L’impero romano,
pur avviato a una inarrestabile decadenza e un inevitabile crollo, conobbe
periodi di pace e di buon governo, lunghi anche alcuni decenni, durante i quali
non mancarono imperatori, politici e generali di grande levatura. Cito alcuni
passi quasi a caso.
“Egli [l’imperatore Probo, che governò dal 276 al 282] affidò le altre imprese [militari] alla cura dei suoi generali, l’oculata scelta dei quali forma una parte
non trascurabile della sua gloria. Caro, Diocleziano, Massimiano, Costanzo,
Galerio, Asclepiodato, Annibaliano e uno stuolo di altri capi, i quali poi
occuparono o sostennero il trono, furono educati alle armi alla severa scuola
di Aureliano e di Probo”.
Ma, oltre ai non
pochi imperatori e ai molti generali dotati di grande tempra e valore, ci
furono anche tanti ministri di qualità, e perfino senatori virtuosi.
“Il discernimento di Aureliano, di Probo e di Caro
aveva collocato nei vari dicasteri dello stato e dell’esercito uomini di merito
riconosciuto, l’allontanamento dei quali avrebbe nuociuto all’interesse
pubblico”.
Nell’Italia di oggi,
invece, trovare sulla scena pubblica personaggi competenti e capaci è impresa più
ardua che cercare un ago in un pagliaio. Oggi la corruzione della società e
delle categorie professionali è più capillare e pervasiva che al tempo
dell’impero. La crisi delle istituzioni, se non si vuole dire che è
irrimediabile, è quanto meno gravissima.
L’attività culturale è spenta, sostituita da noioso e mistificante
intrattenimento. Il dibattito delle idee è scarso e sopravvive solo grazie al sentimento del bene comune
e al senso dello stato di pochi intrepidi intellettuali e giornalisti.
Non è fuori luogo
né esagerato il paragone fra il lento declino dell’impero romano e la crisi
italiana (ed europea). Penso addirittura che oggi noi ci troviamo in condizioni
peggiori. Stiamo vivendo, con una
accelerazione vertiginosa, dei cambiamenti che, nel giro di pochi decenni, hanno
trasformato (e ancor più stravolgeranno nel prossimo futuro) la vita del nostro
paese, gli equilibri europei e mondiali e che, come si può prevedere dalla
situazione già esistente, ridurranno i popoli alla condizione di masse amorfe e
gelatinose.
Il processo è
ampio, certo, e non colpisce solo un singolo paese; però noi italiani vi
partecipiamo con un contributo speciale di incapacità, di egoismo e di incosciente
illusionismo (“Bella l’Italia che riparte!”, declama il presidente Renzi).
L’imperatore
Decio, che governò solo due anni, dal 249 al 251, con “la sua mente, calma e serena nel tumulto della guerra, indagava le
cause generali che avevano con tanto impeto affrettato la decadenza della
romana grandezza. E non tardò a scoprire come fosse impossibile ristabilire
quella grandezza su stabili fondamenta, senza far risorgere la pubblica virtù,
gli antichi principȋ e costumi e l’oppressa maestà delle leggi. Per eseguire
questo nobile ma arduo compito, decise anzitutto di ripristinare l’antico
ufficio della censura”.
L’imperatore
rimise la scelta del censore al libero voto del senato che, con acclamazioni
unanimi, scelse Valeriano. Al momento dell’investitura, Decio ricordò al
neoeletto censore la difficoltà e l’importanza del suo grande ufficio:
“...Accetta la censura degli uomini e giudica i nostri
costumi. Tu sceglierai coloro che meritano di continuare a essere membri del
senato, tu renderai all’ordine equestre il suo antico splendore, tu risanerai le finanze, ma mitigando i tributi (...) Le
tue decisioni avranno forza di leggi. L’esercito, la corte, i ministri della giustizia e le più alte cariche dell’impero
sono tutti soggetti al tuo tribunale...”.
In seguito il
progetto non si realizzò per motivi generali, ma sul momento Valeriano era molto
preoccupato.
“Egli modestamente allegò la paurosa grandezza
dell’incarico, la sua propria insufficienza
e l’incurabile corruzione dei tempi. Insinuò accortamente che la carica
di censore era inseparabile dalla dignità imperiale e che le deboli mani di un suddito non
potevano sostenere un così enorme peso di cure e di potere”.
E Edward Gibbon
commenta:
“Un censore può conservare, ma non restaurare la
moralità di uno stato. E’ impossibile che un tale magistrato eserciti
utilmente, o almeno con efficacia, la sua autorità, se non è sostenuto da un
vivo sentimento dell’onore e della virtù
nell’animo del popolo, da un reverente rispetto per la pubblica opinione, e da una serie di utili convinzioni,
che combattano in favore del
riformatore. In un tempo in cui questi
principȋ sono annullati, la
giurisdizione del censore non può che degenerare in una vana pompa (...) Era
più facile vincere i Goti, che estirpare
i vizi”.
Senza farsi
minimamente sfiorare da fondamentali considerazioni di questa natura, l’ottimistico
e svagato governo renziano, per combattere la corruzione, ha creato un
organismo puramente amministrativo, l’Autorità nazionale anticorruzione, il cui
capo è il sorridente e rassicurante Raffaele Cantone, che pochi giorni fa ha avuto
la buona grazia di dichiarare: “Non servono le manette per fermare la
corruzione”.
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