Il
saggio di Russo si apre con queste parole: “Dedico questo libro alla memoria dei miei genitori, la cui pia
immagine è accorsa e mi ha accompagnato più assidua e pungente descrivendo
l’arte di un mondo che fu la loro realtà biografica”.
Benché
io sia nato cinquant’anni dopo Russo, ho fatto in tempo a conoscere (in
Abruzzo, nel Lazio, nel Molise) gli ultimi abitanti di quel mondo, e mi sono
sempre sentito così vicino ad essi e
alla loro storia, che il mio sentimento di fare parte del popolo italiano
deriva soprattutto dal legame affettivo e morale con loro, con le loro terre e
con i loro paesi, più che dall’influenza che hanno potuto avere su di me la
letteratura e l’arte nazionali.
Grazie
alla simpatia per una realtà contadina che, nella mia giovinezza, avevo potuto solo
intravedere, ho sempre seguito con curiosità appassionata le vecchie inchieste
degli anni Cinquanta e Sessanta che la televisione ciclicamente
ritrasmette.
Gli
uomini e le donne mostrati da quelle immagini facevano lavori durissimi; la
loro povertà era impressionante e le facce indimenticabili. Parlavano in modo
sobrio, con dignità e calma. Accettavano il loro destino in modo così completo da
suscitare nello spettatore una commossa meraviglia.
Giovanni
Verga è stato il grande poeta di quella gente. Gli umili erano stati assunti
per la prima volta nel mondo della poesia da un poeta cristiano come il
Manzoni, ma i ‘primitivi’ descritti dal romanziere siciliano, scrive Russo,
erano disegnati in modo asciutto nella loro intima logica, senza appigli ad eleganti
idealizzazioni, e senza nemmeno lo sfondo della fede cattolica tradizionale.
Il
libro di Russo, pubblicato nel 1919, lamentava che Verga fosse uno scrittore di
cui, sì, veniva riconosciuta la grande qualità d’arte, ma senza amore: egli
stava isolato e solitario nella sua chiusa grandezza.
I
critici e il pubblico, spiega Russo, amano una letteratura di confessioni e
sensazioni, mentre l’arte di Verga è spoglia di civetterie formali, di
significati estranei e stravaganti, di psicologia recondita, di sovrastrutture
idealistiche. Niente complicazioni, niente esotismi e capricci di colore; nemmeno
un’ombra di biografismo decadente, da cui non fu salva, scrive Russo, nemmeno
l’opera sana di Giosuè Carducci.
L’arte
del Verga, riconosce il nostro critico, aveva qualcosa di angusto, e di chiuso,
e di elementare e di ingenuo, ma solo come semplice contenuto. Essa, perciò,
non poteva gran che lusingare la selvaggia avidità di sensazioni dei nostri
raffinati ulìssidi, perché, nella sua compiutezza espressiva e nella assenza di
una morale pratica, cioè di quelle regole di vita che i lettori cercano
avidamente, quest’arte non lasciava margine ai capricci e alla fantasticheria di
chi legge e alla sua abilità di psicologista.
Il
mondo descritto da Verga è un mondo angusto e provinciale, ma egli per la sua
potenza lirica è superiore a tanti acclamati scrittori “europei”, compreso, dice
Russo, Balzac. Non si diventa europei andando a Parigi o a Londra o a Berlino o
a Budapest; ma si nasce europei anche in provincia.
Verga
riprende l’idea romantica che considerava il popolo come produttore ingenuo di
poesia, serbatoio di energie morali. Il pessimista Verga solo in questo non fu
pessimista, sostiene Russo: nel fondo primitivo dell’umanità, seppe trovare una
sanità e una profondità di sentire, che non c’era più nelle società
aristocratiche e complicate.
A
distanza di un secolo dalla celebrazione appassionata che Russo ha fatto
dell’arte di Verga, possiamo chiederci quale sia stata la parabola dello
scrittore siciliano. Purtroppo è stata una parabola molto corta. Mentre D’Annunzio
ha influenzato per quasi mezzo secolo lo stile e i sentimenti di tutti gli impiegatucci d’Italia, la fama
di Verga ha avuto un momento alto nel secondo dopoguerra, e subito si è spenta, soffocata nella eccitazione edonistica e
nella avidità consumistica della ricostruzione economica, e in una condizione
di letargia politica e di compromessi segreti fra partiti di governo e forze di
opposizione. Molto presto la letteratura
e il cinema, che avevano tratto ispirazione dal magistero di Verga, si sono
ridotti al piccolo cabotaggio, all’intrattenimento psicologico e all’erotismo
da salotto.
Il
mondo contadino come lo aveva conosciuto Verga era già in via di estinzione. I
figli e i nipoti di quei contadini, diventati all’improvviso impiegati,
insegnanti e professionisti, non hanno più avuto la sobrietà e la pazienza dei
padri e dei nonni, ma si sono portati dietro tutto il peso di un egoismo che
per i loro antenati, padri e nonni, nelle estreme condizioni della loro
esistenza, era necessario e naturale, ma che in loro, i discendenti, ha assunto
un carattere meschino e corrotto.Il serbatoio di energie morali che, secondo Russo, Verga ha visto nel popolo, si è esaurito presto! Nella realtà, la sanità e i sentimenti profondi che lo scrittore siciliano ha trovato nel fondo primitivo dell'umanità sono solo uno stato passeggero legato ai cambiamenti sociali, ed è impossibile farci sicuro affidamento.
(continua al post successivo)
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