mercoledì 22 giugno 2022

Walter Maturi (1902-1961). Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia. Torino, Einaudi, 1971.



Questo volume raccoglie le dispense di sei  corsi universitari tenuti, i primi due, nel periodo 1945-47 e, gli altri quattro, dal 1956 al 1960. E’ un mattone di 700 pagine che scoppia di erudizione; l’autore possiede in misura notevole anche il gusto per le piccole e insignificanti “quisquilie bibliografiche”. Il libro analizza il pensiero di oltre cinquanta scrittori di storia e in generale ha, si può dire, un tono accademicamente obiettivo ed equilibrato. Ha anche il merito (forse il più grande) di riportare, accanto a preziose notizie biografiche, molte pagine originali dei personaggi studiati, che, insieme, formano una interessante e quantitativamente discreta antologia. Tuttavia, nonostante l’abbondanza di testi e di giudizi, il problema vero del nostro Risorgimento viene eluso. Fu un bene o un male l’unificazione italiana fatta da Cavour e da Garibaldi? Cos’è stato il brigantaggio meridionale: l'inevitabile reazione popolare ad una unificazione imposta da una esigua minoranza oppure una disperata e velleitaria controrivoluzione ispirata dai Borboni e dal Papa, dal trono e dall’altare? E la lotta militare al brigantaggio è stata un necessario atto di forza oppure una repressione feroce voluta da un governo estraneo agli italiani (specialmente agli italiani del Sud)? E, dulcis in fundo, la crisi dell’Italia contemporanea, già ben visibile negli anni Cinquanta del secolo scorso, e oggi diventata catastrofica, ha a che fare oppure no con il Risorgimento e con le sue devastanti conseguenze immediate? Queste, ed altre, sono le domande che io mi ponevo iniziando la lettura del pesante volume di Walter Maturi, ma egli non dà risposte a quelle domande perché sostanzialmente  non se le pone nemmeno, e anzi dà per scontato che il nostro Risorgimento sia stato il migliore e l’unico Risorgimento che fosse possibile realizzare. Infatti non fa che vantare “quella saldatura immediata, spontanea tra forze morali e istituzioni sociali, che era propria degli uomini del Risorgimento”. Questa raccolta di dispense costituisce, per un lato, un valido manuale di avviamento allo studio del Risorgimento (sul modello del classico manuale di Carlo Cordié per lo studio della lingua e della letteratura francese, uscito nel 1955); per l’altro lato, è un’opera di utile ma generica e innocua divulgazione. Le dispense, infatti, trattano solo di problemi culturali e di orientamenti politici e filosofici. Ma la cultura e la filosofia, rispetto ai fatti storici concretamente realizzati nel processo dell’unificazione italiana, hanno il valore remoto che può avere la metafisica rispetto alla vita quotidiana, che so, di una famiglia operaia. Una spedizione falsamente eroica come quella dei Mille, da quale dibattito culturale è potuta nascere? E le misure repressive “staliniane” adottate contro il brigantaggio, da quali idee filosofiche potevano essere ispirate? Non posso dimenticare che Benedetto Croce, l’intellettuale più eminente della cultura italiana del Novecento, ha definito i briganti meridionali (lui meridionale!) “truci e osceni briganti”. E Benedetto Croce qui, nel libro di Maturi, svolge il ruolo di ‘pater familias’ ed è il personaggio più citato: più di Cavour, più di Garibaldi, più di Mazzini. Il realismo cinico e la implacabile volontà di potenza dei governi piemontesi sono atteggiamenti primordiali che non presuppongono alcuna ispirazione culturale; perciò a volte il dibattito delle idee serve, se non a giustificare quegli atteggiamenti (ma Adolfo Omodeo ha fatto anche questo), a occultarli o a mistificarli. Una riflessione sugli uomini politici di oggi, per esempio, potrebbe solo constatare la loro totale mancanza di cultura, e dovrebbe cercare le vere motivazioni del loro comportamento nella zona più oscura e grezza della loro personalità e della loro esistenza.
Discutendo le idee di Gramsci, Maturi riporta un passo del comunista sardo: “Ma i liberali di Cavour non sono dei giacobini nazionali… perché concepiscono l’unità come allargamento dello stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia”. Di fronte a questo drastico e conclusivo giudizio, subito Maturi, simulando sorpresa, corre a spegnere l’incendio con un profluvio di parole che a me sembrano fin troppo… acquose. “Qui sembrerebbe quasi che l’unificazione italiana non fosse stata altro che l’estensione dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia sabauda, e si dimentica che in tanto la dinastia di Savoia era riuscita a compiere questa opera in quanto aveva concesso e mantenuto uno Statuto liberale, e che l’espansione piemontese non era una mera ‘conquista regia’ ma una estensione a tutta l’Italia del regime liberale e di tutte le prospettive progressive graduali che questo regime offriva”. Parole, queste, davvero ben calibrate, che però non possono nascondere, in fondo a quelle ‘prospettive progressive’, l’impoverimento del Mezzogiorno e il suo spopolamento attraverso l’emigrazione di massa, che comincia proprio dopo l’unificazione.
Con le parole di Rosario Romeo (1924-1987) Maturi respinge anche un'altra tesi di Gramsci sulla mancata rivoluzione agraria nel Risorgimento. “L’auspicata insurrezione contadina, scrive Romeo,  avrebbe colpito soprattutto quella borghesia terriera che, in un paese di così scarso sviluppo industriale come l’Italia, era in concreto la sola forza che valesse ad aprire la strada verso un moderno assetto capitalistico”. Il corsivo attesta l’approvazione di Maturi, che poi commenta: “In parole povere, Romeo sostiene la tesi che il capitalismo nel campo economico e sociale ha svolto in Italia quella funzione positiva e rivoluzionaria che ebbe sul piano etico-politico l’idea della libertà”. Capitalismo (e capitalismo italiano, per giunta!!) = libertà? Non scherziamo. 
Il librone di Maturi è una possente costruzione bibliografica che contiene, però, anche qualche corbelleria, rivelatrice, da sola, dell’intrinseca debolezza di tutta l’armatura. Per esempio, questa. “Di recente il compianto Giulio Colamarino, facendo il processo al Risorgimento (si salva solo Carlo Cattaneo!) per spiegare gli attuali disastri dell’Italia, quasi come se i nonni fossero responsabili delle bestialità dei tardi nipoti, se la piglia col Mazzini…” ecc. L’allusione ai nonni non-responsabili è sbagliata nel suo significato metaforico, ma è ancora più sbagliata nel significato letterale, perché i nonni, anche senza volere e senza sapere, effettivamente pesano per qualcosa sulla personalità dei nipoti.
Un’altra corbelleria, che si commenta da sola perché ha un valore dissolvente per tanti bei ragionamenti patriottici, è questa. “Con la chiaroveggenza dell’odio, i reazionari videro deficienze e limiti del nostro Risorgimento, che la posteriore storia d’Italia via via ha superato e dovrà ancora eliminare”. Davvero? Oggi, 2022, stiamo ancora aspettando.
Ultima ma non meno sorprendente è la strana concezione che Maturi ha del gioco delle forze in campo. Anche le forze negative, secondo lui, hanno una importante funzione: servono a migliorare quelle positive. Ma in questo modo si può salvare tutto perché tutto serve, tutto fa brodo, tutto è utile e bene. Polemizzando con Filippo Antonio Gualterio (1819-1874), Maturi scrive: “Gualterio non intravvedeva affatto la funzione integratrice che dovevano avere Mazzini e Garibaldi. Se Mazzini non ci fosse stato con le sue intemperanze e il suo non rassegnarsi al destino, come avrebbe fatto Cavour a dimostrare alle diplomazie europee l’urgenza di risolvere il problema italiano? Se non ci fosse stato Garibaldi, come avrebbe potuto l’esercito regolare di un governo responsabile fare la spedizione dei Mille?”. Insomma: il male ha una funzione integratrice del bene. Se non ci fosse stato Mussolini, come avremmo fatto ad avere la più bella costituzione del mondo?

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