sabato 21 maggio 2022

La rivoluzione italiana. Storia critica del Risorgimento. A cura di Massimo Viglione. Roma, Il Minotauro, 2001.

Il volume contiene saggi di 14 autori cattolici che contestano l'interpretazione retorica del Risorgimento data dagli storici 'unitaristi'. Massimo Viglione è particolarmente chiaro, alieno com'è dal contorto linguaggio accademico delle università. "Cavour ha unificato l'Italia, non altri (al massimo, a tutti gli altri - compreso Garibaldi - può spettare il ruolo di utili servi, se non di quello di meri burattini manovrati); ma il problema è proprio questo: l'ha unificata, ma non l'ha unita. E non l'ha unita proprio anzitutto per gli scaltri e violenti metodi con cui l'ha voluta unificare". Già la famosa affermazione di Massimo d'Azeglio, che, dopo che era stata fatta l'Italia, occorreva fare gli italiani, venendo da un uomo autorevolissimo, è una prova, piccola ma eloquente, che l'Italia era stata fatta senza gli italiani, anzi contro di loro. La Casa Savoia si preoccupava così poco dell'unità d'Italia, che ancora nel 1858 (Trattato di Plombières) Cavour aveva concesso a Napoleone III, in cambio del suo aiuto nella imminente guerra contro l'Austria, che due terzi dell'Italia finissero di fatto sotto l'influenza francese. Le cose poi andarono diversamente, ma non per merito dello spirito patriottico dei Savoia. Cavour e Vittorio Emanuele II erano spinti solo dalla volontà di espandere, magari un poco alla volta (politica del carciofo), il Regno di Sardegna. I protagonisti del Risorgimento non amavano il popolo e non lo conoscevano. Cavour non conosceva nemmeno l'Italia; conosceva Londra, ma non era mai stato né a Roma né a Napoli. L'avversione verso la Chiesa e la religione è l'altra faccia di questo disprezzo per il popolo reale. Anche coloro che parlavano sempre in nome del popolo ne avevano solo una idea astratta e non ne ammettevano, se non in modo retorico, la sovranità. Mazzini in una lettera del 1847 scrive: "... Il popolo vuole il bene; non sa dove sia; spetta ai suoi educatori mostrarglielo". Il popolo, insomma, andava guidato come un bambino. Solo i suoi educatori sono i depositari dei princìpi che lo devono ispirare. "Se il popolo reale, la 'moltitudine', decide secondo quei princìpi, bene. In caso contrario, è il popolo ad avere torto, ed esiste un organismo in grado di correggerlo, il popolo delle 'società' (oggi diremmo dei partiti)", ha scritto lo storico antigiacobino Augustin Cochin (1876-1916). Ma il popolo non fu ignorato solo durante gli anni in cui si svolse il processo di unificazione politica del nostro paese, fu ignorato, vessato e represso anche, anzi soprattutto, dopo il 1860-61. Tralascio gli argomenti importanti trattati nel volume, quali il brigantaggio, l'emigrazione, le tasse, le guerre coloniali, gli scandali, la retorica patriottarda, l'opera di rieducazione dall'alto per le nuove generazioni e le mistificazioni con cui l'Italia fu spinta, contro la volontà della maggioranza, nella prima guerra mondiale. Il patriota Luigi Settembrini, finita la feroce guerra contro i contadini meridionali, ebbe il coraggio di definire l'esercito "il filo di ferro che ha cucito l'Italia e la mantiene unita". Una frase, questa, che è, contro l'intenzione di chi l'ha pronunciata, una grave ammissione di colpa. Il sangue del popolo piaceva. Il generale Bava Beccaris fece almeno 200 morti a Milano il 10 marzo 1896, ma anche gli spiriti nobili e le persone colte erano assetate di sangue. Il filosofo Giovanni Gentile giustifica così l'intervento nella prima guerra mondiale: "In guerra bisognava entrare per cementare nel sangue questa Nazione". Lo storico liberale Adolfo Omodeo non fu da meno. Intervenendo sugli scontri, nel primo dopoguerra, fra fascisti protetti dalla forza pubblica e operai e contadini, scriveva: "Tutto bisognerebbe rifondere, tutto riunire in una profonda volontà che tutto abbracci, in cui tutto converga: creare la Patria anche con la guerra civile". Che idealismo miserabile e invertebrato! Tutti gli autori dei saggi contenuti nel volume sono d'accordo nel dichiarare fallito il progetto risorgimentale di 'fare gli italiani' e di unirli. Il nuovo 'homo democraticus' non è altro che un opportunista che, senza realizzare alcun ideale etico o civile o politico, rimuove dalla sua coscienza ogni valore, accontentandosi di godere dell'istante che passa e dei beni che produce". Alla caduta della Destra e all'avvento della Sinistra, nel 1876, il popolo italiano acclamò delirante 'l'èra nova', il governo finalmente riparatore, e attese con fiducia il prodigio promesso. Ma seguirono assai presto la delusione e il rinsavimento. Quanti momenti simili abbiamo conosciuto nei 160 anni di storia unitaria! La storia di questa Italia è una storia di promesse tradite. Una delle prime fu quella di Garibaldi, che, alla testa dei Mille, aveva promesso di dare la terra ai contadini e poi fece fucilare gli insorti di Bronte dal suo luogotenente Nino Bixio (Giovanni Verga ha raccontato la vicenda nella novella dal titolo sarcastico 'Libertà'). Negli ultimi decenni, man mano che l'Italia scivolava sempre più in basso nel degrado politico e sociale, le promesse di una politica nuova, immancabilmente tradite, sono diventate sempre più numerose. Ogni paio d'anni anni salta su un personaggio semisconosciuto che si propone come salvatore della patria: Berlusconi, Di Pietro, Monti, Renzi, Grillo, Draghi... Tutti hanno tradito, con cinismo e disprezzo, sia gli elettori che hanno creduto in loro che l'opinione pubblica inizialmente favorevole. Ora è in campo Giorgia Meloni. Ma la sua adesione entusiastica alla guerra in Ucraina ha già fatto capire che anche le sue promesse sono pura retorica.
 

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