domenica 20 novembre 2016

Senofonte: Anabasi. Biblioteca universale Rizzoli, 1978.


L’Anabasi è un drammatico e avvincente racconto di avventure scritto con vivace semplicità. Ha due grandi motivi di fascino. Il primo è che narra una impresa eccezionale: la lunga marcia in territorio nemico di un esercito sconfitto che vuole tornare in patria.
Il secondo motivo è che Senofonte, protagonista di quella avventura, descrive la vita e le battaglie di quell'armata con un realismo che rende i lettori testimoni trepidanti e meravigliati di com’era il mondo quattrocento anni prima di Cristo. 
“Niente di più singolare, ha scritto lo storico e critico Hippolyte Taine, di questa armata greca, repubblica errante che delibera e agisce, che combatte e vota, sorta di Atene nomade nel cuore dell’Asia, con i suoi sacrifici, la sua religione, le sue assemblee, le sue sedizioni, le sue violenze, ora in pace ora in guerra, in terra e in mare, di cui ogni evento testimonia e rivela una facoltà e un sentimento… A ogni pagina, Senofonte parla di foraggio, di viveri, della pioggia, della polvere; racconta come, la notte dopo la battaglia, essi uccidessero i buoi e gli asini superstiti e li facessero cuocere dando fuoco agli scudi, ai carri, alle frecce raccolte nella piana…  Si vedono nel suo libro, una quantità di questi quadri, proprio come li dipingono i pittori di scene militari, l’accampamento, gli assembramenti che si formano, le tende che si drizzano, le cucine che si installano, il fumo che sale fra gli alberi, tutta la trasandata improvvisazione della vita vagabonda, tutta la regolarità della vita sottoposta a disciplina, e questa mescolanza di poesia e di verità, di dettagli intimi e di avventure singolari che toccano il gusto in ogni punto della sensibilità e arrecano piacere da ogni parte”.
Nel susseguirsi rapido e concitato degli avvenimenti i personaggi raccontati da Senofonte sono appena abbozzati. Tuttavia alcuni ritratti sono interessanti, disegnati con sottili osservazioni psicologiche. Se il ritratto di Ciro, il principe persiano al cui servizio  erano i mercenari greci per spodestare dal trono il fratello Artaserse, è solo un panegirico, gli strateghi greci attirati dal generale persiano Tissaferne nella sua tenda e fatti decapitare alla presenza del re, sono descritti accoratamente o con severo disprezzo, con i sentimenti, cioè, di chi li ha conosciuti bene e desidera che siano ricordati.
Di Clearco Senofonte dice:
“ La sua presenza disponeva subito gli animi a obbedire senza riserve, e questo lo otteneva mostrandosi severo: sempre accigliato il volto, la voce aspra, puniva duramente, lasciandosi talvolta trascinare dall’ira, tanto che poi se ne pentiva”.
Ma nei pericoli “la sua asprezza valeva come prova di forza contro i nemici: perciò non appariva più oggetto di timore, ma strumento di salvezza”.
Nessun soldato provò mai amicizia o affetto per Clearco, ma quelli che erano costretti a stare ai suoi ordini gli erano obbedientissimi.
Un altro stratego, Prosseno, trucidato appena trentenne, si era unito a Ciro con l’ambizione di diventare qualcuno, acquistare prestigio e grandi ricchezze.
“Non si sarebbe tuttavia permesso mai di arrivare a nessuna di queste cose, per quanto le bramasse, con mezzi illeciti, persuaso fin nell’intimo che bisognava arrivarci per la retta strada, e non per vie traverse… Non era capace di umiliare i soldati o di incutere loro timore: aveva un rispetto verso i soldati, che essi certo non avevano verso di lui, temeva più lui di riuscire odioso ai soldati, che essi di mancargli di obbedienza”.
Di un terzo stratego, Menone, Senofonte fa un ritratto degno della penna di Balzac.
“Menone, nato in Tessaglia, aveva un’unica mira, diventar ricco ad ogni costo, ed agiva in questa direzione in modo sfacciato… Era sempre pronto a passare dalla parte del più forte, per non dover rendere conto delle sue malefatte. Conosceva un’unica via per riuscire nelle imprese, la più breve, come diceva lui, quella di giurare il falso, di mentire, di ingannare; essere candido e veritiero equivaleva per lui a essere stupido. Si vedeva che non nutriva affetto per nessuno; mentre si professava amico di uno, sotto sotto lo stava abbindolando. I nemici non li scherniva mai, ma con quelli che erano vicini era ingiurioso e pesante. Non poneva affatto l’occhio sui beni dei nemici (non vale la spesa tentar di prendere la roba a chi è pronto a difenderla), invece conosceva bene l’arte di appropriarsi dei beni che gli amici, per un senso di fiducia, non gli tenevano sotto chiave. Si guardava da chi, come lui, sapeva giurare il falso ed essere crudele, come da persona pericolosa, ma faceva tutti i comodi suoi con gli individui che professavano religiosità, amore di verità, rettitudine. Menone si vantava di darla ad intendere agli amici, di saperli ingannare e coprire di disprezzo, come se si trattasse di gloriarsi di essere pio, giusto, veritiero; chi non agiva con astuzia era per lui uno che non sapeva vivere…”.
Condannato a morte, non fu ammazzato come gli altri, ma subì un anno di tormenti e poi finì come un delinquente comune. 
Il punto più alto e commovente del racconto è quando i greci, dopo la morte di Ciro e l’uccisione dei loro capi, si sentono perduti: sono circondati da città nemiche, lontanissimi dalla loro patria, senza viveri, senza nessuno che li guidi nel cammino impervio del ritorno, pieno di ostacoli e di pericoli, di fiumi non guadabili da attraversare e di montagne innevate da superare.
“Nell’esercito c’è un ateniese, un certo Senofonte, non ricopre alcuna carica né di stratega, né di locago (comandante inferiore), e neppure è soldato semplice”.
Senofonte, ispirato da un sogno, si sveglia nella notte deciso a rianimare i suoi compagni e spingerli ad affrontare con coraggio qualsiasi pericolo per tornare in patria. Balza su dal letto, corre a chiamare alcuni locaghi e fa loro un discorso infiammato: “Dobbiamo andare incontro alla lotta con animo pieno di speranza”. I locaghi presenti invitano Senofonte ad assumere il comando. Solo uno si oppone, un certo Apollonide, che è per la resa. Tutti i presenti sono indignati e gli chiedono di allontanarsi.
“Poi si passa da reparto a reparto, per la chiamata a rapporto degli strateghi superstiti, dei sottostrateghi al posto di quelli caduti, o dei locaghi scampati alla strage. Tutti assieme, circa cento fra strateghi e locaghi, si portano al deposito delle armi. E’ circa mezzanotte”.
Senofonte prende ancora la parola:
“…Ora, per prima cosa, io credo che voi renderete un grande servizio all’esercito, se provvederete a nominare al più presto nuovi strateghi e nuovi locaghi in sostituzione di quelli caduti. Senza comando non si fa nulla che persegua uno scopo, un successo, in nessuna forma di attività, ma soprattutto nelle campagne militari. L’ordine risulta sempre fonte di salvezza… Dopo la nomina degli strateghi è necessarissimo riunire in assemblea anche gli altri soldati e rivolgere loro un caldo appello…”.
L’ultimo a intervenire, Chirisofo, ringrazia e loda Senofonte, e conclude:
“Adesso, amici, non perdiamo tempo; appena fuori di qui si eleggano gli strateghi che occorrono, e poi radunatevi nuovamente in mezzo al campo con i neo eletti. In un secondo tempo raduneremo anche i soldati”.
Già albeggia quando si concludono i lavori per l’elezione degli strateghi. I nuovi capi si radunano al centro del campo, decidono di disporre sentinelle esterne e di ordinare l’adunata generale.
Nei discorsi il sentimento unanime è questo: “Andiamo incontro al nostro destino, sarà ciò che gli dèi vorranno, e combattiamo con tutto il nostro valore”.
Senofonte invoca l’aiuto degli dèi, e i soldati si inginocchiano di slancio. Senofonte chiede: “Chi approva alzi la mano”. Tutti alzano la mano, e la solenne promessa agli dèi è seguita dal canto del peana. 
E' ammirevole questo esercito che si riorganizza e ritrova animo nelle poche ore di una sola notte. E' commovente la descrizione della sua ansia di salvarsi, della umana solidarietà che lo spinge, per eleggere i nuovi comandanti, ad adottare con stringente necessità le forme della democrazia. Questa è la repubblica errante di cui parlava Hippolyte Taine, questa è l’Atene nomade nel cuore dell’Asia.

 

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