lunedì 12 settembre 2016

Thomas Mann, Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull. Gli Oscar Mondadori, 1965.



György Lukács, filosofo e critico letterario marxista, considerava le ‘Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull’ un grandioso romanzo umoristico che traeva il suo tema dalla vita reale, e “una grande opera d’arte che tocca importantissimi problemi dell’odierna esistenza borghese”.
Però, nel saggio che nel 1955 dedicò a quest’opera, Lukács fu avaro di  analisi stilistiche e letterarie che giustificassero un giudizio così entusiastico, mentre largheggiava in considerazioni ideologiche e sociologiche,  che a me sembrano fumose e ormai anacronistiche e che non dimostrano affatto, secondo il mio gusto, la grandezza del romanzo.
Lukács sottolinea la presenza nelle opere di Thomas Mann della “fede di poter svolgere – in una comunità umana rinnovata e rigenerata – un’attività ragionevole e piena di significato per sé e per la società”; e poi aggiunge:
“La prospettiva  della rigenerazione è un presupposto indispensabile, in quanto, senza di essa, non può trattarsi che di una riconciliazione egoistica, limitata o cinica con la società odierna. Conseguenza naturale di questa situazione è il carattere in qualche modo utopistico di queste prospettive. Sia che si aspetti la salvezza dell’umanità da un rinnovamento democratico della società borghese o dal socialismo destinato a sostituirla, l’uomo modellato su questa base non può sentirsi a suo agio direttamente nel presente, ma è cittadino di una società futura”.
Lukács scrive che la personalità di Felix Krull, come anche di altri protagonisti dei romanzi di Mann, non si manifesta in una riflessione e successiva approvazione, in un semplice ricordo, bensì in “una coscienza e autocoscienza contemporanea all’azione, che la fortifica e la promuove”. Da qui deriverebbero, secondo il critico ungherese, l’estrema leggerezza, l’incanto e la profondità di molte scene. 
Il culmine di questa incantevole e profonda leggerezza sarebbe raggiunto, secondo Lukács, quando “Krull, con una commedia sopraffina, ottiene di essere dichiarato inabile al servizio militare”.
Per lo più il filosofo ungherese mi appare come uno di quegli psicanalisti che, in modo arbitrario, senza dare spiegazioni, vogliono trovare in circostanze e atti lontani, dimenticati e insulsi l’origine di situazioni e atteggiamenti attuali e importanti.
La differenza è che per Lukács tutti gli elementi, anche minimi, della storia di Felix Krull portano a risultati di grande qualità artistica e di profondo significato politico.
Per esempio, la scena in cui Krull conduce il dialogo con l’ufficiale medico in modo tale da farsi scartare alla visita di leva, a me non sembra affatto una “commedia sopraffina”, ma un esempio di umorismo “da tavolino”, privo di vera vis comica, che può essere considerato appena piacevole.
E la scena erotica del ventenne Krull con l’attempata Madame Houpflé, scrittrice a tempo perso e moglie di un ricco commerciante, mi sembra viva e interessante in se stessa, semplicemente come felice espressione di quanto di eroticamente torbido si agita sempre nello spirito di Mann. Non parlerei, come fa Lukács, né di “incantesimo infernale” né di “gioco lezioso”.
La lunga lettera che Felix Krull, nei panni del marchese di Venosta, scrive ai genitori di costui è per Lukács “un piccolo capolavoro di autoparodia letteraria, dove il vero Venosta avrebbe snocciolato una semplice cronaca di gran lunga meno interessante”.
Che la lettera sia davvero interessante, proprio non direi, semmai è prolissa e molto studiata, come sono tutti i discorsi che Krull fa quando impersona il marchese di Venosta. Invece Lukács trova che “ovunque Krull è più ‘autentico’  dell’originale”.  
Ma questo si può dire di un qualsiasi ‘cafone’ di bella presenza e di buone maniere che, vestitosi con eleganza per partecipare a un pranzo di lusso, stia ben attento a usare sempre il coltello e la forchetta e a non mettersi mai le dita in bocca, cosa che invece un vero signore potrà anche fare con disinvoltura.
La parte più viva e memorabile del romanzo mi sembra la descrizione del lavoro in un grande albergo di lusso, con le inimmaginabili divisioni gerarchiche e di casta fra i vari ruoli e mansioni. Krull, cominciando come addetto agli ascensori, non ha nemmeno il permesso di affacciarsi nella hall, dove soggiorna la elegante clientela; e quando passa a fare il cameriere, il suo compito iniziale è soltanto quello di raccogliere dai piatti sporchi gli avanzi dei cibi. Queste pagine fanno venire in mente Dickens.
Accanto all’albergo e ai personaggi che lo popolano, altrettanto memorabile è la vivida descrizione della corrida a cui Krull, impersonando il marchese di Venosta, assiste a Lisbona, ospite del professor Kuckuck e della sua famiglia.
Qui ci sono due elementi che mi sembrano caratteristici di Thomas Mann e che, in ultima analisi, coincidono formando un unico atteggiamento morale: la pietà fisica (o forse l'attrazione) verso il possente animale tormentato fino alla morte e il decadente estetismo nella descrizione di Ribeiro, il torero diciannovenne.
Non posso giudicare il vero stile del romanzo, ma nella traduzione italiana di Lavinia Mazzucchetti esso mi sembra molto prolisso e lento, pieno di descrizioni che sono molto spesso semplici elenchi e compilazioni, e abbondante di riflessioni e di moralità che si dimenticano un attimo dopo averle lette.
Ed è significativo che uno dei pochi pensieri veramente interessanti non sia per niente nuovo, ma ha una tradizione che risale perlomeno a Seneca:
“La cultura non la si conquista nella servile fatica, essa è un dono della libertà e dell’ozio esteriore; non la si raggiunge, ma la si respira…. Certo che per venir così plasmati bisogna essere di materia plasmabile. Nessuno afferra quel che già non possiede per nascita, e quello che ti è estraneo non lo potrai mai desiderare. Se uno è fabbricato in un legno scadente, non giungerà mai a vera cultura”.

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