lunedì 31 luglio 2017

Alexis de Tocqueville: Souvenirs. Gallimard, 1978. Parte prima.

Leggendo questo libro di ricordi sulle vicende del 1848 e del 1849, che Tocqueville scrisse, in una condizione di solitudine e di salute precaria, solo per  soddisfazione e ricreazione del proprio spirito, in totale libertà e senza l’intenzione di pubblicarlo, ho provato all’inizio il piacere di immergermi in un’opera classica di uno scrittore pieno di intelligenza, di sensibilità, d’ironia, di serena consapevolezza dei propri limiti, di convinzioni salde, di passioni anche, ma temperate da una visione superiore che sembrava garantire l’equilibrio dell’autore e un certo suo distacco dalla realtà.  Nel contesto di queste qualità intellettuali, umane e artistiche, il moderatismo aristocratico-repubblicano delle sue posizioni politiche mi sembrava accettabile e non mi dispiaceva minimamente. Però, arrivato a metà del libro, quando Tocqueville, dopo una serie di mirabili ritratti di personaggi politici e di alcune delle loro mogli, arriva a descrivere un deputato sconosciuto che prende la parola nella nuova Assemblea appena eletta, ho sentito con dolorosa sorpresa che lo spirito classico di Tocqueville andava in pezzi. Lo sconosciuto oratore era il rivoluzionario Auguste Blanqui, non ancora famoso, ma che, coetaneo di Tocqueville, aveva già fatto quasi dieci anni di prigione ed era tornato in libertà solo da qualche mese. Mentre nel disegnare i personaggi mediocri o nulli del suo ambiente, Tocqueville è uno psicologo molto acuto e raffinato, usa immagini efficaci e quasi poetiche e si appella con serietà ad alti valori morali, nel descrivere Blanqui Tocqueville si comporta come un ritrattista che passi bruscamente dal disegnare con fini ed eleganti matite all’uso di un rozzo legno bruciato.
“Fu allora che vidi comparire alla tribuna un uomo che vedevo quel giorno per la prima volta e che non ho mai più veduto, ma il cui ricordo mi ha sempre riempito di disgusto e di orrore. Aveva delle guance smunte e vizze, delle labbra bianche, l’aspetto malato, cattivo e immondo, il pallore sudicio di un corpo ammuffito, nessuna biancheria visibile, una vecchia redingote nera incollata su membra gracili e scarne. Sembrava che fosse vissuto in una fogna e che ne fosse appena uscito. Qualcuno mi disse che era Blanqui”.
Tocqueville scrisse i suoi ricordi due anni dopo quell’episodio, e, benché nel frattempo avesse certamente appreso qualche notizia più precisa sulla vita di Blanqui, la sua impressione primitiva rimase inalterata ed egli non ebbe scrupoli a fare del rivoluzionario una descrizione tutta  fisica, superficiale e grottesca.
Il libro ha naturalmente un grande valore sia artistico-letterario che storico-sociologico. Tocqueville vede con chiarezza e giudica severamente la miseria dei politici e la facile degenerazione del regime parlamentare.
La crisi del febbraio 1848, “che rovesciava il governo, comprometteva per il tal politico tutte le possibilità di carriera, per un altro la dote della figlia, per un altro ancora la sistemazione del figlio. E’ con queste promesse e condizionamenti che quasi tutti i deputati erano tenuti docili. Essi, per la maggior parte, non solo si erano innalzati grazie alla loro servile acquiescenza, ma si può dire che ne erano vissuti, ne vivevano ancora e speravano di poter continuare a viverne. Il governo era rimasto in carica per otto anni ed essi si erano abituati all’idea che sarebbe durato per sempre. Gli si erano affezionati con la tranquilla onestà con cui ci si affeziona al proprio campo. Dal mio banco vedevo questa folla oscillante; osservavo la sorpresa, la collera, la paura, l’avidità, turbata prima di essere sazia, mescolare le loro espressioni diverse su quelle facce sgomente. Paragonavo tutti quei legislatori, con l’eccezione di me, a una muta di cani che vengono strappati alla preda quando sono ancora affamati”. 
Benché di temperamento e di intelligenza pessimista, Tocqueville si impegna per convinzione ideale nella campagna per l’elezione dell’Assemblea costituente. I suoi sentimenti verso la politica del passato e verso la monarchia appena caduta sono questi: “Provavo una sorta di istintiva ripugnanza a ricordare quel miserabile mondo parlamentare di cui avevo fatto parte nel corso di dieci anni”. E il suo giudizio non solo di testimone, ma di storico che giudica le vicende di lungo periodo è implacabile: “… se i costumi delle varie società sono diversi, la moralità degli uomini politici che conducono gli affari è dappertutto la stessa […] in Francia tutti i capi di partito che ho incontrato durante la mia vita mi sono sembrati più o meno ugualmente indegni di comandare, gli uni per mancanza di carattere o di vera intelligenza, la maggior parte per mancanza di qualsiasi virtù”.
Tocqueville nell’aprile del 1848 viene eletto all’Assemblea, dove il partito che aveva fatto la rivoluzione è in minoranza. “Alla prima seduta vidi ricomparire quasi tutti gli uomini politici in mezzo ai quali ero vissuto”. Non avrebbe avuto, perciò, grandi motivi di ottimismo per il futuro. “Tutti gli altri deputati erano dei novizi, come se fossimo appena usciti dall’antico regime […] Sapevano a stento che cosa fosse una assemblea e come ci si dovesse comportare e parlare; ne ignoravano completamente le abitudini quotidiane e le procedure più ordinarie; nei momenti decisivi erano distratti, ma ascoltavano con grande attenzione le cose senza importanza”.
Sui banchi della Montagna (la sinistra sconfitta, ma numerosa) sedevano persone che gli facevano orrore (come Blanqui), appartenenti ad una razza sconosciuta, ad un mondo che gli sembrava di vedere per la prima volta. “Fu per me come la scoperta di un nuovo mondo […] Mi sembrava di vedere per la prima volta quei Montagnards, tanto il loro linguaggio e i loro costumi mi sorpresero. Parlavano un gergo che non era propriamente né il francese degli ignoranti né quello delle persone istruite, ma aveva i difetti dell’uno e dell’altro, perché abbondava sia di parolacce che di frasi ampollose”.
Nonostante tutto, Tocqueville nella nuova Assemblea si sente a suo agio. “Sentii subito che l’atmosfera di questa Assemblea mi piaceva e provavo in essa, malgrado la gravità degli eventi, una specie di benessere che mi era sconosciuto. Per la prima volta, da quando ero entrato nella vita pubblica, mi trovavo a far parte di una maggioranza e a seguire, assieme ad essa, la sola direzione che il mio gusto, la mia ragione e la mia coscienza mi indicavano, sensazione nuova e dolcissima”. E a quali obiettivi portava questa direzione comune? “Non difendere alcuna causa, se non quella della libertà e della dignità umana”. 
    (continua al post successivo)

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