Federico Rampini,
giornalista di Repubblica
e scrittore, ha partecipato domenica sera ad un programma televisivo
sull’attualità politica. E’ un intellettuale che ama presentarsi in maniche di
camicia con larghe e lussuose bretelle colorate, come i giornalisti (e i
gangster) americani degli anni Trenta e Quaranta che si vedono al cinema. Porta
una zazzera scarruffata e ormai grigia che sembra un diadema di genialità.
Un giornalista
conduttore della trasmissione gli chiede che cosa pensa della riforma del
senato voluta dal governo Renzi e come voterà al referendum del prossimo
ottobre.
“Beh, io vivo negli Stati Uniti e vedo le cose
da lontano. Di qui a ottobre dovrò studiare per conoscere meglio questa
riforma.... Quando ero piccolo... vivevo nel Nord Europa... genitori
italiani... sentivo sempre parlare di Amintore Fanfani... ve lo ricordate? e
delle sue riforme... Tutti dicevano che erano riforme autoritarie... invece si
sono fatte e non hanno avuto nessun effetto dannoso. Anche della riforma di
oggi si dice che introdurrà un regime autoritario, ma è del tutto esagerato.
Certo non è perfetta, si può migliorare, ma è un primo passo importante per
cambiare...”.
Ormai i progressisti di Repubblica parlano tutti alla
stessa maniera, recitando meccanicamente una filastrocca generica che sembra
imparata a memoria da un copione comune: ‘non so ancora se voterò... vivo a
Parigi ... vivo negli Stati Uniti... non conosco bene questa riforma... dovrò studiarla
con attenzione... ha certamente dei difetti... è senz’altro migliorabile... però
è sicuramente un primo passo avanti... ci
serve per uscire dalla palude’.
Di Federico
Rampini avevo un libro, ancora da leggere. Dopo aver ascoltato la sua melensa professione
di fede, l’ho preso dallo scaffale e l’ho fatto a pezzi.
Il tempo concesso a persone così geniali è tempo perduto: sanno raccontare con vivacità i fatti lontani, ma biascicano quando devono schierarsi sui problemi di casa.
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