Nel 1960,
ripubblicando questo libretto, Salvatorelli avvertiva che esso era stato
scritto in poche settimane nel 1943 e pubblicato quasi clandestino ‘al tempo
dell’Italia divisa in due’. Il libro nacque, dunque, nella temperie morale e
politica che gli intellettuali che si opponevano al fascismo vivevano in quei
drammatici anni di guerra. Ancora nel 1960 Salvatorelli conservava intatto il
suo fervido sdegno. Pur fieramente critico dell’operato e della personalità di
Napoleone, riconosceva che egli era pur sempre figlio, anche se degenere,
dell’illuminismo, mentre “i dittatori del nostro tempo sono la feccia in fondo
al vaso di stoltezza dell’irrazionalismo e dell’attivismo contemporaneo”. Qui,
però, Salvatorelli, trascinato dalla foga democratica e per isolare meglio
nella condanna morale i dittatori del XX
secolo, contraddice se stesso. Infatti una delle pagine più interessanti del
suo libro è proprio quella in cui egli scrive che “Napoleone è l’iniziatore
dell’‘attivismo’ moderno, cioè di quella disposizione spirituale per cui
l’azione è praticata, ricercata, idoleggiata per sé, indipendentemente dal fine
e cioè dal valore morale dell’azione medesima”. Le pagine più vive e godibili
sono quelle in cui Salvatorelli disegna la personalità di Napoleone. La sua
descrizione mi pare che ricalchi non poco quella fatta da Hippolyte Taine alla
fine di Les Origines de la France contemporaine (tutto il libro primo dell’ultima parte, Le Régime moderne: circa 150 pagine). Purtroppo Salvatorelli
non cita mai il grande storico francese, dando una ulteriore conferma che,
nei confronti di Taine, c’è in Italia, se non più una congiura del silenzio,
una vera e propria rimozione.
Tuttavia alcune
sue osservazioni sono acute. Di altri grandi statisti e politici (Bismarck, Cavour) che furono
anche uomini d’azione, Salvatorelli scrive che essi avevano convinzioni
teoriche, sentimenti disinteressati, affetti personali: una vita interiore,
insomma, distinta dalle loro azioni. In Napoleone sarà sempre difficilissimo
individuare qualcosa di questo genere; c’è solo un completo vuoto spirituale.
L’unica vera trama, che collega i suoi diversi momenti, è quella
dell’affermazione a ogni costo della propria volontà, del proprio potere. L’
‘attivista puro’, l’eroe professionale è vuoto: in fondo allo scatenamento
delle sue azioni, dietro la facciata delle sue gesta non c’è nulla.
L’antifascismo
di Salvatorelli si è sviluppato nel culto del Risorgimento e della Rivoluzione
francese come sua sorgente. Ogni tanto, però, per respingere le osservazioni
più acute di quanti hanno criticato quegli eventi storici, Salvatorelli ricorre
a delle banalità e anche a delle vere e
proprie mistificazioni. Questo scadere del ragionamento rende facile anche ad
un lettore ordinario come me capire la debolezza argomentativa di un uomo di grande dottrina.
Il piccolo
capolavoro di Alessandro Manzoni, “Storia incompiuta della Rivoluzione francese”,
Salvatorelli, in un’altra sua opera, lo liquida così: “scritto senile, che non presenta alcun particolare interesse di pensiero”.
E anche nei confronti di Vincenzo Cuoco, autore del “Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799”, si mostra altrettanto incomprensivo e banale.
Anche in
questo libretto su Napoleone, pur ispirato da una sincera passione di libertà, Salvatorelli,
quando crede di dover difendere il modo dell’unificazione italiana da possibili
sospetti di arbitrio, scrive cose non vere.
Parlando dei
plebisciti di Napoleone, scrive: “Nessuno di essi fu tenuto in regime di libera
lotta politica, attraverso una discussione popolare in contraddittorio; in
nessun caso il popolo francese poté avere la sensazione di una sua libera
scelta tra alternative egualmente realizzabili; in tutti e tre i plebisciti esso
si trovava dinanzi una situazione di fatto solidamente stabilita, un potere
massiccio e ben risoluto a non ritirarsi”. Sembra proprio di leggere la
descrizione dei plebisciti italiani del 1860. Ma subito Salvatorelli, con una
prevedibile piroetta patriottica, para il colpo:
“I plebisciti
che fondarono l’unità statale italiana, pur non arrivando alla pienezza formale
del primo tipo [quando, cioè, il popolo, in ambiente di libertà, ratifica o
disapprova gli atti dei suoi rappresentanti, o esercita il supremo diritto di
autodecisione statale e nazionale], vi si avvicinarono in misura essenziale; e
furono poi integrati successivamente dallo svolgimento liberale-democratico del
regno d’Italia, svolgimento che ebbe il suo sbocco finale nel plebiscito modello
del 2 giugno 1946”.
Qui ci sono troppe
bugie e banalizzazioni; ma, senza volere, Salvatorelli offre gli
argomenti per smentirle.
Con eguale spirito di utilitarismo patriottico il nostro storico attribuisce delle buone qualità a Napoleone III e un carattere positivo alla sua politica.
“Si dovrà
riconoscere che l’aver potuto il Piemonte mantenere lo Statuto e la vita
parlamentare, e anzi svolgerli in senso progressivo, in una Italia tornata
tutta assolutistica e dominata dall’Austria vittoriosa, fu dovuto anche [?] all’ala
protettrice di Luigi Napoleone”, che ebbe, scrive Salvatorelli, sinceri
interessi europei e umani; ebbe a cuore la libertà dei popoli e l’elevazione
delle masse operaie.
Le idee e i sentimenti di Victor Hugo, Flaubert, Zola non contano nulla per Salvatorelli. Sono completamente ignorate anche le pagine splendenti di intelligenza che Tocqueville, ministro degli esteri quando Luigi Napoleone era ancora presidente della repubblica, gli dedica nei suoi 'Souvenirs'.
Per Tocqueville, il futuro imperatore, "se aveva una specie di adorazione astratta per il popolo, amava pochissimo la libertà. Il tratto caratteristico e fondamentale del suo spirito, in politica, era l'odio e il disprezzo delle assemblee". Inoltre la sua vita di avventuriero aveva sviluppato in lui il gusto e il bisogno di circondarsi di imbroglioni e furfanti, avanzi di galera e bagasce.
Le uniche critiche di Salvatorelli a Napoleone III sono avanzate in modo indiretto, in una selva di improbabili ‘se’ e ‘ma’.
Per Tocqueville, il futuro imperatore, "se aveva una specie di adorazione astratta per il popolo, amava pochissimo la libertà. Il tratto caratteristico e fondamentale del suo spirito, in politica, era l'odio e il disprezzo delle assemblee". Inoltre la sua vita di avventuriero aveva sviluppato in lui il gusto e il bisogno di circondarsi di imbroglioni e furfanti, avanzi di galera e bagasce.
Le uniche critiche di Salvatorelli a Napoleone III sono avanzate in modo indiretto, in una selva di improbabili ‘se’ e ‘ma’.
“Se egli [l’imperatore]
avesse svolto coerentemente, sino in fondo, una politica organica in favore
della nuova Italia, avrebbe potuto averla salda [?] alleata, e combinando
questa alleanza con l’amicizia austriaca e inglese, astenendosi da ogni
politica di avventura e di provocazione, impedire la guerra e la catastrofe del
1870”.
Quante approssimazioni, degne non di uno storico ma di un predicatore!
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