Leggendo questo libro di ricordi sulle
vicende del 1848 e del 1849, che Tocqueville scrisse, in una condizione di solitudine
e di salute precaria, solo per soddisfazione e ricreazione del proprio
spirito, in totale libertà e senza l’intenzione di pubblicarlo, ho provato all’inizio
il piacere di immergermi in un’opera classica di uno scrittore pieno di
intelligenza, di sensibilità, d’ironia, di serena consapevolezza dei propri
limiti, di convinzioni salde, di passioni anche, ma temperate da una visione
superiore che sembrava garantire l’equilibrio dell’autore e un certo suo distacco
dalla realtà. Nel contesto di queste
qualità intellettuali, umane e artistiche, il moderatismo aristocratico-repubblicano
delle sue posizioni politiche mi sembrava accettabile e non mi dispiaceva
minimamente. Però, arrivato a metà del libro, quando Tocqueville, dopo una
serie di mirabili ritratti di personaggi politici e di alcune delle loro mogli,
arriva a descrivere un deputato sconosciuto che prende la parola nella nuova
Assemblea appena eletta, ho sentito con dolorosa sorpresa che lo spirito
classico di Tocqueville andava in pezzi. Lo sconosciuto oratore era il
rivoluzionario Auguste Blanqui, non ancora famoso, ma che, coetaneo di
Tocqueville, aveva già fatto quasi dieci anni di prigione ed era tornato in
libertà solo da qualche mese. Mentre nel disegnare i personaggi mediocri o
nulli del suo ambiente, Tocqueville è uno psicologo molto acuto e raffinato, usa
immagini efficaci e quasi poetiche e si appella con serietà ad alti valori
morali, nel descrivere Blanqui Tocqueville si comporta come un ritrattista che
passi bruscamente dal disegnare con fini ed eleganti matite all’uso di un rozzo
legno bruciato.
“Fu allora che vidi comparire alla
tribuna un uomo che vedevo quel giorno per la prima volta e che non ho mai più
veduto, ma il cui ricordo mi ha sempre riempito di disgusto e di orrore. Aveva
delle guance smunte e vizze, delle labbra bianche, l’aspetto malato, cattivo e
immondo, il pallore sudicio di un corpo ammuffito, nessuna biancheria visibile,
una vecchia redingote nera incollata su membra gracili e scarne. Sembrava che
fosse vissuto in una fogna e che ne fosse appena uscito. Qualcuno mi disse che
era Blanqui”.
Tocqueville scrisse i suoi ricordi due
anni dopo quell’episodio, e, benché nel frattempo avesse certamente appreso
qualche notizia più precisa sulla vita di Blanqui, la sua impressione primitiva
rimase inalterata ed egli non ebbe scrupoli a fare del rivoluzionario una descrizione
tutta fisica, superficiale e grottesca.
Il libro ha naturalmente un grande valore
sia artistico-letterario che storico-sociologico. Tocqueville vede con chiarezza
e giudica severamente la miseria dei politici e la facile degenerazione del
regime parlamentare.
La crisi del febbraio 1848, “che rovesciava
il governo, comprometteva per il tal politico tutte le possibilità di carriera,
per un altro la dote della figlia, per un altro ancora la sistemazione del
figlio. E’ con queste promesse e condizionamenti che quasi tutti i deputati
erano tenuti docili. Essi, per la maggior parte, non solo si erano innalzati
grazie alla loro servile acquiescenza, ma si può dire che ne erano vissuti, ne
vivevano ancora e speravano di poter continuare a viverne. Il governo era rimasto
in carica per otto anni ed essi si erano abituati all’idea che sarebbe durato
per sempre. Gli si erano affezionati con la tranquilla onestà con cui ci si
affeziona al proprio campo. Dal mio banco vedevo questa folla oscillante;
osservavo la sorpresa, la collera, la paura, l’avidità, turbata prima di essere
sazia, mescolare le loro espressioni diverse su quelle facce sgomente. Paragonavo
tutti quei legislatori, con l’eccezione di me, a una muta di cani che vengono
strappati alla preda quando sono ancora affamati”.
Benché di temperamento e di intelligenza
pessimista, Tocqueville si impegna per convinzione ideale nella campagna per
l’elezione dell’Assemblea costituente. I suoi sentimenti verso la politica del passato
e verso la monarchia appena caduta sono questi: “Provavo una sorta di istintiva
ripugnanza a ricordare quel miserabile mondo parlamentare di cui avevo fatto
parte nel corso di dieci anni”. E il suo giudizio non solo di testimone, ma di
storico che giudica le vicende di lungo periodo è implacabile: “… se i costumi
delle varie società sono diversi, la moralità degli uomini politici che
conducono gli affari è dappertutto la stessa […] in Francia tutti i capi di
partito che ho incontrato durante la mia vita mi sono sembrati più o meno
ugualmente indegni di comandare, gli uni per mancanza di carattere o di vera
intelligenza, la maggior parte per mancanza di qualsiasi virtù”.
Tocqueville nell’aprile del 1848 viene
eletto all’Assemblea, dove il partito che aveva fatto la rivoluzione è in
minoranza. “Alla prima seduta vidi ricomparire quasi tutti gli uomini politici
in mezzo ai quali ero vissuto”. Non avrebbe avuto, perciò, grandi motivi di
ottimismo per il futuro. “Tutti gli altri deputati erano dei novizi, come se
fossimo appena usciti dall’antico regime […] Sapevano a stento che cosa fosse
una assemblea e come ci si dovesse comportare e parlare; ne ignoravano
completamente le abitudini quotidiane e le procedure più ordinarie; nei momenti
decisivi erano distratti, ma ascoltavano con grande attenzione le cose senza
importanza”.
Sui banchi della Montagna (la sinistra
sconfitta, ma numerosa) sedevano persone che gli facevano orrore (come
Blanqui), appartenenti ad una razza sconosciuta, ad un mondo che gli sembrava
di vedere per la prima volta. “Fu per me come la scoperta di un nuovo mondo […]
Mi sembrava di vedere per la prima volta quei Montagnards, tanto il loro
linguaggio e i loro costumi mi sorpresero. Parlavano un gergo che non era
propriamente né il francese degli ignoranti né quello delle persone istruite,
ma aveva i difetti dell’uno e dell’altro, perché abbondava sia di parolacce che
di frasi ampollose”.
Nonostante tutto, Tocqueville nella nuova
Assemblea si sente a suo agio. “Sentii subito che l’atmosfera di questa
Assemblea mi piaceva e provavo in essa, malgrado la gravità degli eventi, una
specie di benessere che mi era sconosciuto. Per la prima volta, da quando ero
entrato nella vita pubblica, mi trovavo a far parte di una maggioranza e a
seguire, assieme ad essa, la sola direzione che il mio gusto, la mia ragione e
la mia coscienza mi indicavano, sensazione nuova e dolcissima”. E a quali obiettivi
portava questa direzione comune? “Non difendere alcuna causa, se non quella
della libertà e della dignità umana”.
(continua al post successivo)
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