giovedì 6 aprile 2017

Luigi Russo: "Giovanni Verga". Laterza, 1968. - Prima parte.

Il saggio di Russo si apre con queste parole: “Dedico questo libro alla memoria dei miei genitori, la cui pia immagine è accorsa e mi ha accompagnato più assidua e pungente descrivendo l’arte di un mondo che fu la loro realtà biografica”.
Benché io sia nato cinquant’anni dopo Russo, ho fatto in tempo a conoscere (in Abruzzo, nel Lazio, nel Molise) gli ultimi abitanti di quel mondo, e mi sono sempre  sentito così vicino ad essi e alla loro storia, che il mio sentimento di fare parte del popolo italiano deriva soprattutto dal legame affettivo e morale con loro, con le loro terre e con i loro paesi, più che dall’influenza che hanno potuto avere su di me la letteratura e l’arte nazionali.
Grazie alla simpatia per una realtà contadina che, nella mia giovinezza, avevo potuto solo intravedere, ho sempre seguito con curiosità appassionata le vecchie inchieste degli anni Cinquanta e Sessanta che la televisione ciclicamente ritrasmette. 
Gli uomini e le donne mostrati da quelle immagini facevano lavori durissimi; la loro povertà era impressionante e le facce indimenticabili. Parlavano in modo sobrio, con dignità e calma. Accettavano il loro destino in modo così completo da suscitare nello spettatore una commossa meraviglia.
Giovanni Verga è stato il grande poeta di quella gente. Gli umili erano stati assunti per la prima volta nel mondo della poesia da un poeta cristiano come il Manzoni, ma i ‘primitivi’ descritti dal romanziere siciliano, scrive Russo, erano disegnati in modo asciutto nella loro intima logica, senza appigli ad eleganti idealizzazioni, e senza nemmeno lo sfondo della fede cattolica tradizionale.
Il libro di Russo, pubblicato nel 1919, lamentava che Verga fosse uno scrittore di cui, sì, veniva riconosciuta la grande qualità d’arte, ma senza amore: egli stava isolato e solitario nella sua chiusa grandezza.
I critici e il pubblico, spiega Russo, amano una letteratura di confessioni e sensazioni, mentre l’arte di Verga è spoglia di civetterie formali, di significati estranei e stravaganti, di psicologia recondita, di sovrastrutture idealistiche. Niente complicazioni, niente esotismi e capricci di colore; nemmeno un’ombra di biografismo decadente, da cui non fu salva, scrive Russo, nemmeno l’opera sana di Giosuè Carducci.
L’arte del Verga, riconosce il nostro critico, aveva qualcosa di angusto, e di chiuso, e di elementare e di ingenuo, ma solo come semplice contenuto. Essa, perciò, non poteva gran che lusingare la selvaggia avidità di sensazioni dei nostri raffinati ulìssidi, perché, nella sua compiutezza espressiva e nella assenza di una morale pratica, cioè di quelle regole di vita che i lettori cercano avidamente, quest’arte non lasciava margine ai capricci e alla fantasticheria di chi legge e alla sua abilità di psicologista.
Il mondo descritto da Verga è un mondo angusto e provinciale, ma egli per la sua potenza lirica è superiore a tanti acclamati scrittori “europei”, compreso, dice Russo, Balzac. Non si diventa europei andando a Parigi o a Londra o a Berlino o a Budapest; ma si nasce europei anche in provincia.
Verga riprende l’idea romantica che considerava il popolo come produttore ingenuo di poesia, serbatoio di energie morali. Il pessimista Verga solo in questo non fu pessimista, sostiene Russo: nel fondo primitivo dell’umanità, seppe trovare una sanità e una profondità di sentire, che non c’era più nelle società aristocratiche e complicate.
A distanza di un secolo dalla celebrazione appassionata che Russo ha fatto dell’arte di Verga, possiamo chiederci quale sia stata la parabola dello scrittore siciliano. Purtroppo è stata una parabola molto corta. Mentre D’Annunzio ha influenzato per quasi mezzo secolo lo stile e i sentimenti di tutti gli impiegatucci d’Italia, la fama di Verga ha avuto un momento alto nel secondo dopoguerra, e subito si è spenta, soffocata nella eccitazione edonistica e nella avidità consumistica della ricostruzione economica, e in una condizione di letargia politica e di compromessi segreti fra partiti di governo e forze di opposizione.  Molto presto la letteratura e il cinema, che avevano tratto ispirazione dal magistero di Verga, si sono ridotti al piccolo cabotaggio, all’intrattenimento psicologico e all’erotismo da salotto.
Il mondo contadino come lo aveva conosciuto Verga era già in via di estinzione. I figli e i nipoti di quei contadini, diventati all’improvviso impiegati, insegnanti e professionisti, non hanno più avuto la sobrietà e la pazienza dei padri e dei nonni, ma si sono portati dietro tutto il peso di un egoismo che per i loro antenati, padri e nonni, nelle estreme condizioni della loro esistenza, era necessario e naturale, ma che in loro, i discendenti, ha assunto un carattere meschino e corrotto.
Il serbatoio di energie morali che, secondo Russo, Verga ha visto nel popolo, si è esaurito presto! Nella realtà, la sanità e i sentimenti profondi che lo scrittore siciliano ha trovato nel fondo primitivo dell'umanità sono solo uno stato passeggero legato ai cambiamenti sociali, ed è impossibile farci sicuro affidamento.
   
(continua al post successivo)

Nessun commento: