Luigi
Russo, il più battagliero dei nostri critici, che scriveva con lucidità di
giudizio, con apostolico fervore e veemente eloquenza (Emerico Giachery), in questo saggio su Verga, forse proprio per il suo
spirito di apostolo e di educatore, manifesta un ottimismo politico e, direi, mistico
che non si può condividere, perché la realtà dei fatti lo smentisce.
Secondo
lui, gli “scrittori provinciali”, come Verga, De Roberto, Pirandello (e
parecchi altri), “scoprivano la loro più vera patria nella provincia [...] non già
per reazione all’unitarismo politico trionfante, ma per la collaborazione più
intima a quel movimento unitario, che non poteva e non doveva appagarsi di un
livellamento giacobino delle varie regioni, ma che meglio si attuava là dove
l’individualità delle regioni fosse più scoperta e consapevole”. Sono parole,
queste, ottimistiche e un po’ vacue, che ignorano troppi problemi e perfino la
corretta interpretazione dei testi (mi riferisco ai romanzi di De Roberto e di
Pirandello, che ricordo meglio).
Più
realisticamente, anche se con prudente genericità, Natalino Sapegno, nel 1945, dopo
vent’anni di retorica fascista, scriveva:
“In
Italia il verismo doveva proporsi come il frutto più maturo, in letteratura,
del ripiegamento riflessivo che tenne dietro al moto del Risorgimento, nell’ora
in cui si rendevano chiare agli occhi di molti le insufficienze della
rivoluzione testé compiuta, il parziale fallimento delle speranze vagheggiate,
l’instabile equilibrio dell’unità raggiunta con mezzi in gran parte esterni,
provvisori, effimeri; la sopravvivenza, sotto la vernice della democrazia e della
libertà, di una struttura politica essenzialmente burocratica e poliziesca…”
(Ritratto di Manzoni ed altri saggi).
E già Piero Gobetti aveva scritto che "dopo il '61 si assistette ad una serie di reazioni locali e di violento regionalismo [...] che cercarono e sfruttarono tutte le tradizioni antiunitarie delle città e delle province" (Risorgimento senza eroi).
E già Piero Gobetti aveva scritto che "dopo il '61 si assistette ad una serie di reazioni locali e di violento regionalismo [...] che cercarono e sfruttarono tutte le tradizioni antiunitarie delle città e delle province" (Risorgimento senza eroi).
L’ottimismo
dell’idealista Russo mi sembra, poi, assumere una coloritura mistica là dove
polemizza con le teorie di Hippolyte Taine.
Povero
Taine! E’ stato un grande storico e un grande artista, che in Italia, però, nel
corso dei circa 150 anni che ci separano dalle sue opere, non ha trovato uno
straccio di riconoscimento. Nella cultura italiana, per quel che ne so, il suo
nome è sempre accompagnato da critiche standardizzate e da facili ironie.
Eppure, a me pare che, senza le idee di Taine, l'odierno consorzio umano,
costituito da masse di anarchici-conformisti, sia incomprensibile. Gli idealisti misticheggianti,
i cattolici, i laici ‘papisti’, i
marxisti da biblioteca dimostrano una perniciosa incapacità di capire la
realtà: formano tutti una schiera compatta di intellettuali egualmente
velleitari, buonisti e... insensibili.
“Tutto
il movimento naturalistico europeo, e in particolare quello francese, scrive
Russo, per la influenza delle teorie di un Taine, era dominato da una
concezione deterministica della realtà. L’individuo era alla mercé delle forze
cieche e ignare […] l’umanità tutta era prigioniera di un meccanismo originario”.
Le
idee dominanti di Taine costituivano, secondo Russo, “una troppo accomodante,
piatta e rassegnata visione del mondo come rapporto di cause ed effetti, che
esonerava gli uomini da ogni loro interna responsabilità, e faceva di essi dei
manichini della natura e della società”.
Parole come queste hanno purtroppo ancora corso nella nostra cultura, il cui tratto prevalente sembra essere la mancanza di realismo. Invece di un severo e onesto sentimento della realtà, troviamo in essa un velleitarismo inerte e privo di generosità. Pensare di disconnettere il rapporto necessario di causa ed effetto, di poter cambiare perfino la natura dell'uomo (come ha sognato di fare il comunismo) o è una vuota frase propagandistica oppure, come è già stato in passato, un atto di violenta ottusità. Nella retorica corrente è quasi sempre un facile tentativo di darsi delle arie da demiurgo. Inversamente, accettare il rapporto di causa ed effetto, dove esso è veramente inalterabile, non costituisce affatto automaticamente una visione piatta e accomodante del mondo; non comporta in nessun modo, come invece sostiene Russo, alcuna
rassegnazione né esonera dalla responsabilità morale.
Quando, nell'ultima parte della sua imponente opera "Le origini della Francia contemporanea", Taine descrive tutti gli aspetti della nuova società creata dal regime di Napoleone, egli anticipa le analisi di Herbert Marcuse in "L'uomo a una dimensione".
Sotto l'impero napoleonico, gli uomini sono condizionati da uno Stato centralizzatore e invadente che ha conquistato il controllo di tutte le società locali e aspira a dominare anche le società morali (fra le quali, importantissime, le chiese).
Con questa somma di poteri, lo Stato potrà determinare non più solo le azioni esterne dell'uomo, ma anche influenzare direttamente il suo pensiero, la sua volontà e tutta la sua vita interiore.
Gli uomini saranno, così, manovrabili completamente, a discrezione.
Nei regimi totalitari del XX secolo, questa situazione si è realizzata in modo pieno e tragico; e oggi, nelle società 'morbide' in cui viviamo, essa è in atto in modo molto più capillare e radicato (basta accendere la televisione per rendersene conto).
Russo sintetizza in modo fazioso le idee di Taine, e poi aggiunge: per fortuna i grandi artisti che vi aderirono, nel lavoro concreto “dissolvevano cotesta volgare mitologia, e nelle loro opere restaurarono […] quel mondo della libertà, che i filosofi e i sociologi con mano troppo pesante avevano soffocato”.
Sotto l'impero napoleonico, gli uomini sono condizionati da uno Stato centralizzatore e invadente che ha conquistato il controllo di tutte le società locali e aspira a dominare anche le società morali (fra le quali, importantissime, le chiese).
Con questa somma di poteri, lo Stato potrà determinare non più solo le azioni esterne dell'uomo, ma anche influenzare direttamente il suo pensiero, la sua volontà e tutta la sua vita interiore.
Gli uomini saranno, così, manovrabili completamente, a discrezione.
Nei regimi totalitari del XX secolo, questa situazione si è realizzata in modo pieno e tragico; e oggi, nelle società 'morbide' in cui viviamo, essa è in atto in modo molto più capillare e radicato (basta accendere la televisione per rendersene conto).
Russo sintetizza in modo fazioso le idee di Taine, e poi aggiunge: per fortuna i grandi artisti che vi aderirono, nel lavoro concreto “dissolvevano cotesta volgare mitologia, e nelle loro opere restaurarono […] quel mondo della libertà, che i filosofi e i sociologi con mano troppo pesante avevano soffocato”.
Ma bisogna essere ciechi o in malafede per sostenere che la denuncia di questa condizione umana di sottosviluppo morale e intellettuale equivalga a concepire gli uomini come manichini privi di coscienza e di responsabilità. Semmai, vale il contrario: chi denuncia offre una speranza di liberazione.
Russo vede anche in Verga “un’ombra di coteste teorie deterministiche, ma il determinismo verghiano, aggiunge, si è improvvisamente allargato, non è più la gretta materialità dell’ambiente e della razza che opprime i protagonisti dei racconti [dello scrittore siciliano], ma una assai più grandiosa e oscura divinità, che può chiamarsi il destino, e che pesa su tutto, sugli uomini e anche sulle cose, e che è come l’eterno limite di tutte le aspirazioni umane”.
Russo vede anche in Verga “un’ombra di coteste teorie deterministiche, ma il determinismo verghiano, aggiunge, si è improvvisamente allargato, non è più la gretta materialità dell’ambiente e della razza che opprime i protagonisti dei racconti [dello scrittore siciliano], ma una assai più grandiosa e oscura divinità, che può chiamarsi il destino, e che pesa su tutto, sugli uomini e anche sulle cose, e che è come l’eterno limite di tutte le aspirazioni umane”.
Peccherò
forse di scarsa fantasia, ma dire che i bisogni elementari dei
personaggi di Verga vanno oltre la “gretta materialità dell’ambiente”, fino a scontrarsi con “l’eterno limite di tutte le aspirazioni umane”, mi sembra un
esercizio vuoto di bello stile.
Russo
ha sensibilità e acume all’altezza dell’arte di Verga; ma se l’autore de I
Malavoglia rappresenta i suoi personaggi come dei vinti schiacciati dal destino, Russo, che pure apprezza, meritoriamente, sul
piano della poesia, il carattere eroico della loro rassegnazione, ne dà una interpretazione arbitraria quando scrive che essi, accettando il loro
calvario fino in fondo, senza limiti, "trascendono la legge machiavellica del più forte, che domina tutte le cose del mondo e contro la quale è vano e presuntuoso protestare".
Dalle vive pagine dei suoi libri, Hippolyte Taine, accusato di concepire gli uomini come manichini, ride di questo annichilimento liberatorio che Russo celebra nei personaggi di Verga.
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