giovedì 26 agosto 2021

Ludovico Ariosto, Orlando furioso. Garzanti, 2002.

Per gli intellettuali che durante il periodo fascista trascorrevano in carcere i migliori anni della loro giovinezza, l'Orlando furioso fu una lettura obbligata. Ernesto Rossi scriveva alla mamma: "La sera, quando sono a letto (suona la campana del riposo alle 19), leggo un canto dell'Orlando furioso, e ne ho più conforto di quando leggevo il Vangelo; mi lascio trasportare da messer Ludovico nel suo mondo d'incantesimi, maghi, grifoni, belle donne e prodi cavalieri, con maggior facilità di quella con cui potevo avvicinarmi al mondo dei miracoli, dei demoni e dello spirito santo del Vangelo". Rossi, spirito laico e piuttosto giocoso, poteva leggere l'Ariosto con molto divertimento. Massimo Mila, che era uno studioso sempre serio e riflessivo, invece mandava alla mamma, perché le annotasse su un quaderno, le indicazioni delle strofe, diciamo così, politico-patriottiche, dove l'Ariosto deprecava la condizione dell'Italia, ammorbata "dal fetore e dell'ingordigia". Vittorio Foa, spirito più disincantato e, in un certo senso, più superficiale, si limita a comunicare alla mamma di aver terminato la lettura dell'Orlando furioso, senza esprimere giudizi né impressioni. Tutti e tre questi atteggiamenti sono comprensibili e motivati: chi legge in carcere le mirabili storie dell'Ariosto, vi trova facilmente, come in un romanzo di Verne, sollievo e divertimento. Il carcerato politico (è il caso di Mila) che sente con appassionata tensione la forza delle sue convinzioni morali, è certo felice di trovare una incoraggiante conferma alle proprie scelte nelle (in verità, poche) strofe patriottiche dell'Orlando furioso. Personalmente, leggendo l'Ariosto libero da ogni condizionamento ambientale o morale, io trovo che la freddezza con cui reagì alla lettura Vittorio Foa mi è più congeniale, perché considero questo poema troppo lungo e prolisso e, in generale, noioso.  Certo la capacità dell'Ariosto di fare versi suscita meraviglia e ammirazione. I quasi quarantamila versi del suo poema, quasi tutti fluidi e chiari, sono un monumento della lingua italiana e portano fino a noi una eco della sua epoca lontana. Ma i suoi eroi non commuovono, e anche se molti versi che descrivono scontri di guerra sembrano pieni di energia, ad una più attenta riflessione appaiono piuttosto ingegnosi sul piano dell'espressione linguistica, che non drammatici per il sentimento e le emozioni.  "Ogni colpo d'Orlando o piastra o maglia E schioda e rompe ed apre e a straccio mena". "Lurcanio fa veder quanto sia forte; Che fere, urta, riversa e mette a morte".  I paesaggi sono suggestivi, ma anch'essi piuttosto stilizzati. "E riusciro in un burrone ascoso Tra monti inaccessibili alle genti".  "Culte pianure e delicati colli, Chiare acque, ombrose ripe e prati molli".  "In altra via Aspra, solinga, inospita e selvaggia".  "In una spiaggia... arsiccia, nuda, sterile e deserta". Questo paesaggio, invece, bruciato da un sole ardente, ha un vago sapore montaliano: "Stassi cheto ogni augello all'ombra molle: Sol la cicala col noioso metro Fra i densi rami del fronzuto stelo Le valli e i monti assorda, e il mare e il cielo".  A volte la strofa dell'Ariosto ha una tale cantabilità che sembra uno stornello: "Gravi pene in amor si provan molte, Di che patito io n'ho la maggior parte, E quelle in danno mio sì ben raccolte, Ch'io ne posso parlar come per arte".  Ma dell'intero poema, i versi che mi sembrano più belli, limpidi e sonanti sono i primi, che infatti sono anche i più citati: "Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori, Le cortesie, l'audaci imprese io canto...".

Nel suo complesso l'Orlando furioso è troppo prolisso. Ariosto si abbassa e si dilunga troppo a descrivere, seppur con la sapienza di un grande verseggiatore, anche i gesti e i movimenti più insignificanti. Le parti storico-didascaliche, che esaltano la famiglia d'Este o ricordano personaggi contemporanei, sono numerose e pesanti e esteticamente controproducenti. Inoltre le riflessioni morali che troviamo quasi sempre all'inizio di ogni canto sono verità banali, di elementare buon senso, che non fanno scattare l'immaginazione, non illuminano nessuna realtà profonda, né colpiscono mai per una immagine fulminante. Ma bisogna dire ancora qualcosa sul cuore del poema, cioè su quel groviglio di storie d'amore, di odio e di rivalità che si intrecciano come i frammenti di vetro colorato dentro un caleidoscopio. I racconti che Ariosto interrompe continuamente per riprendere il filo di una precedente vicenda, anche se la generalità dei critici considera sapienti questi stacchi e queste riprese, fanno perdere rilievo alla individualità dei personaggi, che già concepiti in origine in modo piuttosto generico, finiscono per appiattirsi su uno sfondo che diventa indistinto per troppa confusione. Inoltre le tante storie secondarie, raccontate tutte d'un fiato da qualche personaggio minore, sono spesso eccessivamente lunghe e prive di proporzioni compatibili con gli altri racconti. Il loro argomento è a volte così basso (per esempio, il racconto dell'uomo che odiava e scacciava le donne, e quello del marito cornuto) che, trattato con nobile e (ammettiamolo pure: ironica) serietà, alla stregua degli altri episodi del poema, dà, in questo contesto, una impressione di sbandamento e di scarso equilibrio, e che non ci sia una forte e uniforme convinzione ad ispirare tutti gli episodi di un poema così caleidoscopico. 

All'idea di armonia cosmica dell'universo, che, secondo Benedetto Croce, Ariosto ha saputo cogliere e rappresentare nel suo poema, io sostituirei, come ho accennato, le immagini del caleidoscopio, che sono sempre diverse, eppure ripetitive e sempre uguali. Non mi pare che Luigi Russo abbia accettato la tesi del Croce. Infatti scrive che "l'armonia cosmica dell'Ariosto è tutta e soltanto (le parole in corsivo sono mie) in quella continua volubilità e unità del ritmo delle sue ottave: fughe, selve profonde, trascorrere di cavalieri, mutamento improvviso di scene, l'impennarsi per il cielo dell'ippogrifo...". Oltre alla tiepidezza del Russo, il cui temperamento battagliero non poteva portarlo a simpatizzare per  la serena mediocritas dell'Ariosto, trovo convincenti solo le osservazioni di De Sanctis. "Ma non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità. Se ci mettiamo sopra la mano, la ci sfugge come ombra, e se guardiamo al di sotto, pare non ci sia nulla. Quando leggi Omero, senti uscirne le mille voci della natura, che trovano un'eco nelle tue fibre, e sembrano le tue voci, le voci della tua anima... Qui il contenuto è un giuoco dell'immaginazione, e non ti ci profondi e non ti ci appassioni, appunto perché hai il sentimento che è un giuoco". Mi sembra che i critici innamorati dell'Orlando furioso parlino come gli psicanalisti, che vogliono trovare significati sublimi e spiegazioni recondite per i gesti e i fatti più triti, ma in realtà sovrappongono i loro giudizi astratti a situazioni concrete che non li giustificano. Ecco, ad esempio, qualche riga di Lanfranco Caretti. "E ancora sarà da ammirare l'abilità consumata con cui, nel Furioso, sono reciprocamente armonizzati i momenti più estrosi e fantastici e quelli più consueti". Marcello Turchi, curatore dell'edizione Garzanti, scrive: "Ma quello che più colpisce di Rodomonte, è la 'hybris', la tracotanza del suo titanismo eversore. In un certo senso, egli, supremo assertore di un mondo ove nulla più può restare dell'immagine dell'armonia, diventerà un inconsapevole strumento dell'armonia dinamica che corre nel poema: la sua morte in duello con Ruggero acquisterà il valore di una liberazione da quanto di mostruoso atterrisce l'umana esistenza". Qui (e in tutti gli altri suoi commenti) il Turchi dimostra una fantasia davvero sfrenata. Caretti aveva già detto che nel poema "manca la catastrofe risolutiva. La morte di Rodomonte è, infatti, un accidente, non una catastrofe".  Alberto Asor Rosa, attento -da buon marxista- soprattutto agli elementi storici e culturali, sottolinea "che l'Orlando furioso splendidamente conclude quel processo di crisi della trascendenza che la cultura italiana aveva iniziato due secoli prima. L'orizzonte ideologico di Ariosto esprime una totale immanenza: l'uomo è il centro dell'universo e le sue azioni nel bene e nel male si spiegano e si esauriscono in se stesse". Quando parla di valori estetici, Asor Rosa scrive frasi altrettanto generiche. Nell'Orlando furioso "saggezza e bellezza, senso dell'equilibrio e culto della forma fanno davvero una cosa sola". Se lo dice lui....

 

 

Nessun commento: