La fama di questo romanzo mi sembra molto
esagerata. La lettura è avvincente fino a circa metà dell’opera, fino a che la
psicologia del personaggio principale non comincia a diventare gratuita, e
l’intreccio delle situazioni del tutto artificioso. Ma anche nella prima parte,
direi che l’attenzione e la partecipazione con cui si segue la storia sono le
stesse con cui si potrebbe seguire un romanzone d’appendice. Le descrizioni dei
lavori, dei mestieri, degli attrezzi, dei mercati, delle fiere, degli operai, dei campi,
delle osterie, delle strade e del chiacchiericcio della gente sono
interessanti, ma non belle. Conoscendo solo la traduzione di Luigi Berti
(1953), non sono in grado di valutare se il carattere farraginoso che io trovo
a questa prosa sia da attribuire anche al traduttore. Propendo per il sì, ma mi
pare fuori di dubbio che l’autore scriva in modo prolisso e superficiale, privo
di leggerezza e di profondità. In tutto il romanzo ho trovato solo una frase
che mi ha colpito per la sua originalità; e tuttavia, in quel contesto, mi è
parsa stonata per eccesso di intensità e di ricercatezza: “Il sole indugiava sulla collina come
una goccia di sangue su una palpebra”.
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