lunedì 8 maggio 2017

Una cronaca appassionata e divertente di sessant'anni di vita pubblica. Mémoires de la comtesse de Boigne. Mercure de France, 2003.

La contessa Adèle de Boigne, nata d’Osmond (1781-1866), apparteneva a una famiglia aristocratica e per tutta la vita visse nella cerchia ristretta dei re di Francia. Da bambina, fu testimone dei riti in uso alla corte di Luigi XVI e di Maria Antonietta; poi visse per anni a Londra, dove la famiglia era emigrata, nella sfera dell’alta aristocrazia inglese; successivamente, rientrata in patria, frequentò esclusivamente per oltre trent’anni le stanze del potere regale e parlamentare: Luigi XVIII, Carlo X, Luigi Filippo d’Orléans e i loro ministri.
Nella iniziale avvertenza ai lettori (“se ce ne saranno”), la Contessa racconta l’episodio che la spinse a scrivere i propri ricordi.
All’inizio del 1835 aveva subito un grave lutto che l’aveva molto prostrata. Qualche mese dopo, conversando con un amico gentile che cercava di alleviare il suo dolore, la Contessa gli raccontò un particolare dell’antica etichetta di Versailles, e l’amico disse:
“Voi dovreste scriverle, queste cose. Le tradizioni si perdono; vi garantisco che esse hanno già acquistato una importanza storica”.
E la Contessa cominciò a scrivere per “il bisogno di vivere nel passato”, visto che “il presente era senza gioia e l’avvenire senza speranza”.
Ma il valore umano e documentario e la qualità artistica di queste memorie vanno molto al di là della modesta intenzione che all’inizio sembrava animare la scrittrice in questa sua prima e unica fatica letteraria. Alla fine, essa risulta ispirata e composta con un equilibrio che in un’opera così vasta è raro ed eccezionale.
Già nell’avvertenza ai lettori, si sente la grande consapevolezza di sé che ispira la Contessa:
“Ricercando il passato, ho scoperto che c’era sempre qualcosa di buono da dire dei più cattivi e qualcosa di male dei migliori”.
Le decine di ritratti di duchi, contesse, regine, re, generali e ministri sono acuti, veri, sostanziosi, godibili e molto spesso divertenti.
La Contessa non fa mai sfoggio di cultura, non si dilunga sui propri pensieri, non descrive le proprie sensazioni: interpreta la realtà con una mente e una cultura classica. Senza che citi mai i grandi scrittori del passato, si sente nelle sue pagine la tradizione del Seicento e del Settecento. La Contessa non poteva conoscere le Memorie del duca di Saint-Simon (pubblicate a metà Ottocento, quando lei aveva già terminato la sua opera), tuttavia lo spirito acuto leggero e malizioso con cui osserva i suoi personaggi fa pensare ai ritratti indimenticabili del duca memorialista.
“Madame de Talleyrand, seduta in fondo a due file di poltrone, faceva gli onori di casa con calma; i resti di una grande bellezza decoravano dignitosamente la sua stupidità […] Monsieur de Talleyrand opponeva una calma imperturbabile a tutte le sciocchezze dette da Madame de Talleyrand, ma io sono convinta che egli spesso dovesse meravigliarsi di se stesso per aver potuto sposare una donna del genere”.
“Madame la duchessa di Berry aveva una statura piccola ma piacente; le braccia, le mani, il collo, le spalle erano di una bianchezza abbagliante e di forma graziosa; il colorito era bello e la testa ornata da una foresta di bellissimi capelli biondo-cenere. Tutto questo era appoggiato sui piedi più piccoli che si potessero immaginare. Quando lei era allegra o quando parlava e il suo viso si animava, il difetto dei suoi occhi era meno visibile [aveva l’occhio sinistro più grande di quello destro]. Il suo stato [di gravidanza] le impediva di danzare, ma passeggiò molte volte in mezzo ai ballerini dando il braccio al marito. Non aveva né grazia, né dignità. Camminava male e con i piedi in dentro […] Madame la duchessa di Berry era arrivata in Francia completamente ignorante di ogni cosa. Sapeva appena leggere”.
Il cavalier Legard, uomo di qualità disparate, aveva passato tutta la sua giovinezza fra i nobilotti di provincia più volgari dello Yorkshire. “Vi aveva acquisito le abitudini di una tirannia domestica di cui sua moglie era la prima vittima […] In casa lei non aveva altra autorità che quella di ordinare il pranzo, e questo compito occupava ogni giorno buona parte della sua mattinata. Una volta alla settimana, da tale ora a tale ora, né un minuto di più né un minuto di meno, sbrigava la sua corrispondenza. Dopo aver consultato l’orologio, lasciava a mezzo una pagina cominciata e si metteva a filare, rimandando la lettera alla settimana successiva. Ad un’altra ora era fissata una passeggiata di un numero fisso di giri, sempre nello stesso viale. Lei contava la quantità di orli da fare in un dato tempo, ed era importante terminare al minuto stabilito. Il marito la chiamava Signora Pendola, e aveva ragione […] Non posso fare a meno di raccontare qui una circostanza che mi colpì vivamente. Il cavalier Legard, desolato per la prospettiva di trovarsi solo con la moglie, era ancora più scorbutico del solito […] Una sera io e Lady Legard eravamo insieme sedute sui banchi di un carretto guidato dal cavaliere. Dall’altra parte del lago c’era un effetto di sole così magnifico, che io ne ero estasiata e vedevo che anche il cavaliere lo era. Egli scoppiava dal bisogno di parlarne. Alla fine si volse verso la moglie e, guardandola con il suo sguardo così intelligente, esclamò con entusiasmo: ‘Che tramonto meraviglioso!’.
‘Non sarei stupita, se domani piovesse’, rispose Lady Legard. Il marito tornò a girarsi senza dire niente, ma lo fece con un gesto pesante come di uno che cammini nel fango”.
La personalità e lo stile della Contessa di Boigne hanno tante modulazioni, e le scene riportate qui sopra esprimono solo l’aspetto più leggero, divertito e quasi frivolo della sua complessa ispirazione.
Il ritratto della duchessa di Orléans, che poi diventerà regina di Francia perché moglie di Luigi Filippo, ha, invece, una quasi solenne gravità. E quando, nel luglio del 1842, la regina perderà il figlio trentaduenne in un banale incidente, la Contessa saprà rappresentare con grande acume psicologico e partecipazione emotiva il dolore inestinguibile della madre e del re suo padre.
Ma ecco il ritratto della duchessa Amélie d’Orléans, prima che diventasse regina dei Francesi.
“Madame la duchessa d’Orléans non era bella; anzi era brutta, alta, magra, con un colorito rossiccio, gli occhi piccoli, i denti storti; però aveva il collo fine, la testa ben eretta, un’aria signorile. Indossava bene i suoi abiti, aveva grazia e molta dignità; e poi dai suoi piccoli occhi usciva uno sguardo, emanazione di un’anima così pura, così grande, così nobile, uno sguardo così vivace e pieno di sfumature, così buono   e incoraggiante, così affabile, che io personalmente lo considererei una ricompensa adeguata per qualsiasi sacrificio”.
Descrivendo il lato privato di tanti personaggi pubblici, la Contessa, senza averne probabilmente l’intenzione, disegna un vasto affresco del suo tempo. Ovunque posi lo sguardo, ha cose interessanti da osservare: persone, abitudini, categorie, scorci di paesaggio, strade affollate, atmosfere.
Le sue preferenze politiche sono per una monarchia costituzionale, e per questo avrà orrore dei repubblicani del '48. Invece per raccontare ciò che ha visto durante l’insurrezione del luglio 1830, che porterà al trono Luigi Filippo, scrive forse il suo miglior capitolo, improvvisandosi, come dice lei, “storica delle strade”. E’ meravigliata ed entusiasta “della straordinaria magnanimità di questo popolo in rivolta”, i cui capi erano gli allievi dell’Ecole polytechnique. La Contessa assiste alla costruzione di barricate. “Erano in maggioranza gli abitanti della strada che le alzavano. Niente urla, niente risse, solo una grande e tranquilla attività […] Non c’era nessuno a dirigere; tutto sembrava fatto per ispirazione”.
Gli abitanti della strada rimasti a difesa delle barricate camminavano con il fucile in spalla e una pagnotta di pane sotto il braccio. Alcuni infilzavano la pagnotta sulla punta della baionetta.
La Contessa racconta questo episodio.
Un gruppo di cittadini marciava per le vie di Parigi portando un ferito adagiato su una barella. Li guidava un allievo dell’Ecole polytechnique quasi ancora adolescente. Egli teneva in mano una spada e l’agitava ripetendo con voce grave e sonora: “Largo ai coraggiosi”. Le barricate si aprivano per lasciarli passare. Poi il corteo si fermò perché non conosceva la strada per andare all’ospedale Beaujon. L’allievo che, per l’elevazione del terreno, si trovava a dominare la scena, allungò il braccio e la spada e, con la sua bella voce grave e sonora, esclamò con espressione ispirata: “Pace ai coraggiosi!”. Tutti coloro che erano nella strada si inginocchiarono.
Le Memorie della Contessa di Boigne sono una sorta di enciclopedia dell’esistenza. Accanto a nascite, amori, matrimoni, carriere, delitti, intrighi, lotte e malattie, troviamo spesso la morte, molte morti, ad alcune delle quali la Contessa dedica capitoli che potrebbero essere letti come racconti compiuti, scritti con drammaticità e grande finezza  psicologica. La morte del duca di Berry, la morte di Talleyrand, la morte della principessa Maria d’Orléans, quella di suo fratello il duca d’Orléans, eccetera. La morte di questi grandi personaggi dell’aristocrazia, tranne quella del duca di Berry, assassinato da un fanatico, assomiglia in tutto alla morte banale  delle persone qualunque, senza nome né condizione. In quell'epoca ‘democratica’, anche i nobili morivano ormai di stupide malattie (per es., per non aver cambiato i vestiti bagnati dopo aver attraversato un fiume, oppure per l’errore di un ostetrico), o per volgari incidenti.  
Anche la morte si era imborghesita: era finita la gran pompa di una volta e il dolore e lo stupore erano diventati più intimi e personali.
Come nella lettura di un bel romanzo, leggendo questa cronaca straordinaria, ci si sente partecipi della complessità e varietà dell'esistenza, trascinati dalla curiosità e dal caldo interesse per le persone che sempre ispirano la contessa di Boigne. Non ricordo molte opere che, come questa, siano in grado di far sentire anche il lettore di oggi così “in confidenza” con uomini e usanze di un mondo già tanto lontano.  
Perciò si rimane un po’ meravigliati e quasi delusi, quando questa lunga e generosa vita si chiude dolorosamente nel silenzio e nella rinuncia.
“La mia vita è diventata troppo scialba”, sono le ultime parole del libro, “ed io sono troppo indifferente a ciò che accade nel mondo per avere ancora qualcosa da raccontare”.

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