aiutarmi a diventare qualche cosa, a diventare... ricco?”. Tale speranza fece balenare nella sua eccitata fantasia l’immagine dei suoi desideri e delle sue invidie: le donne di lusso dai preziosi sorrisi, i viaggi, gli alberghi, la vita intensa divisa tra gli affari e gli intensi [sic] divertimenti...”.

Ma questo non è tutto. Nelle sue ruminazioni aveva perfino immaginato, per avere da Leo denaro e raccomandazioni, di cedergli come amante Lisa, che invece ora è innamorata di lui, Michele. Poi immagina di cedergli la sorella Carla, senza sapere che lei si è già concessa, senza amarlo, al furbo uomo di loschi affari. Michele rimugina i suoi nobili pensieri:

“Leo avrebbe dato i soliti quattrini e in considerazione della giovinezza intatta, della bellezza di Carla, gli sarebbe stata richiesta una somma due, tre volte maggiore di quella che sarebbe bastata per Lisa matura e corrotta... Ad ogni merce il suo prezzo... ed egli... ed egli in cambio si sarebbe impegnato [...] a facilitare le cose presso la sorella”.

Anche Carla, sempre disgustata della sua vita presente, immagina la vita nuova con Leo, già amante della mamma,  con la fantasia di una servetta:

“ecco le pareva di vedersi, seduta sulle ginocchia di Leo, in atto di dargli un colpetto sulla guancia, o di appoggiargli la testa contro il petto, domandandogli sottovoce il denaro per qualche suo vestitino; oppure sarebbe andata insieme con l’amante da quella celebre modista, avrebbe ordinato tre o quattro di quei cappelli di Parigi, novità della stagione, che tanto le piacevano; tutto questo era molto attraente, come anche possedere un’automobile, una casa, dei gioielli, viaggiare, vedere genti e paesi...”.

Michele e Carla sono due personaggi costruiti a tavolino. Non hanno una psicologia coerente. Le loro continue e improvvise oscillazioni psicologiche e morali, i loro sbalzi di umore, fra slanci e ricadute, sono meccanici, senza spiegazione, senza sviluppo, attribuiti loro da Moravia per puro capriccio, o meglio: per dimostrare a tentoni una tesi prestabilita, per raggiungere uno scopo che è estraneo al racconto, senza seguire, come farebbe un grande artista, il possibile sviluppo naturale di personaggi messi al mondo vivi e credibili. Oltre che animata da questo intento, la scrittura di Moravia si svolge, poi, troppo spesso solo per sfogare un proprio impulso morboso. Prendiamo questo passo, dopo che Leo e Carla sono andati a letto insieme per la prima volta:

“Il primo ad addormentasi fu Leo; l’impreveduta seppure inesperta sfrenatezza di Carla l’aveva spossato”.

Qui siamo nella pura pornografia, che funziona secondo meccanismi noti e riconoscibili: lo scrittore pieno di fantasie erotiche crea una figura di donna e le attribuisce i desideri e gli atteggiamenti più osceni e inconfessabili. Umiliandola, si illude di possederla in qualche modo e ne trae piacere. Questa sgradevole, e soprattutto gratuita, morbosità Moravia la manifesta continuamente nei riguardi di tutti e cinque i personaggi del racconto, ma nei confronti di Carla, bella ragazza ventiquattrenne dal viso ancora puerile,  pare non conoscere limiti. Dopo l’amplesso con Leo, ancora in letto, Carla sogna un uomo immaginario che lei possa amare davvero, un uomo che la stia guardando “così com’è, distesa nuda, là, su quel letto, con quel suo corpo una volta intatto ed ora deflorato, e anche, sì, anche qua e là insudiciato, sul petto, sul ventre, sulle braccia, dalle recenti libidini di Leo”.

Moravia, non appagato dal suo voyeurismo, insiste ancora facendo ripensare a Carla, per riassaporarle, le posizioni indecenti dell’amore: certe “cose che nonché prevedere aveva sempre ignorato, la sconvolgevano addirittura, non si saziava di analizzarle, ricominciava più volte a ricostruirle, per così dire le riassaporava... per esempio la memoria precisa di certe momentanee chiaroveggenze, per le quali, quando la lampada era ancora accesa, aveva sorpreso [...] certi loro atteggiamenti, di lei e dell’amante, di una tale indecente mostruosità, che le si erano per così dire stampati in mente in modo incancellabile”.

Che dire? I racconti erotici di Boccaccio, del Signor di Brantôme, di Casanova, di Pierre Louÿs, di Apollinaire sono ingenui e solari di fronte a queste fantasie malate spacciate per letteratura. E per scandagliare gli abissi sconosciuti del cuore umano, come aveva fatto nell’Ottocento il poeta dei Fiori del Male, Moravia non ha talento. Le sue scene erotiche sono mediocri anch'esse, rappresentano i sogni di un qualsiasi impiegato statale.

La famiglia Ardengo, se non fosse per la villona in cui abita, che fa pensare chissà a quale vita sfarzosa condotta in passato, se non fosse per il tennis e il pianoforte e una cameriera che è muta come un pesce, potrebbe essere benissimo la famiglia di Policarpo De’ Tappetti, ufficiale di scrittura. Le aspirazioni degli Ardengo sono molto comuni. Prendiamo la madre, Mariagrazia.

Quando va al ballo assieme a Carla e Michele sulla lussuosa auto di Leo, amante suo e della figlia, si sente una dea.

“Anche la madre guardava attraverso il finestrino, ma piuttosto che per vedere, per farsi vedere: quella grande e lussuosa macchina le dava un senso di felicità e di ricchezza”.

Ad ogni pedone che passava sotto i suoi occhi “ella avrebbe voluto gettare in faccia una smorfia di disprezzo come per dirgli: ‘Tu brutto cretino vai a piedi, ti sta bene, non meriti altro... io, invece, è giusto che fenda la moltitudine adagiata su questi cuscini’ “.

Questa povera Mariagrazia è veramente stupida e ignorante e parla una lingua che non è né la parlata spontanea ed espressiva di una donna del popolo né la lingua minimamente educata di chi abbia studiato almeno fino ai quindici anni d'età. La sua è una lingua costruita a tavolino (brutto cretino... ti sta bene... fendere la moltitudine) da uno scrittore che non sa come parla la gente vera. E infatti i dialoghi del romanzo sono tutti terra terra e artificiosi. Le tante liti e scenate di gelosia che la madre fa al suo amante (sbagliando bersaglio, Mariagrazia è gelosa non della figlia, ma di Lisa, ex amante di Leo) sono imbarazzanti per il loro carattere dozzinale e perché nascono all’improvviso, in modo non spontaneo, solo perché ad un certo momento Moravia decide di dar fuoco alla miccia. Moravia si accanisce su di lei come su nessun altro:

“Quel giorno la madre finì assai tardi di vestirsi; era mezzodì e stava ancora seduta davanti la teletta passandosi con molte smorfie e grandissima cura il pennellino del nero sulle palpebre gonfie; appena desta, le immagini della gelosia l’avevano messa di cattivo umore, ma poi improvvisamente, si era ricordata che appunto quel giorno Carla compiva gli anni, e un brusco isterico fiotto di amor materno aveva inondato la sua anima”. (il corsivo è mio). Questa famiglia non è all’altezza di rappresentare il decadimento morale della borghesia italiana nel periodo fascista. La borghesia non è rappresentata nemmeno da Leo, che è un piccolo affarista, per il quale appropriarsi con la frode della  villa degli Ardengo rappresenta il grande colpo di fortuna. La borghesia vive nel romanzo solo nei sogni e nelle aspirazioni dei personaggi: viaggi, alberghi, vestiti, gioielli, incontri fatali, ecc. Ma sono immagini stereotipate che non offrono nessuna scena viva e concreta. E’ come se per descrivere la vita di oggi nella sua realtà, ci si affidasse solo alle immagini della pubblicità televisiva. La prosa di Moravia è stata lodata come essenziale e realistica, cioè priva di fronzoli e anti-lirica. E’ vero: la sua è una lingua che, dopo cento anni, sembra ancora attuale, scritta oggi. Non saprei dire da dove proviene questa prosa. Azzardo l’ipotesi che questo linguaggio scarno derivi dalla avversione di Moravia alla realtà nella sua completezza, dalla sua estraneità alla complessiva bellezza del mondo, dalla sua consonanza con  gli ambienti squallidi e con i paesaggi desolati o devastati. Per questo le descrizioni di paesaggio sono le sue cose migliori:

“Le case erano morte, muti i platani, immobile il giorno; un cielo di pietra pesava sui tetti curvi; né ombra né luce per quanto lunga era la strada, ma soltanto una fame arida di tempesta”.

E ancora:

“Quando furono sulla soglia del portone si accorsero che pioveva dirottamente; senza violenza, ma con una sciatta abbondanza come da un catino sfondato; un gran fruscìo torrenziale empiva l’oscurità; un livido velo d’acqua ribolliva sul lastrico della strada; grondaie, stillicidi, rigagnoli, la grossa pioggia vecchia di due settimane di tempo sfogava da ogni parte il suo fiotto impuro fermentato a lungo nei fianchi delle nubi; sotto il diluvio le case stavano dritte e nere; i fanali affogavano; i marciapiedi inondati assumevano l’aspetto anfibio delle banchine per metà sommerse, nei porti di mare”.

 

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