martedì 17 maggio 2016

Sulla corruzione. Citazioni da Edward Gibbon (1737-1794), Storia della decadenza e caduta dell'impero romano. Einaudi, 1967.



L’impero romano, pur avviato a una inarrestabile decadenza e un inevitabile crollo, conobbe periodi di pace e di buon governo, lunghi anche alcuni decenni, durante i quali non mancarono imperatori, politici e generali di grande levatura. Cito alcuni passi quasi a caso.
“Egli [l’imperatore Probo, che governò dal 276 al 282] affidò le altre imprese [militari] alla cura dei suoi generali, l’oculata scelta dei quali forma una parte non trascurabile della sua gloria. Caro, Diocleziano, Massimiano, Costanzo, Galerio, Asclepiodato, Annibaliano e uno stuolo di altri capi, i quali poi occuparono o sostennero il trono, furono educati alle armi alla severa scuola di Aureliano e di Probo”.
Ma, oltre ai non pochi imperatori e ai molti generali dotati di grande tempra e valore, ci furono anche tanti ministri di qualità, e perfino senatori virtuosi.
“Il discernimento di Aureliano, di Probo e di Caro aveva collocato nei vari dicasteri dello stato e dell’esercito uomini di merito riconosciuto, l’allontanamento dei quali avrebbe nuociuto all’interesse pubblico”.
Nell’Italia di oggi, invece, trovare sulla scena pubblica personaggi competenti e capaci è impresa più ardua che cercare un ago in un pagliaio. Oggi la corruzione della società e delle categorie professionali è più capillare e pervasiva che al tempo dell’impero. La crisi delle istituzioni, se non si vuole dire che è irrimediabile, è quanto meno gravissima.  L’attività  culturale  è spenta, sostituita da noioso e mistificante intrattenimento. Il dibattito delle idee è scarso e  sopravvive solo grazie al sentimento del bene comune e al senso dello stato di pochi intrepidi intellettuali e giornalisti.
Non è fuori luogo né esagerato il paragone fra il lento declino dell’impero romano e la crisi italiana (ed europea). Penso addirittura che oggi noi ci troviamo in condizioni peggiori.  Stiamo vivendo, con una accelerazione vertiginosa, dei cambiamenti che, nel giro di pochi decenni, hanno trasformato (e ancor più stravolgeranno nel prossimo futuro) la vita del nostro paese, gli equilibri europei e mondiali e che, come si può prevedere dalla situazione già esistente, ridurranno i popoli alla condizione di masse amorfe e gelatinose.
Il processo è ampio, certo, e non colpisce solo un singolo paese; però noi italiani vi partecipiamo con un contributo speciale di incapacità, di egoismo e di incosciente illusionismo  (“Bella l’Italia che riparte!”, declama il presidente Renzi).
L’imperatore Decio, che governò solo due anni, dal 249 al 251, con “la sua mente, calma e serena nel tumulto della guerra, indagava le cause generali che avevano con tanto impeto affrettato la decadenza della romana grandezza. E non tardò a scoprire come fosse impossibile ristabilire quella grandezza su stabili fondamenta, senza far risorgere la pubblica virtù, gli antichi principȋ e costumi e l’oppressa maestà delle leggi. Per eseguire questo nobile ma arduo compito, decise anzitutto di ripristinare l’antico ufficio della censura”.
L’imperatore rimise la scelta del censore al libero voto del senato che, con acclamazioni unanimi, scelse Valeriano. Al momento dell’investitura, Decio ricordò al neoeletto censore la difficoltà e l’importanza del suo grande ufficio:
“...Accetta la censura degli uomini e giudica i nostri costumi. Tu sceglierai coloro che meritano di continuare a essere membri del senato, tu renderai all’ordine equestre il suo antico splendore, tu risanerai  le finanze, ma mitigando i tributi (...) Le tue decisioni avranno forza di leggi. L’esercito, la corte, i ministri  della giustizia e le più alte cariche dell’impero sono tutti soggetti al tuo tribunale...”.
In seguito il progetto non si realizzò per motivi generali, ma sul momento Valeriano era molto preoccupato.
“Egli modestamente allegò la paurosa grandezza dell’incarico, la sua propria insufficienza  e l’incurabile corruzione dei tempi. Insinuò accortamente che la carica di censore era inseparabile dalla dignità imperiale  e che le deboli mani di un suddito non potevano sostenere un così enorme peso di cure e di potere”.
E Edward Gibbon commenta:
“Un censore può conservare, ma non restaurare la moralità di uno stato. E’ impossibile che un tale magistrato eserciti utilmente, o almeno con efficacia, la sua autorità, se non è sostenuto da un vivo sentimento  dell’onore e della virtù nell’animo del popolo, da un reverente rispetto per la pubblica  opinione, e da una serie di utili convinzioni, che combattano in favore  del riformatore.  In un tempo in cui questi principȋ sono annullati,  la giurisdizione del censore non può che degenerare in una vana pompa (...) Era più facile vincere i Goti,  che estirpare i vizi”.
Senza farsi minimamente sfiorare da fondamentali considerazioni di questa natura, l’ottimistico e svagato governo renziano, per combattere la corruzione, ha creato un organismo puramente amministrativo, l’Autorità nazionale anticorruzione, il cui capo è il sorridente e rassicurante Raffaele Cantone, che pochi giorni fa ha avuto la buona grazia di dichiarare: “Non servono le manette per fermare la corruzione”.

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