martedì 30 aprile 2019

Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo. La Nuova Italia, 2002. 2^ puntata.


Questa è la descrizione di Mussolini, fatta nella prefazione del 1950.
“Pur insistendo sulla parte decisiva che egli aveva avuto negli eventi del dopoguerra italiano, ho negato a Mussolini vera grandezza. Egli fu abile uomo di parte, non uomo di Stato, di cui possedette solo, sia pure in larga misura, le qualità subalterne… Non appena mancò la morfina del successo, necessaria tanto a lui quanto al regime fascista, l’uno e l’altro si accasciarono laidamente in una agonia di cui gli atroci sussulti non poterono mascherare l’ignominia.
Pochi tra coloro che gli eventi portarono alla ribalta della storia furono così lontani come Mussolini dall’<eroe> carlyliano concentrato in una grande idea, alla luce della quale penetra profondamente nella realtà, ne semplifica, chiarisce e ordina i fatti ed i valori. Da questo eroe Mussolini fu separato, prima ancora che dal suo dilettantismo, da una fondamentale volgarità d’animo e di mente. La sua volontà ne fu minata, e ne risultò quella mescolanza di debolezza e di ferocia che sconcertò talvolta gli osservatori superficiali. […]… egli mancava di qualsiasi vera generosità. Non quella che consisteva nel passare un sussidio a un antifascista o ad evitargli la pena di morte, bensì a vincere in sé rancori e paure, a cessar di fare del proprio ombelico il centro dell’universo, a tutto sacrificare al bene supremo dell’Italia. Il crepuscolo di Mussolini e del suo regime, invece di allungarne l’ombra, l’ha ridotta alla sua reale misura; non è stato un crepuscolo degli Dei, ma di uomini travolti dalla tempesta che avevano provocata, senza la bussola di un alto pensiero, di una vera fede.
Mussolini è finito come ha vissuto. Riprovo lo scempio di Dongo e di Piazzale Loreto, non perché egli non l’abbia meritato mille volte, ma perché sono un risoluto avversario della pena di morte… Ma se si rimane sullo stesso piano che Mussolini ha adottato, quella fine era inevitabile.  L’uomo che ha proclamato nel 1920 a Firenze: ‘La nostra dottrina è il fatto’, che ha annunziato, salendo sul treno che doveva condurlo a Roma per formare il ministero: ‘l’azione ha seppellito la filosofia’, ha deciso egli stesso il suo destino, accettando di essere giudicato all’infuori di ogni criterio morale, sulla semplice base del successo o dell’insuccesso, scegliendo così e non solo metaforicamente, l’albero al quale doveva essere appiccato. […] Non mi sono mai sognato di negare a Mussolini un certo ingegnaccio e anche, talora, notevole lucidità. Queste qualità però erano intermittenti e precarie e mal resistevano al flusso delle sue basse passioni, che finivano sempre col prevalere. Esse non bastavano a sostituire il pensiero e soprattutto la coscienza che mancavano. […] Egli ha lavorato al timone dello Stato come un giornalista incolto e presuntuoso, che reagisce sull’ultimo telegramma giunto in redazione e ricomincia ogni sera, partendo da zero, la sua agile e scriteriata fatica. […] Parlando dei suoi inizi nella vita politica, Antonio Gramsci l’ha definito con ragione  ‘il tipo concentrato del piccolo borghese rabbioso, feroce, impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti’.  L’esercizio del potere ha ispessito e un po’ imbrogliato la trama di questo ritratto, senza tuttavia essenzialmente modificarla.
[…] … l’assenza di criteri morali, che caratterizza Mussolini, il suo odio conseguente verso il cristianesimo, la sua esaltazione del ‘fatto’ sui principi sono una malattia specialmente contagiosa e grave in Italia, la cui ‘società’ non ha ancora trovato un assetto e non dispone di tradizioni, di costumi che la preservino da eccessive oscillazioni, da rapidi sgretolamenti”.
Ma Tasca, già nell’edizione del 1938, aveva capito a fondo il suo personaggio.
Alla fine della guerra, Mussolini “non è ingombrato da nessun bagaglio ideologico o sentimentale. Non ha ‘né gli scrupoli né la fedeltà della convinzione’ (Sturzo)…  Prova, a riguardo del pensiero, una specie di diffidenza e di noia che l’obbligano a gettarsi su tutto ciò che legittima l’irrazionale e l’incoerenza… Non utilizza le idee che per sbarazzarsi delle idee. Gli si rimprovera di aver tradito ‘i principi’? Ed egli raccoglie nelle sue scorribande [disordinate letture] tutto ciò che toglie, o sembra togliere, ai principi la loro sostanza, il loro potere di costrizione… Il fatto, l’azione solo contano e, sul piano dell’azione, non si può tradire: si vince o si perde”.
Le idee generali di cui abbisogna, le prende ogni volta non importa dove. “Gli accade così… di raschiare dal fondo dei cassetti di redazione dei tritumi, ch’egli lancia con un’aria di boria e di disprezzo, e dove si riconosce il duplice profilo di Monsieur Jourdain e di Erostrato… Egli rifugge dagli schemi per cadere nei luoghi comuni, ma i luoghi comuni, se vestiti d’immagini, hanno, in questo paesone che è l’Italia, una enorme capacità di diffusione… Sa interpretare tutte le grandi passioni, senza sentirle”.
L’anima del fascismo è l’esaltazione della guerra, ma Mussolini è un pavido. “Quando scoppiò la guerra mondiale, egli si guardò bene dal seguire i ‘garibaldini’ nelle Argonne e, dopo il maggio 1915, di arruolarsi come il suo amico Corridoni. Egli non va al fronte che con la sua classe. E appena è ferito, in un incidente banale nel corso di una esercitazione, ritorna a Milano e vi resta fino alla fine della guerra. Egli non ha preso parte a nessuna azione… Paga con i suoi trentotto giorni di trincea lo scotto strettamente necessario per potere, senza farla troppo sporca, ritornare al suo giornale e lottare per il suo avvenire personale. Se non fosse partito, tutto sarebbe stato perduto per lui”.
Un suo ex commilitone scrisse una lettera all’Avanti  (7 settembre 1919): “Mussolini non prese mai parte a nessun assalto.  Al momento dell’attacco, si squagliava sempre… passando dall’una all’altra compagnia, con la connivenza, naturalmente, del Comando”.
Anticipazione della sua fuga, quasi trent’anni dopo, con indosso il pastrano e l'elmetto di un soldato tedesco.

Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo. La Nuova Italia, 2002. 1^ puntata.


Angelo Tasca (1892-1960) fu espulso dal Partito comunista nel 1929 per il suo antistalinismo. Questo libro originale uscì prima in Gran Bretagna e subito dopo in Francia. Nella lunga prefazione all’edizione italiana, pubblicata solo nel 1950, Tasca scrive: “… intendevo, tra l’altro, combattere la leggenda, così diffusa specie all’estero, che il fascismo avesse salvato l’Italia dal ‘bolscevismo’, leggenda a cui manca anche quel nocciolo di verità che talora le leggende amplificano e trasfigurano… Il ‘bolscevismo’ si è distrutto da sé, sotto il peso della propria stupidità e impotenza”.
Nel libro Tasca è martellante su questo concetto: “Non è il fascismo che ha vinto la rivoluzione, è l’inconsistenza della rivoluzione che provoca il sorgere del fascismo”.
Per rafforzare questa interpretazione, cita lo storico inglese Bolton King, che egli considera autore della migliore storia del Risorgimento italiano:
“Il fascismo non ha avuto alcuna parte nella disfatta del bolscevismo; esso non era ancora abbastanza forte per esercitare un’azione sensibile qualunque; al contrario Mussolini approvò allegramente l’occupazione delle fabbriche. Non ha nessuna consistenza il mito che egli abbia salvato l’Italia dal bolscevismo; ma è un mito che al fascismo conviene e che vive ancora negli angoli morti dell’opinione pubblica”.
Quando uscì, nel 1938, il libro fu recensito da molti socialisti italiani in esilio. Emilio Lussu lo definì “un gran libro […] scritto con tale onestà e coraggio di critica da porsi fra i grandi scrittori politici del nostro tempo”. Aldo Garosci esaltò l’eccezionale misura del militante che sa farsi storico. P. Emiliani vide nel libro “il germe della riscossa proletaria che noi prepariamo e condurremo a fine”. La rivista ‘Problemi della Rivoluzione italiana’ gli dedicò un numero speciale. Giudizi entusiastici vennero anche da Gaetano Salvemini, Marc Bloch, Lucien Febvre. Nessuna recensione, invece, venne da parte comunista, ricorda Sergio Soave nel breve saggio introduttivo.
Scrivendo nel 1950 la prefazione all’edizione italiana, Tasca, severo coi comunisti anche nel secondo dopoguerra, parla del “perdurare di mentalità e di metodi di un ‘fascismo’ che deve essere vinto, anche quando la falce e il martello sostituiscono il littorio, e qualunque  siano le forme della sua nuova incarnazione”.  Perché, egli scrive, “tutte le istituzioni fatalmente tendono a vivere di vita propria, indipendentemente dalle ragioni che le hanno create… Ogni rivoluzionario deve essere dotato di un vivace spirito critico… Lo spirito anarchico è un elemento vitale integrante quello rivoluzionario, di cui garantisce la freschezza e la continuità… Esso è il fermento che impedisce la morte dell’idea, e, come tale, lo accogliamo nella nostra coscienza”. Tasca è un umanista, e crede che “possono educare veramente alla libertà solo coloro che sono pronti a condannare se stessi per averla compromessa e quindi lasciata calpestare”.
Quando ero ancora un adolescente, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, ed ero un semplice ma fiducioso militante del PCI, nella quotidiana attività delle sezioni di partito, Angelo Tasca e il suo libro non erano mai nominati o si accennava a lui come a un reprobo e a un traditore. Togliatti, nel libro  del 1953 ‘Conversando con Togliatti’ a cura di Marcella e Maurizio Ferrara (i genitori del grande Giuliano), lo tratta, se non ricordo male, anche da ignorante. La vicinanza al PCI e la fiducia, non dico puerile ma certo irrazionale o forse velleitaria, nel comunismo, mi hanno fatto scoprire certi autori e certe idee troppo tardi e con fatica.
Tasca non è solo uno storico, ma, come i grandi storici che hanno vissuto le vicende che raccontano, è anche un grande moralista. Del suo libro dice: “E’ come un braciere inesauribile da cui partiranno scintille che potranno illuminare le coscienze, turbarle, dar loro fuoco, ove ci sia materia d’incendio. […]…  quel fuoco potrà essere ritrovato da nuove generazioni. […] L’umanità non ha altra storia che questa ‘trasmigrazione’ di anime nei secoli”.
Tasca è animato da un principio morale  che ha una forza rivoluzionaria dirompente:
“Per mettere in pace la propria coscienza non basta pensare la verità […] Bisogna proclamarla in tempo utile, quando gli eventi premono e impegnano, proclamarla nella sua nudità, senza riguardi”.
Per questo Tasca respinge il giustificazionismo e lo storicismo, “risorsa suprema di tutti gli imbroglioni”, di quei politici che cercano alibi per assolversi dai propri errori. Contro questa pigra tendenza, Tasca afferma il valore essenziale della coscienza e della responsabilità della persona. Quindi  i fatti della storia vanno giudicati da un punto di vista morale e filosofico autonomo e indipendente dai fatti medesimi. Questa è la condizione per restituire al socialismo il suo compito di scoperta e di affermazione dell’universale.
La grande forza e acutezza di ritrattista, concentrato solo sulle caratteristiche morali e intellettuali dei suoi personaggi, derivano a Tasca da questa coscienza altissima, che forse gli fa considerare come una frivolezza letteraria l’attenzione anche alle caratteristiche fisiche.
               (continua al post successivo)

lunedì 29 aprile 2019

Nino Valeri, Da Giolitti a Mussolini. Momenti della crisi del liberalismo. Casa ed. Il Saggiatore, 1967.


Quest'opera di Nino Valeri (1897-1978) vinse nel 1956 il premio Viareggio per la saggistica. Nonostante sia corredato da molti documenti d’archivio, è uno smilzo libretto scritto come un diario o come un reportage giornalistico. Le sue considerazioni di storico, venendo dopo tanti libri più impegnati e drammatici, mi sono sembrate scontate. E alcuni suoi giudizi, specialmente quello in difesa dell’antifascismo di Benedetto Croce, ritenuto dai suoi critici (soprattutto da Salvemini) troppo passivo e tiepido, vogliono  sembrare molto equilibrati, ma sono piuttosto ipocriti e fiacchi.
Tuttavia alcuni passi sono interessanti e arguti.
Valeri cita un libro di Umberto Foscanelli, che aveva lavorato a Fiume a stretto contatto con D’Annunzio, e scrive che esso “ci dà la chiave per intendere, se non proprio il segreto ultimo, certo uno dei più importanti arcani di quell’arte di seduzione politica: ‘Il Comandante, per una superiore squisitezza di pensiero e di stile, non suol chiamare mai, nei suoi discorsi e nei suoi scritti, le cose con il nome comune’.
Qui veramente, scrive Valeri, si dischiude uno spiraglio di luce.
La tecnica di seduzione dannunziana “consisteva in sostanza, nella capacità di imbonire l’interlocutore (o gli interlocutori o le folle) mediante il richiamo a un qualche cosa di superiore e di ineffabile (superiore in quanto ineffabile, e ineffabile in quanto superiore) destinato a unire magicamente l’oratore e gli ascoltatori in una categoria di eletti, veleggianti al di sopra della mesta arena, dove vivono come bruti gli uomini intenti alla fatica quotidiana e ai pasti: lenti, tardi, ignari della spiritualità, rinunciatari, pacifisti, ventrosi, bovini, brutti. […] La caratteristica propria del metodo di D’Annunzio rimane… il mistero, il dare alle cose comuni nomi vaghi e leggiadri, l’innalzare il noto, grigio e banale, alla dignità dell’ignoto… Con questo sistema riuscì a ridurre via via gli avversari e i tiepidi, costringendoli o a intrupparsi nel suo gregge, come patiti, beneficati, toccati dalla sua grazia e aderenti a una superiore Idealità o Religione o Bontà o Arte, prive di qualunque contenuto concreto e intraducibile in terrestri parole; oppure a rassegnarsi ad entrare nella categoria dei cretini o degli ignavi, nati a pascolare col grugno per terra nella prateria della vita”.

lunedì 8 aprile 2019

Eugenio Scalfari compie 95 anni.

L'editoriale di Marco Travaglio "Torta alla bava" è acuto, divertente e pieno di senso della misura. Sono in disaccordo con lui solo su un piccolissimo particolare. Scalfari non dà alcuna prova di resistenza sopravvivendo alla bava dei suoi adulatori (per trovarne di eguali bisogna tornare indietro di una ottantina d'anni). Scalfari nella bava ci sta benissimo, come un topo nel formaggio. Credo inoltre che, soprattutto per quello che ha scritto ai tempi del sequestro di Aldo Moro e, ancora su Moro, alcuni anni dopo, Scalfari non meriti né indulgenza né simpatia. Atteggiandosi a cittadino fiero e intransigente come un antico romano, preoccupato solo delle istituzioni repubblicane, fu spietato; poi, subito dopo l'assassinio dello statista pugliese, fu ipocrita come un perfetto italiota. In seguito, quando furono ritrovate le carte di Via Montenevoso, dette su Moro giudizi meschini e senza misericordia.