Fu all’inizio degli anni
Sessanta che la nostra scuola cominciò a cambiare e a diventare facile, leggera e “democratica”.
Ebbe inizio allora un
processo di trasformazione profondo e di lunga durata, che molti hanno salutato con entusiasmo solo perché appariva come un processo di
modernizzazione. Ma la modernizzazione in sé non è un valore positivo. La storia
del Novecento dovrebbe averci vaccinato contro un simile candido e ottuso
ottimismo.
La vecchia scuola
elementare aveva il compito di insegnare a leggere, scrivere e far di conto
alla totalità della popolazione scolastica.
Si cominciava nella prima
classe dalle aste e dalle lettere dell’alfabeto, scritte e ripetute per decine
di pagine di quaderno, e si finiva, in quinta, con l’affrontare complessi
problemi di matematica e fare, con la massima precisione, l’analisi
grammaticale e logica di testi letterari.
Non è per niente esagerato ritenere che uno studente di scuola superiore di oggi abbia una
preparazione ben al di sotto di quella di un alunno della scuola elementare
degli anni Cinquanta.
Certo, la scuola ha
apparentemente superato i suoi limiti classisti e si è democratizzata, nel
senso che è diventata interamente obbligatoria e gratuita. Ma non è stata una
democratizzazione vera. Le masse sono state accolte nelle scuole superiori
appena il ruolo di queste scuole ha perso valore e importanza e il ‘pezzo di
carta’ non è più servito ad assicurare una carriera.
“Le continue ondate di
innovazione tecnologica, scrive Lucio Russo, che immettono nel mercato prodotti
sempre nuovi, spesso basati su tecnologie raffinate, richiedono masse di
consumatori ‘evoluti’, attenti cioè alle novità, capaci di mutare continuamente
le abitudini di consumo, abbastanza ‘colti’ per recepire rapidamente i messaggi
pubblicitari e leggere manuali di istruzioni, ansiosi di superare l’amico e il
vicino nella rapidità di acquisto dei prodotti dell’ultima generazione… La
nuova scuola deve quindi preparare soprattutto consumatori, oltre che contribuenti
ed elettori”, che possono tranquillamente fare a meno di qualunque tipo di
cultura generale.
Una scuola con la funzione
di avviare al consumo deve differire profondamente dal vecchio modello di
scuola. L’obiettivo non è più il futuro lavoro, ma la futura organizzazione del
tempo libero.
Per creare la nuova scuola
per consumatori occorre portare a compimento un processo di
‘deconcettualizzazione’, eliminando dall’insegnamento gli strumenti
intellettuali tradizionali, basati sull’uso di concetti teorici.
La scuola tende a diventare
un generico luogo di socializzazione, in cui gli studenti sono in larga misura
liberi di scegliere i contenuti delle attività scolastiche".
Lucio Russo critica
severamente le innovazioni introdotte dal ministro Luigi Berlinguer. Questi nel
1997 nominò una commissione di quaranta saggi con lo storico compito di
individuare ‘le conoscenze fondamentali su cui si baserà l’apprendimento dei
giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni’.
Il presidente della
commissione, Roberto Maragliano, dichiarò:
“Il videogioco è la più
grande rivoluzione epistemologica di questo secolo. Ti dà una scioltezza, una
densità, una percezione delle situazioni e delle operazioni che puoi fare al
loro interno che permette di esaltare dimensioni dell’intelligenza e dello
stare al mondo finora sacrificate dalla cultura astratta”.
E’ evidente che Maragliano
concepiva la scuola come una ludoteca.
“In lui, commenta Lucio
Russo, l’entusiasmo per le nuove tecnologie è quello tipico dell’acquirente
passivo, felice della novità e potenza del nuovo giocattolo”.
Per questo sembra del tutto naturale che giornalisti e intellettuali di oggi, quando vogliono fare una citazione colta
o poetica, non pensino a Machiavelli o a Leopardi, ma alle canzoni di Lucio Dalla, di Giorgio Gaber o
di Fabrizio De André, considerati fra gli artisti sommi della nostra epoca.
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