L’Anabasi è un drammatico e
avvincente racconto di avventure scritto con vivace semplicità. Ha due grandi
motivi di fascino. Il primo è che narra una impresa eccezionale: la lunga
marcia in territorio nemico di un esercito sconfitto che vuole tornare in patria.
Il secondo motivo è che Senofonte,
protagonista di quella avventura, descrive la vita e le battaglie di quell'armata con un realismo che rende i lettori testimoni trepidanti e
meravigliati di com’era il mondo quattrocento anni prima di Cristo.
“Niente di più singolare,
ha scritto lo storico e critico Hippolyte Taine, di questa armata greca,
repubblica errante che delibera e agisce, che combatte e vota, sorta di Atene
nomade nel cuore dell’Asia, con i suoi sacrifici, la sua religione, le sue
assemblee, le sue sedizioni, le sue violenze, ora in pace ora in guerra, in
terra e in mare, di cui ogni evento testimonia e rivela una facoltà e un
sentimento… A ogni pagina, Senofonte parla di foraggio, di viveri, della
pioggia, della polvere; racconta come, la notte dopo la battaglia, essi
uccidessero i buoi e gli asini superstiti e li facessero cuocere dando fuoco
agli scudi, ai carri, alle frecce raccolte nella piana… Si vedono nel suo libro, una quantità di
questi quadri, proprio come li dipingono i pittori di scene militari,
l’accampamento, gli assembramenti che si formano, le tende che si drizzano, le
cucine che si installano, il fumo che sale fra gli alberi, tutta la trasandata
improvvisazione della vita vagabonda, tutta la regolarità della vita sottoposta
a disciplina, e questa mescolanza di poesia e di verità, di dettagli intimi e
di avventure singolari che toccano il gusto in ogni punto della sensibilità e
arrecano piacere da ogni parte”.
Nel susseguirsi rapido e concitato degli avvenimenti i personaggi raccontati da
Senofonte sono appena abbozzati. Tuttavia alcuni ritratti sono interessanti,
disegnati con sottili osservazioni psicologiche. Se il ritratto di Ciro, il principe persiano
al cui servizio erano i mercenari greci per spodestare dal trono il fratello Artaserse,
è solo un panegirico, gli strateghi greci
attirati dal generale persiano Tissaferne nella sua tenda e fatti decapitare
alla presenza del re, sono descritti accoratamente o con severo
disprezzo, con i sentimenti, cioè, di chi li ha conosciuti bene e desidera che siano ricordati.
Di Clearco Senofonte dice:
“ La sua presenza disponeva
subito gli animi a obbedire senza riserve, e questo lo otteneva mostrandosi
severo: sempre accigliato il volto, la voce aspra, puniva duramente,
lasciandosi talvolta trascinare dall’ira, tanto che poi se ne pentiva”.
Ma nei pericoli “la sua
asprezza valeva come prova di forza contro i nemici: perciò non appariva più
oggetto di timore, ma strumento di salvezza”.
Nessun soldato provò mai
amicizia o affetto per Clearco, ma quelli che erano costretti a stare ai suoi
ordini gli erano obbedientissimi.
Un altro stratego, Prosseno,
trucidato appena trentenne, si era unito a Ciro con l’ambizione di diventare
qualcuno, acquistare prestigio e grandi ricchezze.
“Non si sarebbe tuttavia
permesso mai di arrivare a nessuna di queste cose, per quanto le bramasse, con
mezzi illeciti, persuaso fin nell’intimo che bisognava arrivarci per la retta
strada, e non per vie traverse… Non era capace di umiliare i soldati o di
incutere loro timore: aveva un rispetto verso i soldati, che essi certo non
avevano verso di lui, temeva più lui di riuscire odioso ai soldati, che essi di
mancargli di obbedienza”.
Di un terzo stratego, Menone,
Senofonte fa un ritratto degno della penna di Balzac.
“Menone, nato in Tessaglia,
aveva un’unica mira, diventar ricco ad ogni costo, ed agiva in questa direzione
in modo sfacciato… Era sempre pronto a passare dalla parte del più forte, per
non dover rendere conto delle sue malefatte. Conosceva un’unica via per
riuscire nelle imprese, la più breve, come diceva lui, quella di giurare il falso,
di mentire, di ingannare; essere candido e veritiero equivaleva per lui a
essere stupido. Si vedeva che non nutriva affetto per nessuno; mentre si
professava amico di uno, sotto sotto lo stava abbindolando. I nemici non li
scherniva mai, ma con quelli che erano vicini era ingiurioso e pesante. Non
poneva affatto l’occhio sui beni dei nemici (non vale la spesa tentar di
prendere la roba a chi è pronto a difenderla), invece conosceva bene l’arte di
appropriarsi dei beni che gli amici, per un senso di fiducia, non gli tenevano
sotto chiave. Si guardava da chi, come lui, sapeva giurare il falso ed essere
crudele, come da persona pericolosa, ma faceva tutti i comodi suoi con gli
individui che professavano religiosità, amore di verità, rettitudine. Menone si
vantava di darla ad intendere agli amici, di saperli ingannare e coprire di
disprezzo, come se si trattasse di gloriarsi di essere pio, giusto, veritiero;
chi non agiva con astuzia era per lui uno che non sapeva vivere…”.
Condannato a morte, non fu
ammazzato come gli altri, ma subì un anno di tormenti e poi finì come un
delinquente comune.
Il punto più alto e commovente
del racconto è quando i greci, dopo la morte di Ciro e l’uccisione dei loro
capi, si sentono perduti: sono circondati da città nemiche, lontanissimi dalla
loro patria, senza viveri, senza nessuno che li guidi nel cammino impervio del ritorno, pieno
di ostacoli e di pericoli, di fiumi non guadabili da attraversare e di montagne innevate da superare.
“Nell’esercito c’è un
ateniese, un certo Senofonte, non ricopre alcuna carica né di stratega, né di
locago (comandante inferiore), e neppure è soldato semplice”.
Senofonte, ispirato da un
sogno, si sveglia nella notte deciso a rianimare i suoi compagni e spingerli ad
affrontare con coraggio qualsiasi pericolo per tornare in patria. Balza su dal
letto, corre a chiamare alcuni locaghi e fa loro un
discorso infiammato: “Dobbiamo andare incontro alla lotta con animo pieno di
speranza”. I locaghi presenti invitano Senofonte ad assumere il comando. Solo
uno si oppone, un certo Apollonide, che è per la resa. Tutti i presenti sono indignati e gli chiedono di allontanarsi.
“Poi si passa da reparto a
reparto, per la chiamata a rapporto degli strateghi superstiti, dei
sottostrateghi al posto di quelli caduti, o dei locaghi scampati alla strage.
Tutti assieme, circa cento fra strateghi e locaghi, si portano al deposito
delle armi. E’ circa mezzanotte”.
Senofonte prende ancora la
parola:
“…Ora, per prima cosa, io
credo che voi renderete un grande servizio all’esercito, se provvederete a
nominare al più presto nuovi strateghi e nuovi locaghi in sostituzione di
quelli caduti. Senza comando non si fa nulla che persegua uno scopo, un
successo, in nessuna forma di attività, ma soprattutto nelle campagne militari.
L’ordine risulta sempre fonte di salvezza… Dopo la nomina degli strateghi è
necessarissimo riunire in assemblea anche gli altri soldati e rivolgere loro un
caldo appello…”.
L’ultimo a intervenire,
Chirisofo, ringrazia e loda Senofonte, e conclude:
“Adesso, amici, non
perdiamo tempo; appena fuori di qui si eleggano gli strateghi che occorrono, e
poi radunatevi nuovamente in mezzo al campo con i neo eletti. In un secondo
tempo raduneremo anche i soldati”.
Già albeggia quando si
concludono i lavori per l’elezione degli strateghi. I nuovi capi si radunano al
centro del campo, decidono di disporre sentinelle esterne e di ordinare l’adunata
generale.
Nei discorsi il
sentimento unanime è questo: “Andiamo incontro al nostro destino, sarà ciò che
gli dèi vorranno, e combattiamo con tutto il nostro valore”.
Senofonte invoca l’aiuto
degli dèi, e i soldati si inginocchiano di slancio. Senofonte chiede: “Chi
approva alzi la mano”. Tutti alzano la mano, e la solenne promessa agli dèi è
seguita dal canto del peana.
E' ammirevole questo esercito che si riorganizza e ritrova animo nelle poche ore di una sola notte. E' commovente la descrizione della sua ansia di salvarsi, della umana solidarietà che lo spinge, per eleggere i nuovi comandanti, ad adottare con stringente necessità le forme della democrazia. Questa è la repubblica errante di cui parlava Hippolyte Taine, questa è l’Atene
nomade nel cuore dell’Asia.
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