La
contessa Adèle de Boigne, nata d’Osmond (1781-1866), apparteneva a una famiglia
aristocratica e per tutta la vita visse nella cerchia ristretta dei re di
Francia. Da bambina, fu testimone dei riti in uso alla corte di Luigi XVI e di
Maria Antonietta; poi visse per anni a Londra, dove la famiglia era emigrata,
nella sfera dell’alta aristocrazia inglese; successivamente, rientrata in
patria, frequentò esclusivamente per oltre trent’anni le stanze del potere
regale e parlamentare: Luigi XVIII, Carlo X, Luigi Filippo d’Orléans e i loro
ministri.
Nella
iniziale avvertenza ai lettori (“se ce ne saranno”), la Contessa racconta
l’episodio che la spinse a scrivere i propri ricordi.
All’inizio
del 1835 aveva subito un grave lutto che l’aveva molto prostrata. Qualche mese
dopo, conversando con un amico gentile che cercava di alleviare il suo dolore,
la Contessa gli raccontò un particolare dell’antica etichetta di Versailles, e
l’amico disse:
“Voi
dovreste scriverle, queste cose. Le tradizioni si perdono; vi garantisco che
esse hanno già acquistato una importanza storica”.
E
la Contessa cominciò a scrivere per “il bisogno di vivere nel passato”, visto
che “il presente era senza gioia e l’avvenire senza speranza”.
Ma il valore umano e documentario e la qualità artistica di queste memorie vanno molto
al di là della modesta intenzione che all’inizio sembrava animare la scrittrice
in questa sua prima e unica fatica letteraria. Alla fine, essa risulta ispirata
e composta con un equilibrio che in un’opera così vasta è raro ed eccezionale.
Già
nell’avvertenza ai lettori, si sente la grande consapevolezza di sé che ispira
la Contessa:
“Ricercando
il passato, ho scoperto che c’era sempre qualcosa di buono da dire dei più
cattivi e qualcosa di male dei migliori”.
Le
decine di ritratti di duchi, contesse, regine, re, generali e ministri
sono acuti, veri, sostanziosi, godibili e molto spesso divertenti.
La
Contessa non fa mai sfoggio di cultura, non si dilunga sui propri pensieri, non
descrive le proprie sensazioni: interpreta la realtà con una mente e una
cultura classica. Senza che citi mai i grandi scrittori del passato, si sente nelle sue pagine la tradizione del Seicento e del Settecento. La Contessa non poteva conoscere le
Memorie del duca di Saint-Simon (pubblicate a metà Ottocento, quando lei aveva
già terminato la sua opera), tuttavia lo spirito acuto leggero e malizioso con
cui osserva i suoi personaggi fa pensare ai ritratti indimenticabili del
duca memorialista.
“Madame
de Talleyrand, seduta in fondo a due file di poltrone, faceva gli onori di casa
con calma; i resti di una grande bellezza decoravano dignitosamente la sua
stupidità […] Monsieur de Talleyrand opponeva una calma imperturbabile a tutte
le sciocchezze dette da Madame de Talleyrand, ma io sono convinta che egli
spesso dovesse meravigliarsi di se stesso per aver potuto sposare una donna del
genere”.
“Madame
la duchessa di Berry aveva una statura piccola ma piacente; le braccia, le
mani, il collo, le spalle erano di una bianchezza abbagliante e di forma
graziosa; il colorito era bello e la testa ornata da una foresta di bellissimi
capelli biondo-cenere. Tutto questo era appoggiato sui piedi più piccoli che si
potessero immaginare. Quando lei era allegra o quando parlava e il suo viso si
animava, il difetto dei suoi occhi era meno visibile [aveva l’occhio sinistro
più grande di quello destro]. Il suo stato [di gravidanza] le impediva di
danzare, ma passeggiò molte volte in mezzo ai ballerini dando il braccio al
marito. Non aveva né grazia, né dignità. Camminava male e con i piedi in dentro
[…] Madame la duchessa di Berry era arrivata in Francia completamente ignorante
di ogni cosa. Sapeva appena leggere”.
Il
cavalier Legard, uomo di qualità disparate, aveva passato tutta la sua giovinezza
fra i nobilotti di provincia più volgari dello Yorkshire. “Vi aveva acquisito
le abitudini di una tirannia domestica di cui sua moglie era la prima vittima
[…] In casa lei non aveva altra autorità che quella di ordinare il pranzo, e
questo compito occupava ogni giorno buona parte della sua mattinata. Una volta
alla settimana, da tale ora a tale ora, né un minuto di più né un minuto di
meno, sbrigava la sua corrispondenza. Dopo aver consultato l’orologio, lasciava
a mezzo una pagina cominciata e si metteva a filare, rimandando la lettera alla
settimana successiva. Ad un’altra ora era fissata una passeggiata di un numero
fisso di giri, sempre nello stesso viale. Lei contava la quantità di orli da
fare in un dato tempo, ed era importante terminare al minuto stabilito. Il
marito la chiamava Signora Pendola, e aveva ragione […] Non posso fare a meno
di raccontare qui una circostanza che mi colpì vivamente. Il cavalier Legard,
desolato per la prospettiva di trovarsi solo con la moglie, era ancora più scorbutico
del solito […] Una sera io e Lady Legard eravamo insieme sedute sui banchi di un
carretto guidato dal cavaliere. Dall’altra parte del lago c’era un effetto di
sole così magnifico, che io ne ero estasiata e vedevo che anche il cavaliere lo
era. Egli scoppiava dal bisogno di parlarne. Alla fine si volse verso la moglie
e, guardandola con il suo sguardo così intelligente, esclamò con entusiasmo:
‘Che tramonto meraviglioso!’.
‘Non
sarei stupita, se domani piovesse’, rispose Lady Legard. Il marito tornò a girarsi
senza dire niente, ma lo fece con un gesto pesante come di uno che cammini nel
fango”.
La
personalità e lo stile della Contessa di Boigne hanno tante modulazioni, e le
scene riportate qui sopra esprimono solo l’aspetto più leggero, divertito e
quasi frivolo della sua complessa ispirazione.
Il
ritratto della duchessa di Orléans, che poi diventerà regina di Francia perché
moglie di Luigi Filippo, ha, invece, una quasi solenne gravità. E quando,
nel luglio del 1842, la regina perderà il figlio trentaduenne in un banale
incidente, la Contessa saprà rappresentare con grande acume psicologico e
partecipazione emotiva il dolore inestinguibile della madre e del re suo padre.
Ma
ecco il ritratto della duchessa Amélie d’Orléans, prima che diventasse regina
dei Francesi.
“Madame
la duchessa d’Orléans non era bella; anzi era brutta, alta, magra, con un
colorito rossiccio, gli occhi piccoli, i denti storti; però aveva il collo
fine, la testa ben eretta, un’aria signorile. Indossava bene i suoi abiti,
aveva grazia e molta dignità; e poi dai suoi piccoli occhi usciva uno sguardo,
emanazione di un’anima così pura, così grande, così nobile, uno sguardo così
vivace e pieno di sfumature, così buono e incoraggiante, così affabile, che io
personalmente lo considererei una ricompensa adeguata per qualsiasi
sacrificio”.
Descrivendo
il lato privato di tanti personaggi pubblici, la Contessa, senza averne
probabilmente l’intenzione, disegna un vasto affresco del suo tempo. Ovunque
posi lo sguardo, ha cose interessanti da osservare: persone, abitudini,
categorie, scorci di paesaggio, strade affollate, atmosfere.
Le
sue preferenze politiche sono per una monarchia costituzionale, e per questo avrà orrore dei repubblicani del '48. Invece per
raccontare ciò che ha visto durante l’insurrezione del luglio 1830, che porterà al trono Luigi Filippo, scrive
forse il suo miglior capitolo, improvvisandosi, come dice lei, “storica delle
strade”. E’ meravigliata ed entusiasta “della straordinaria magnanimità di
questo popolo in rivolta”, i cui capi erano gli allievi dell’Ecole polytechnique.
La Contessa assiste alla costruzione di barricate. “Erano in maggioranza gli
abitanti della strada che le alzavano. Niente urla, niente risse, solo una
grande e tranquilla attività […] Non c’era nessuno a dirigere; tutto sembrava
fatto per ispirazione”.
Gli
abitanti della strada rimasti a difesa delle barricate camminavano con il
fucile in spalla e una pagnotta di pane sotto il braccio. Alcuni infilzavano la
pagnotta sulla punta della baionetta.
La
Contessa racconta questo episodio.
Un
gruppo di cittadini marciava per le vie di Parigi portando un ferito adagiato
su una barella. Li guidava un allievo dell’Ecole
polytechnique quasi ancora adolescente. Egli teneva in mano una spada e l’agitava ripetendo con voce
grave e sonora: “Largo ai coraggiosi”. Le barricate si aprivano per lasciarli
passare. Poi il corteo si fermò perché non conosceva la strada per andare
all’ospedale Beaujon. L’allievo che, per l’elevazione del terreno, si trovava a
dominare la scena, allungò il braccio e la spada e, con la sua bella voce grave
e sonora, esclamò con espressione ispirata: “Pace ai coraggiosi!”. Tutti coloro
che erano nella strada si inginocchiarono.
Le
Memorie della Contessa di Boigne sono una sorta di enciclopedia dell’esistenza.
Accanto a nascite, amori, matrimoni, carriere, delitti, intrighi, lotte e
malattie, troviamo spesso la morte, molte morti, ad alcune delle quali la
Contessa dedica capitoli che potrebbero essere letti come racconti compiuti,
scritti con drammaticità e grande finezza psicologica.
La morte del duca di Berry, la morte di Talleyrand, la morte della principessa
Maria d’Orléans, quella di suo fratello il duca d’Orléans, eccetera. La morte di
questi grandi personaggi dell’aristocrazia, tranne quella del duca di Berry,
assassinato da un fanatico, assomiglia in tutto alla morte banale delle persone qualunque, senza nome né
condizione. In quell'epoca ‘democratica’, anche i nobili morivano ormai di
stupide malattie (per es., per non aver cambiato i vestiti bagnati dopo aver
attraversato un fiume, oppure per l’errore di un ostetrico), o per volgari
incidenti.
Anche
la morte si era imborghesita: era finita la gran pompa di una volta e il dolore e
lo stupore erano diventati più intimi e personali.
Come
nella lettura di un bel romanzo, leggendo questa cronaca straordinaria, ci si
sente partecipi della complessità e varietà dell'esistenza, trascinati dalla
curiosità e dal caldo interesse per le persone che sempre ispirano la contessa
di Boigne. Non ricordo molte opere che, come questa, siano in grado di far
sentire anche il lettore di oggi così “in confidenza” con uomini e usanze di un
mondo già tanto lontano.
Perciò
si rimane un po’ meravigliati e quasi delusi, quando questa lunga e generosa vita si
chiude dolorosamente nel silenzio e nella rinuncia.
“La
mia vita è diventata troppo scialba”, sono le ultime parole del libro, “ed io sono troppo indifferente a ciò che accade nel mondo per avere ancora qualcosa
da raccontare”.
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