domenica 26 giugno 2016

Alessandro Robecchi sul Fatto Quotidiano del 22 giugno: "Perché il renzismo sta sulle palle a tutti".



Parecchi anni fa sul settimanale l’Espresso c’era una rubrica tenuta da Geminello Alvi, un intellettuale acuto e spiritoso, che quando parlava dei personaggi pubblici di allora, li giudicava partendo dai loro tratti fisiognomici, e arrivava in modo originale e perspicace a una valutazione che era sempre convincente e fondata.
Quando ho letto l’articolo simpatico e perfetto (nel senso di pienamente condivisibile) di Alessandro Robecchi, ho pensato che la faccia e la persona di Renzi offrono un materiale ideale, cioè unico, ad un appassionato di fisiognomica che voglia fare facili e brillanti esercitazioni.
“A cinquant’anni, ognuno ha la faccia che si merita” scrisse George Orwell in un suo romanzo. Ma Renzi, precoce e velocissimo anche in questo, non ha aspettato i cinquant’anni per farsi quella sua faccia da posatore, che si è definitivamente fissata in ogni dettaglio con almeno vent’anni di anticipo.
Alessandro Robecchi scrive che “Renzi, il renzismo, la renzitudine e la renzità stanno sulle palle a una larga fetta della popolazione, per vari motivi”.
Il primo sono le bugie, “ il ‘va tutto bene’, le fregnacce dell’Italia che riparte, la vecchia barzelletta che se dici che tutto procede per il meglio poi tutto procederà per il meglio”.
Renzi e i “gerarchi e gerarchetti del renzismo” costituiscono, scrive Robecchi, “una classe politica di ‘nuovi e giovani’ che nel vecchio Pci avrebbe a stento pulito i vetri della sezione, e oggi invece va in giro ostentando il cappello con le piume da statista”.
Ma l’osservazione più acuta di Robecchi è che il renzismo è irriformabile. “La cifra del renzismo conosce una sola modalità: quella della vittoria, della supremazia, della soddisfazione tronfia, della certezza di essere nel giusto. Se il renzismo mediasse, se ascoltasse, se guardasse la realtà, insomma, se facesse politica invece che propaganda, non sarebbe più renzismo, perché l’arroganza non è un orpello, ma un elemento strutturale, materia culturale e ideologica fondante”.
Robecchi fa il confronto fra Muhammad Ali e Matteo Renzi. Anch’io, guardando dei vecchi documentari ritrasmessi di recente dopo la sua morte, avevo pensato che le chiacchiere torrentizie e la spavalderia del grande pugile non erano irritanti, perché lui dimostrava di essere all’altezza delle sue vanterie sportive, e perché in quelle spacconate c’era sempre un elemento di scherzo e di autoironia, e poi perché, quando parlava di cose serie, della condizione dei negri o della guerra nel Vietnam, le parole, anche esagerate, di Muhammad Ali erano dette con il cuore, con una convinzione sincera e una spontaneità che Renzi non conosce.
Renzi conosce solo l’enfasi, le frasi fatte che s’imparano alla scuola elementare (del tipo: “Noi suoneremo le nostre campane”, “Il dado è tratto”, “La speranza è l'ultima a morire") e i triti modi di dire del calcio, della televisione e della pubblicità. Anche nelle occasioni ufficiali l'eloquenza di Renzi non sa elevarsi al di sopra di un gergo goliardico-sportivo-parrocchiale. Non possiede sentimenti autentici, a parte il sentimento di sé, che però non è consapevolezza ma vanagloria. Se a un politico manca la profondità dei sentimenti, mancano anche la competenza professionale e la cultura, e deve procedere solo con il pressappochismo di un furbo improvvisatore.
Renzi non è dunque in grado di correggersi. I suoi tratti dominanti sono l'enfasi e  l'artificio. Pur di mettersi in vista,  non rifugge nemmeno dalla imitazione più piatta. Lo dimostrano la sua faccia molle, la sua voce superficiale e vuota di risonanze, che sembra prestata da un ventriloquo, la mimica scomposta, i movimenti esagerati e il suo modo di camminare studiato e dondolante come quello del pistolero John Wayne, spauracchio cinematografico di banditi immaginari. 
Ex nihilo nihil fit. Da niente non può nascere niente.

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