Questa è la descrizione di Mussolini, fatta nella prefazione del 1950.
“Pur insistendo sulla parte
decisiva che egli aveva avuto negli eventi del dopoguerra italiano, ho negato a
Mussolini vera grandezza. Egli fu abile uomo di parte, non uomo di Stato, di
cui possedette solo, sia pure in larga misura, le qualità subalterne… Non
appena mancò la morfina del successo, necessaria tanto a lui quanto al regime
fascista, l’uno e l’altro si accasciarono laidamente in una agonia di cui gli
atroci sussulti non poterono mascherare l’ignominia.
Pochi tra coloro che gli eventi
portarono alla ribalta della storia furono così lontani come Mussolini dall’<eroe>
carlyliano concentrato in una grande idea, alla luce della quale penetra
profondamente nella realtà, ne semplifica, chiarisce e ordina i fatti ed i
valori. Da questo eroe Mussolini fu separato, prima ancora che dal suo
dilettantismo, da una fondamentale volgarità d’animo e di mente. La sua volontà
ne fu minata, e ne risultò quella mescolanza di debolezza e di ferocia che
sconcertò talvolta gli osservatori superficiali. […]… egli mancava di qualsiasi
vera generosità. Non quella che consisteva nel passare un sussidio a un
antifascista o ad evitargli la pena di morte, bensì a vincere in sé rancori e
paure, a cessar di fare del proprio ombelico il centro dell’universo, a tutto
sacrificare al bene supremo dell’Italia. Il crepuscolo di Mussolini e del suo
regime, invece di allungarne l’ombra, l’ha ridotta alla sua reale misura; non è
stato un crepuscolo degli Dei, ma di uomini travolti dalla tempesta che avevano
provocata, senza la bussola di un alto pensiero, di una vera fede.
Mussolini è finito come ha
vissuto. Riprovo lo scempio di Dongo e di Piazzale Loreto, non perché egli non
l’abbia meritato mille volte, ma perché sono un risoluto avversario della pena
di morte… Ma se si rimane sullo stesso piano che Mussolini ha adottato, quella
fine era inevitabile. L’uomo che ha
proclamato nel 1920 a Firenze: ‘La nostra dottrina è il fatto’, che ha
annunziato, salendo sul treno che doveva condurlo a Roma per formare il
ministero: ‘l’azione ha seppellito la filosofia’, ha deciso egli stesso il suo
destino, accettando di essere giudicato all’infuori di ogni criterio morale,
sulla semplice base del successo o dell’insuccesso, scegliendo così e non solo
metaforicamente, l’albero al quale doveva essere appiccato. […] Non mi sono mai
sognato di negare a Mussolini un certo ingegnaccio e anche, talora, notevole
lucidità. Queste qualità però erano intermittenti e precarie e mal resistevano
al flusso delle sue basse passioni, che finivano sempre col prevalere. Esse non
bastavano a sostituire il pensiero e soprattutto la coscienza che mancavano.
[…] Egli ha lavorato al timone dello Stato come un giornalista incolto e
presuntuoso, che reagisce sull’ultimo telegramma giunto in redazione e
ricomincia ogni sera, partendo da zero, la sua agile e scriteriata fatica.
[…] Parlando dei suoi inizi nella vita politica, Antonio Gramsci l’ha definito
con ragione ‘il tipo concentrato del
piccolo borghese rabbioso, feroce, impasto di tutti i detriti lasciati sul
suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti’. L’esercizio del potere ha ispessito e un po’
imbrogliato la trama di questo ritratto, senza tuttavia essenzialmente
modificarla.
[…] … l’assenza di criteri
morali, che caratterizza Mussolini, il suo odio conseguente verso il
cristianesimo, la sua esaltazione del ‘fatto’ sui principi sono una malattia
specialmente contagiosa e grave in Italia, la cui ‘società’ non ha ancora
trovato un assetto e non dispone di tradizioni, di costumi che la preservino da
eccessive oscillazioni, da rapidi sgretolamenti”.
Ma Tasca, già nell’edizione del 1938, aveva capito a fondo il suo
personaggio.
Alla fine della guerra, Mussolini “non
è ingombrato da nessun bagaglio ideologico o sentimentale. Non ha ‘né gli
scrupoli né la fedeltà della convinzione’ (Sturzo)… Prova, a riguardo del pensiero, una specie di
diffidenza e di noia che l’obbligano a gettarsi su tutto ciò che legittima l’irrazionale
e l’incoerenza… Non utilizza le idee che per sbarazzarsi delle idee. Gli si
rimprovera di aver tradito ‘i principi’? Ed egli raccoglie nelle sue
scorribande [disordinate letture] tutto ciò che toglie, o sembra togliere, ai principi la loro
sostanza, il loro potere di costrizione… Il fatto, l’azione solo contano e, sul
piano dell’azione, non si può tradire: si vince o si perde”.
Le idee generali di cui abbisogna, le prende ogni volta non
importa dove. “Gli accade così… di
raschiare dal fondo dei cassetti di redazione dei tritumi, ch’egli lancia con
un’aria di boria e di disprezzo, e dove si riconosce il duplice profilo di
Monsieur Jourdain e di Erostrato… Egli rifugge dagli schemi per cadere nei
luoghi comuni, ma i luoghi comuni, se vestiti d’immagini, hanno, in questo
paesone che è l’Italia, una enorme capacità di diffusione… Sa interpretare
tutte le grandi passioni, senza sentirle”.
L’anima del fascismo è l’esaltazione della guerra, ma Mussolini è un
pavido. “Quando scoppiò la guerra
mondiale, egli si guardò bene dal seguire i ‘garibaldini’ nelle Argonne e, dopo
il maggio 1915, di arruolarsi come il suo amico Corridoni. Egli non va al
fronte che con la sua classe. E appena è ferito, in un incidente banale nel
corso di una esercitazione, ritorna a Milano e vi resta fino alla fine della
guerra. Egli non ha preso parte a nessuna azione… Paga con i suoi trentotto
giorni di trincea lo scotto strettamente necessario per potere, senza farla
troppo sporca, ritornare al suo giornale e lottare per il suo avvenire
personale. Se non fosse partito, tutto sarebbe stato perduto per lui”.
Un suo ex commilitone scrisse una lettera all’Avanti (7 settembre 1919): “Mussolini non prese mai
parte a nessun assalto. Al momento dell’attacco,
si squagliava sempre… passando dall’una all’altra compagnia, con la connivenza,
naturalmente, del Comando”.
Anticipazione della sua fuga, quasi trent’anni dopo, con indosso il pastrano e l'elmetto di un soldato tedesco.
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