In questo romanzo, che pure mi sembra bello e importante, manca quasi del tutto un elemento essenziale della narrativa russa: l'analisi psicologica dei personaggi. Qui il protagonista che racconta, Alessio Arseniev, vede gli altri personaggi come in sogno, come attraverso una nebbia. Nemmeno di suo padre riusciamo a farci una idea precisa e oggettiva, anche se il figlio parla tanto spesso di lui. Ne parla, però, con tale affetto, con tale ammirazione e nostalgia, che questo padre non ha, mi pare, una vita autonoma, ma vive degli slanci e della simpatia del figlio. Ciò accade perché il romanzo è una evocazione lirica del passato, un poema molto soggettivo, senza dialoghi, ispirato dalla natura, dai campi, dalle "grandi strade dimenticate", dal cielo "marmorizzato dalle nubi", dagli alberi secolari ("un altissimo abete i cui rami pendono in file sontuose come maniche di prelato ricoperte di neve"), dalla neve e dal vento, dagli animali, cavalli e uccelli, da scene di contadini al lavoro, mietitori che falciano il grano o lavandaie che battono i panni su una grossa pietra piatta che affiora sull'acqua dello stagno. In questi lavoratori delle campagne Bunin non vede la gente miserabile che i populisti e i socialisti dell'epoca vogliono redimere (egli odia il principio: "Andare verso il popolo"), ma in essi vede, direi, figure arcaiche, però non astratte, da amare; vede non una entità collettiva e ideale (ma sentimentalmente lontana), la cui liberazione dallo sfruttamento debba essere posta come scopo della propria vita, ma persone singole in carne ed ossa con cui desiderare di avere un cordiale contatto reale. Per Bunin il rivoluzionario russo è lontano fino all'assurdo dalla realtà, che egli anzi disprezza. Arseniev (alter ego dell'autore) vive, invece, profondamente il legame col passato, "con la vita lontana, comune, che sempre, per un attimo, fa più ampia la nostra anima, la nostra esistenza individuale". Durante un viaggio infantile, il padre gli parla di Mamai, un capo tartaro del XIV secolo, che aveva attraversato i loro stessi luoghi, gli parla di Stanovaia, un grosso borgo, già famoso covo di briganti, fra cui il terribile Mitka, che quando fu catturato non fu semplicemente decapitato, ma squartato. Queste ed altre immagini eccitano talmente la fantasia del giovane Arseniev, che proprio in quella circostanza si sveglia in lui per la prima volta la coscienza di essere russo e di vivere in Russia. "E d'un tratto la sentii, questa Russia, sentii il suo passato e il presente, la sua complessa e immensa vita, le sue barbare, talvolta terribili eppure affascinanti caratteristiche e la mia affinità e intimità con essa". Arseniev cresce, diventa un ragazzo. Nonostante l'esteriore povertà, la vita continua a scorrere per lui, "amico dei sogni e della natura", in modo poetico. I libri hanno una parte molto importante nella sua vita, senza però renderla libresca. Puskin, ad esempio, non era per lui una semplice lettura, ma una parte reale della sua vita. "Il suo nome veniva sempre ricordato in casa nostra con una familiarità quasi di parentela, come il nome di una persona del tutto 'nostra'... Già mi sembrava che egli scrivesse soltanto su cose nostre, per noi e coi nostri sentimenti". Il sentimento di essere russo non fa parte soltanto della coscienza colta di Arseniev, ma appartiene anche (e forse in primo luogo) alla sua sensibilità fisica. Una sera sta cenando nella sala da pranzo di un albergo cittadino, dopo aver galoppato per molte ore nella steppa buia, e pensa: "Ah, che benessere, come tutto è bello, sia quella selvaggia e inospitale notte nei campi, che questa amichevole vita di sera in città, questi mugik e borghesucci intenti a bere e a mangiare, ossia tutta questa vecchia Russia provinciale con tutta la sua volgarità, complessità, forza, pienezza di vita casalinga...". Il romanzo è, in conclusione, una ininterrotta analisi che il protagonista fa di se stesso e dei propri stati d'animo, influenzati soprattutto dalla natura e dalle stagioni. "Mi vien voglia di comprendere e di esprimere quel che avviene in me", dice Arseniev. E, scavando in se stesso, sa raggiungere una profondità poetica degna di Baudelaire: "Ricordo molti grigi e rigidi giorni invernali, molti sporchi e oscuri disgeli, quando diventava particolarmente gravosa la vita nei distretti russi, quando tutte le facce si facevano annoiate e malevole (il russo è soggetto in modo primitivo alle influenze della natura!), ed ogni cosa al mondo, al pari della propria esistenza, accasciava per la sua inutilità, per l'assenza di ogni scopo". Questo pessimismo, però, è solo un sentimento passeggero, accanto al quale vive con maggior forza il sentimento di un legame religioso con la natura: "Il mattino era già simile a un mattino d'estate, con quella quieta semplicità propria all'estate, alla sua mite e pura aria mattutina, ai profumi del giardino solatio con tutte le sue erbe, i suoi fiori, le sue farfalle". E, infine, Arseniev raggiunge il momento più alto di spiritualità quando comtempla "il diafano cielo notturno, dove ardevano poche rare stelle, piccole, quiete e così sconfinatamente lontane e meravigliose, in verità divine, che veniva voglia di cadere in ginocchio e di farsi il segno della croce dinanzi ad esse".
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