E’ stato proprio a causa del diretto impegno
di Tocqueville nella politica attiva (fino a diventare nel 1849 ministro degli
esteri) che questi suoi Souvenirs sono un libro classico mancato che non ha raggiunto
né l’unità artistica né una costante e omogenea elevatezza di pensiero.
Se Tocqueville fosse stato solo un
testimone esterno delle vicende quarantottesche, probabilmente il suo libro
sarebbe stato più equilibrato, il suo animo meno turbato, e lui non avrebbe
rivelato quei tratti di meschinità e di ottusa incomprensione che invece
appaiono qui abbastanza spesso. Alla caduta di Luigi Filippo, egli è
profondamente deluso dalla politica e dalla attività parlamentare, a cui aveva
partecipato per dieci anni. “Ciò che mi aveva definitivamente disgustato era la
mediocrità e la monotonia degli avvenimenti parlamentari, così come la
piccineria delle passioni e la perversità volgare degli uomini che credevano di
creare o di guidare quegli avvenimenti”.
Nel nuovo parlamento, come ho già detto, Tocqueville
si sente più libero: “Mi sembrava di respirare più liberamente che non prima della
catastrofe. Mi ero sempre sentito condizionato e oppresso dentro quel mondo
parlamentare che era stato appena distrutto”.
Però, impegnandosi ora in prima persona,
come non aveva fatto prima, in una situazione sociale e politica completamente
nuova, molto più dinamica e contrastata, Tocqueville rivela i difetti del suo
carattere e quanto fosse facile venir meno allo spirito liberale anche delle sue stesse teorie.
E’ lui stesso che, senza rendersene
conto, ci aiuta a capirlo. “Ho osservato che la maggior parte di coloro che
hanno lasciato dei Mémoirs ci hanno mostrato chiaramente le loro cattive azioni
o le loro inclinazioni solo quando, per caso, le hanno considerate come prodezze
o come risultato di istinti buoni”.
Senza dubitare di sé, Tocqueville fa
un’altra riflessione che potrebbe benissimo adattarsi anche a lui. “Parlando
con loro [alcune guardie nazionali, durante l’insurrezione del giugno ‘48],
osservai con quanta spaventosa rapidità, anche in un secolo civile come il
nostro, le anime più pacifiche si mettono, per così dire, in sintonia con le
guerre civili, e quanto improvvisamente in questa epoca disgraziata si
diffondono il gusto della violenza e il
disprezzo della vita umana”.
Ecco: se Tocqueville fosse rimasto un
testimone distaccato, un osservatore appassionato ma lucido, tutti i suoi
souvenirs sarebbero stati al livello di queste osservazioni acute, umane e universali.
Il maggior limite della cultura politica
di Tocqueville è l’incomprensione delle ragioni del popolo. Egli detesta
l’insurrezione del giugno ’48, perché “non ebbe per scopo di cambiare la forma
di governo, ma di alterare l’ordinamento della società. Essa non fu una lotta
politica, ma uno scontro di classe […] Non fu che uno sforzo brutale e cieco,
ma potente, degli operai per sfuggire ai vincoli della loro condizione, che
avevano loro descritta come un’oppressione illegittima, e per aprirsi con le
armi una strada verso quel benessere immaginario che da lontano era stato loro
indicato come un diritto. E’ un miscuglio di cupidigia e di false teorie che
rese quella insurrezione così formidabile dopo averla provocata. Avevano
assicurato a quella povera gente che i beni dei ricchi erano in qualche modo il
risultato di un furto perpetrato ai suoi danni. Avevano loro assicurato che
l’ineguaglianza delle fortune era contraria sia alla morale e alla società che
alla natura”.
Queste sono idee scadenti espresse in una
prosa scadente e ipocrita. E continuamente Tocqueville blatera contro “la
cupidigia e le passioni cieche e grossolane che spingevano il popolo ad
armarsi”. Secondo lui, tra i rappresentanti del popolo, chi non era un
arrivista o un pazzo, era solo un sognatore che inseguiva chimere (per esempio Lamennais).
Ma le idee scadenti sarebbero appena un
peccatuccio veniale, se ad esse non corrispondesse, nei contatti fisici di
Tocqueville con persone del popolo, un autentico disgusto corporale; quando invece il
contatto non è così immediato da rimanerne quasi paralizzato, Tocqueville non
risparmia il sarcasmo.
Alla Festa della Concordia, celebrata il
15 maggio partecipano trecento ragazze vestite di bianco. “Un’alta fanciulla si
staccò dalle sue compagne e, fermandosi davanti a Lamartine, recitò un inno
alla sua gloria; parlando, ella poco a poco si animò talmente che assunse un
aspetto spaventoso e si mise a fare delle terribili contorsioni. L’entusiasmo
non mi era mai sembrato così prossimo all’epilessia. Quando ebbe finito, il
popolo volle che Lamartine la baciasse. La ragazza gli presentò due grosse
guance gocciolanti di sudore che Lamartine sfiorò con la punta delle labbra e piuttosto
a malincuore”. Poco prima le trecento ragazze, sfilando davanti alle autorità,
avevano gettato su di loro dei mazzi di fiori. Anche qui Tocqueville scrive, in
modo acido, che, siccome quei mazzi erano troppo grandi e venivano lanciati con
braccia robuste, “più abituate a strofinare i panni al lavatoio che non a spargere fiori,
essi cadevano su di noi come una grandine fitta e molto fastidiosa”.
Senza indignazione e senza vergogna, con
una impassibilità che rivela la paura, Tocqueville racconta questo episodio. Un
suo collega “aveva fatto venire dalla campagna e sistemato in casa propria come
domestico il figlio di un poveruomo la cui miseria l’aveva commosso. La sera
del giorno in cui l’insurrezione [di giugno] cominciò, il padrone intese questo
ragazzo che diceva, mentre sparecchiava la tavola: ‘Domenica prossima (era
giovedì), toccherà a noi mangiare le ali di pollo’; al che una ragazzina che
lavorava nella stessa casa rispose: ‘E saremo noi a portare i bei vestiti di
seta’. Che cosa potrebbe rappresentare la condizione degli animi meglio di
questa ingenua cupidigia infantile? Il padrone di casa si guardò bene dal far
capire che aveva ascoltato quei mocciosi: essi lo spaventavano troppo. Fu solo
all’indomani della vittoria che egli si permise di rispedire quel giovane
ambizioso e quella piccola vanitosa alle loro stamberghe”. E’ chiaro che
Tocqueville prova gli stessi sentimenti del suo collega, e che la vile vendetta
che questi si era presa sui due ragazzi non lo ha affatto turbato.
C’è un altro episodio molto illuminante
sulle inclinazioni e le idee sociali di Tocqueville. Egli era stato avvertito
che il portiere di casa sua lo voleva uccidere. Questo portiere era un
ubriacone e un socialista e picchiava la moglie. La sera Tocqueville torna a
casa armato e riesce a sventare il pericolo, vero o presunto, di essere
ammazzato da questo energumeno. Al mattino entra in casa sua, dal bivacco in
strada, con una sua chiave personale, il suo buon domestico, che il padrone
aveva fatto arruolare nella guardia civile. Voleva sapere se aveva bisogno di qualcosa.
“Questo bravo giovane, in modo certo, non
era socialista né per idee né per temperamento. Non era nemmeno affetto in
alcun grado dalla malattia più comune del secolo, che è l’irrequietezza dello
spirito, e anche in tempi diversi dal nostro sarebbe stato difficile incontrare
un uomo più tranquillo nella sua condizione e meno scontento della sua sorte.
Sempre molto contento di sé e abbastanza soddisfatto degli altri, egli
desiderava di solito solo ciò che era alla sua portata e otteneva più o meno, o
credeva di ottenere, tutto ciò a cui aspirava, seguendo così, a sua insaputa, i
precetti che i filosofi insegnano e non seguono quasi mai, e godendo per puro
dono naturale di quel felice equilibrio fra le possibilità e i desideri, che
solo può dare la felicità promessa dai filosofi”.
In un altro contesto, tutto l'episodio sembrerebbe caricaturale, con i ritratti del servo cattivo e del servo buono così convenzionali, che potrebbero essere fatti per derisione -mettiamo- da un Molière. Naturalmente è il servo quieto e fedele il tipo del popolano che Tocqueville ama
e idealizza. Solo quando gli scontri sono già finiti e l’insurrezione domata,
arrivano a Parigi i volontari della Manche, la regione di Tocqueville, per dar
man forte alla repressione. “Erano mille e cinquecento. Con emozione riconobbi
fra loro dei possidenti, degli avvocati, dei medici, dei coltivatori, amici
miei e miei vicini”. Sono questi i veri amici di Tocqueville. Eppure,
giudicando da testimone distaccato, da studioso obiettivo, la sua valutazione
della classe media era stata severa. Sotto il regno di Luigi Filippo, “lo
spirito particolare della classe media diventò lo spirito generale del governo
[…] spirito attivo, industrioso, spesso scostumato, in genere perbene,
temerario a volte per vanità e per egoismo, timido per temperamento, moderato
in ogni cosa, tranne che nel desiderio di benessere, e mediocre”. La classe
media da sola produrrà sempre soltanto governi senza virtù e senza grandezza. Essa,
“essendosi rinchiusa nel suo potere e, ben presto, nel proprio egoismo,
cominciò ad agire come una società privata; ciascuno dei suoi membri si
occupava degli affari pubblici quasi soltanto per volgerli a vantaggio dei
propri affari privati, dimenticando facilmente nel proprio piccolo benessere la
gente del popolo”.
In Tocqueville l’osservatore disinteressato
di caratteri e lo studioso dei fenomeni sociali sono ben superiori all’uomo politico e all’uomo tout court. Però
i difetti del politico e dell’uomo hanno compromesso, in questo libro così
personale, la qualità della scrittura.
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